di Valerio Argo
Geraldina Colotti, Quel sole e quel cielo, La Città del Sole, Napoli, 2020, pp. 82, € 12,00.
«Maledetto / quel sole / e quel cielo»: nel suo nuovo libro di poesie Geraldina Colotti affronta la maledizione che si è abbattuta su cui ha alzato lo sguardo verso il sol dell’avvenire e ha tentato la scalata al cielo. I capitoli stessi in cui è suddivisa l’opera parlano della via crucis dei militanti comunisti: Agliuto (trascrizione della pronuncia infantile della parola aiuto), Sbagli, Restituzioni, Tutto finisce e Titoli provvisori.
Psicoanalisi, sociologia e immaginazione: applicando gli strumenti fondamentali dell’indagine post-materialista di sé e della realtà, da Adorno a Zizek, con un gusto per la pittura e l’autoritratto espressionista che ricorda Frida Kalo, in Quel sole e quel cielo Colotti attraversa la storia individuale e collettiva. Il suo è un attraversamento condotto nell’unica posizione possibile per chi è stato bandito dalla comunità, quindi sottoterra, scavando come le Talpe a Caracas, di cui l’autrice ha trattato in una precedente opera, saggistica, sul Venezuela chavista.
Quel sole e quel cielo si apre con la negazione primaria che segna il destino non solo degli oppressi ma anche dei ribelli e che è innanzitutto la negazione dell’ascolto per chi si esprime in modo sgrammaticato, non rispettando quindi, fuor di metafora, le regole dominanti: «Ho chiesto agliuto / sbagliando parola / nessuno è venuto / finisco da sola» (in [Ho chiesto agliuto]). A prendere la parola è un’adulta che ricorda di quando fu definita «bambina cattiva», iniziando con chi legge una seduta di autocoscienza utile a rielaborare il trauma nato dalla negazione. Come ogni seduta di autoanalisi, la tecnica utilizzata per consentire a ciò che è stato rimosso di emergere è il pensiero in libertà, l’associazione di idee, il paroliberismo.
Colotti, al contrario di quanto si potrebbe pensare per chi conosce il suo percorso di guerrigliera fedele alla linea, non scansa l’irrazionalità, non si rifà al razionalismo sovietico, anzi si getta a capofitto nel caos dell’inconscio. Dopo aver ricordato che «Dovevi star zitta / zitta / Zitta», la mente restituisce immagini che si sovrappongono le une alle altre fino al trittico surreale di «indiani santi e sirene»: «Il banco è vuoto / vuota la panchina / ridono i bambini // terrona cicciona balena // nell’abbaìno indiani santi e sirene». È ancora operante la poetica, esplicitata nel precedente La guarda è stanca: «Contro il liberismo, / versoliberismo» (Poeticanti).
Che la «bambina cattiva», la «maledetta» sia l’autrice stessa è confermato dall’epiteto «terrona» affibbiatole dai bambini: in effetti, Colotti è nata a Ventimiglia nel 1956 da genitori emigrati dalla Puglia tre anni prima, padre muratore e madre casalinga. Anche l’approccio psicoanalitico è un indizio autobiografico: dopo avere frequentato il liceo classico, Colotti si è laureata in filosofia all’università di Genova con una tesi proprio ad indirizzo psicoanalitico. E fu all’università che negli anni Settanta l’autrice conobbe la lotta armata, a cui si dedicò fino a quando nel 1987 venne arrestata e condannata a 27 anni di carcere, scontati senza pentirsi, fino a riacquistare i diritti civili.
Il suo percorso politico ed esistenziale si riflette nelle sue poesie, da Versi cancellati (1996) a Sparge rosas (2000) fino a La guardia è stanca (2010), dove i temi del carcere e della lotta armata erano trattati con frequente ironia. In Quel sole e quel cielo di ironia non c’è quasi più traccia. Se prima la sconfitta era contemplata dall’interno di una vasta comunità di compagni e compagne, imperniata attorno al collettivo «il manifesto», Colotti è sempre più «da sola», come dichiarato nella citata poesia d’apertura del nuovo libro («nessuno è venuto / finisco da sola»). Eppure qualcosa di ulteriore strappa l’individuo alla sua solitudine e lo trascende nella dimensione collettiva, totalizzante e assolutizzante («È tutto è tutto è l’assoluto») della lotta («siamo fuoco / e dinamite»), che però non è una comunità protetta, una chiesa («l’autentico non ha paracadute // non c’è elemosina / non ci sono preti»). Nella comunità a cui guarda Colotti vale la regola Assommons les pauvres!, enunciata da Baudelaire nei Pétits poèmes en prose, che nei versi dell’autrice suona così: «ruba al mendico / la pietà ti uccide».
La parola poetica di Colotti si frange, spesso, in versicoli («Ombre di confine / sperimento in volo / la caduta»), alla maniera di quelli usati da Ungaretti in trincea e come quella di Ungaretti è una parola scavata, ma non nell’abisso, bensì «nel marcio del pozzo». Anche perché l’abisso in cui precipita Colotti non è quell’animo, spirituale ma quello carcerario, materiale, dove «battono le chiavi / su grosse sbarre»; è il «buco», dove si agitano creature perdute: «Privo di senso e tempo / un essere nel buco si scatena / di rabbia e morsi trema».
In Quel sole e quel cielo si cerca per vie poetiche una linea che leghi le donne in lotta, dai tempi delle streghe («A capo chino / come bestie da soma / portano fascine al rogo / chi accende per primo / ringhiando al vicino / l’eretica sputa / lasciando tracce / sulle fiaccole accese / sono streghe») a quelli delle femministe («Per linee di fuoco / Alle antenate / Madri mancate / Per scelta / Roma Parigi Berlino / Il ‘68 e il ‘69 a Torino a Milano / Vengono a fiumi le mani / Cullano o sparano / O si chiudono a pugno / Ti invitano al largo / Tra l’onda e l’abisso»). Si rivendica per le combattenti («Suore anarchiche / Paniche o guide / Per dirupi e foreste / Sorelle d’ombra / Per voci e deserto») un ruolo da protagoniste, ancora negato: «Perché i capolavori / ci vedono civette staffette / comunque riflesse / nell’angolo più opaco?». Torna in primo piano il pensiero della differenza e la sua necessità rivoluzionaria: «Pensare la differenza / di genere / significa ripensare / il mondo / agirla vuol dire / cambiarlo / nel profondo / – dici – / La lotta delle donne / non ha confini / si dividono i piani / filippine».
Il pensiero della differenza impone di distinguersi anche nell’uso del linguaggio e anche se è quasi scomparso, rispetto ai libri precedenti, il comico che rovescia, nelle declinazioni dell’ironia e del calembour, fa capolino anche in questa opera: «Immagina… / buoi» (invece del pubblicitario «Immagina… / puoi»); «Rima bandita? / Bandita / rima»; «Pace Pacifica / Pulisce l’Ovile / Con Ace Gentile»; «E il giornalista / come rana / in fondo al pozzo / guarda il cielo / e vede riflesso / il proprio culo»; ecc.