Per il decimo anniversario della rivoluzione tunisina non ci sono state celebrazioni, il governo ha infatti dichiarato quattro giorni di quarantena e la crisi economica di lungo corso non dà adito a un’atmosfera festosa. Da dieci giorni si sono invece susseguiti scontri tra giovani e polizia nei sobborghi della capitale Tunisi e in molte altre località emarginate del paese. L’esercito è stato schierato e sarebbero almeno mille gli arresti. Pubblichiamo questo articolo di Thierry Brésillon, originalmente pubblicato da Middle East Eye. Traduzione di Francesco Cargnelutti e Marco Miotto.
Dal 15 gennaio, la Tunisia è teatro di scontri nei quartieri popolari di quasi tutte le città del paese. Sono semplici atti di delinquenza o il risorgere di una protesta politica a distanza di dieci anni dalla rivoluzione?
I quartieri popolari si sono autoinvitati alla celebrazione del decimo anniversario della fuga del presidente Ben Ali, il 14 gennaio, e lo scontro sociale annunciato da mesi, ineluttabilmente, ha finito per manifestarsi. Il governo ha provato a evitare che il ricordo degli avvenimenti del 2011 facesse da scintilla nella polveriera, decretando una chiusura completa di quattro giorni (da giovedì 14 a lunedì 18 – battezzato “ponte-down” da degli internauti maliziosi) dall’efficacia sanitaria discutibile? In questo caso, il tentativo è andato a vuoto.
Al posto del lugubre e defilato rituale sull’Avenue Bourguiba a Tunisi (teatro dell’ultimo atto dell’insurrezione davanti al Ministero degli Interni), dove degli stanchi clown tentavano ogni anno di intrattenere gli astanti dopo la sfilata delle organizzazioni politiche, un’ondata di violenza notturna si è sparsa nella maggior parte delle città del paese.
Dalla notte del 15, gli scontri fra la polizia e i giovani dei quartieri popolari hanno lasciato il segno: copertoni in fiamme per sbarrare le strade, furti negli esercizi commerciali, attacchi a edifici pubblici e banche, lanci di pietre sui veicoli delle forze dell’ordine… La risposta securitaria sembra per il momento alimentare l’incendio. I manifestanti vengono malmenati, 632 sono stati arrestati secondo i dati del Ministero degli Interni [gli arresti sono poi saliti a più di mille], tra cui persone accusate di “incitazione” agli scontri sui social media. Retate della polizia si sono abbattute su quartieri inondati di gas lacrimogeno e l’esercito è stato schierato nei governatorati di Sousse, Kasserine, Siliana e Bizerte. Alcuni blindati della Guardia Nazionale pattugliano dalla sera del 18 gennaio le strade di Hay Tadhamon, uno dei più grandi quartieri popolari della periferia di Tunisi.
La risposta è anche mediatica: gli scontri vengono descritti dalla maggior parte dei commentatori come atti di pura delinquenza e vandalismo a causa dei loro obiettivi e della giovane età dei manifestanti, perlopiù minorenni.
Corruzione e povertà all’origine della rabbia
Politica o criminalità? Il dibattito si ripete ogni volta che si danno scontri sociali senza rivendicazioni esplicite. La liquidazione delle manifestazioni è, evidentemente, un modo di giustificare l’utilizzo della forza e di inibire l’empatia nei confronti delle vittime. Essa permette inoltre alle organizzazioni di rivendicare il monopolio della parola e agli storici di limitare il loro sguardo alle sfere superiori della società. “Le contestazioni si svolgono di giorno davanti ai palazzi del potere” commentava sabato sera al telegiornale Walid Hakima, portavoce della direzione generale della sicurezza nazionale.
Eppure, per loro natura, le rivolte non sono saggiamente ordinate secondo i quadri definiti dalla legge. Che una qualificazione penale possa essere applicata a un atto non esclude il suo significato politico. Ora, per quanto riguarda il movimento in corso, questo è ovvio. In primo luogo, per le motivazioni. La geografia periurbana degli scontri designa le zone dove l’economia informale e il lavoro precario costituiscono le fonti primarie di sussistenza, precisamente le più impoverite dalla chiusura. In questa economia di sopravvivenza, il furto tende a diventare una risorsa complementare. Una nuova chiusura, anche se di breve durata, e un coprifuoco più severo esacerberebbero ulteriormente tali difficoltà. In queste condizioni, le relazioni storiche tra la polizia e i giovani dei quartieri popolari non possono che peggiorare. La risposta della polizia alle proteste dei giovani sostenitori del Club Africain, la settimana precedente, ha rincarato la dose.
La confusione della classe politica – incapace da dieci anni di mantenere le promesse di uguaglianza, integrità e dignità della rivoluzione – si aggiunge alla diffidenza nei confronti dello Stato e alla perdita di fiducia nelle istituzioni rappresentative. Il “popolo”, la parte della società che la “rappresentanza” istituzionale non rappresenta, rinfresca così la memoria dei suoi governanti.
Il sindacato UGTT, il Forum tunisino dei diritti economici e sociali e l’Associazione tunisina dei giovani avvocati (ATJA) hanno messo in evidenza nei loro rispettivi comunicati la responsabilità dei governi post-2011 per quanto riguarda il degrado della situazione sociale, l’aggravarsi della corruzione e “la deviazione della rivoluzione verso gli interessi delle lobby” (ATJA).
L’UGTT ritiene che “accontentarsi delle soluzioni repressive, spingendo gli apparati di sicurezza e militari allo scontro con la popolazione, non risolverà i problemi di centinaia di migliaia di giovani emarginati”. Il sindacato chiede in ugual misura ai manifestanti di rinunciare ai saccheggi, ai danneggiamenti e alle “manifestazioni notturne, a causa di possibili infiltrazioni ed eccessi”.
L’ATJA fa appello alle “organizzazioni nazionali e a tutte le forze vive a coordinarsi immediatamente e urgentemente per strutturare le manifestazioni, correggendo i loro obiettivi”.
In realtà, queste manifestazioni mostrano anche come le organizzazioni investite della missione di portare avanti gli obiettivi della rivoluzione non siano riuscite ad articolare le frustrazioni popolari in una piattaforma politica. È poco probabile che i giovani esasperati prestino più ascolto a loro che alle autorità pubbliche.
“Le rivolte degli affamati”
Il movimento è politico anche nelle sue modalità. La simultaneità dei disordini a livello nazionale e la somiglianza degli obiettivi, nonostante l’assenza di organizzazione, mostrano che un’intera parte della popolazione condivide la stessa esperienza, gli stessi antagonismi, lo stesso modo di rappresentare il giusto e l’ingiusto. Questa coscienza immanente non è solo una proiezione teorica su azioni dalle motivazioni “bassamente” e strettamente materiali. “È la rivolta degli affamati”, annuncia uno slogan dipinto su un muro di Kabbariya, quartiere della banlieue sud di Tunisi.
Se gli obiettivi degli attacchi non sono i “luoghi della sovranità”, essi hanno, per gli insorti, un significato che travalica la loro funzione: il saccheggio dei supermercati, il cui “bottino” è del resto costituito essenzialmente da prodotti di prima necessità, rimanda evidentemente alle difficoltà nel soddisfare i propri bisogni.
Ma questi attacchi prendono di mira anche coloro che sono accusati di arricchirsi mentre la popolazione si impoverisce. Si può perfino ammettere l’ipotesi che i minimarket della catena Aziza, molto presenti nei quartieri popolari, siano presi di mira perché notoriamente vicini al partito Al-Nahda, ormai identificato col potere (rappresenta la prima forza in parlamento).
Perfino i “saccheggi” hanno valore di rivendicazione nelle intenzioni dei responsabili: “Volete che restiamo disoccupati a vita? Presto ci ritroveremo a mangiare ferrivecchi! Presto ci ritroveremo a mangiarci gli uni con gli altri!”, ha gridato un giovane manifestante di Zahrouni, non lontano da Tunisi, intervistato domenica dal reporter di Tunisie Info, un canale video online.
Quanto alle banche e agli uffici postali, la loro presenza nei quartieri dove il risparmio e il credito bancario sono inaccessibili risuona come una provocazione. Il senso politico degli scontri con la polizia, istituzione sovrana ammesso che ce ne sia una, si spiega da sé.
“Il popolo recupera la sua rivoluzione”
La sordità del governo e la durezza della repressione accentuano il contenuto esplicitamente politico delle manifestazioni: “Siamo in continuità col 2010 e il 2011 perché niente è cambiato, il potere ha impoverito ulteriormente le persone ed emarginato ancora di più le regioni. Prima avevamo un problema con la famiglia corrotta di Ben Ali. Oggi abbiamo un problema con la nuova famiglia al potere, la famiglia nahdaui [del partito al-Nahda], e con gli affaristi corrotti, quelli che c’erano anche prima insieme a quelli nuovi!”, s’indigna un manifestante evidentemente politicizzato, di Jelma, località rurale nel centro del paese.
Se il messaggio diretto alla classe politica mostra piuttosto diffidenza, il presidente Kais Saied, la cui elezione deve molto a questa parte emarginata della società, è interpellato come un salvatore, ma un salvatore la cui inazione e silenzio suscitano incomprensione e cominciano a prendere le sembianze di un tradimento: “Ho un messaggio per il presidente”, esclama il manifestante interrogato a Zahrouni. “Svegliati, è stato il popolo a eleggerti, bisogna veramente che ti svegli, signor Presidente!”.
Il pomeriggio del 18 gennaio, il capo di stato è andato a incontrare la popolazione di Mnihla, a ovest di Tunisi, dove ha dichiarato, in mezzo alla folla: “So che i giovani sono assediati dalla povertà. Ma voglio che non aggrediate nessuno, né che attacchiate le proprietà e le istituzioni. Avete il diritto di esprimervi, ma voglio che diate una lezione al mondo. Non siamo un popolo che agisce nell’oscurità, ci sono persone che vogliono usarvi di notte! Non lasciatevi usare. Al contrario, siate coloro che proteggono le istituzioni”, prima che una persona tra il pubblico lo interpellasse: “Signor presidente, sopprimete i partiti politici! Sono loro che hanno rovinato il paese!” e che la folla urlasse: “Dissolvete il parlamento!”. Spettacolare spostamento della rabbia, in dieci anni, dalla presidenza al parlamento, che dovrebbe incarnare la democrazia ma che tuttavia è diventato il simbolo della corruzione.
Il giorno stesso, vicino al centro della capitale, le forze dell’ordine si sono scontrate con i manifestanti che urlavano al capo del governo: “Mechichi venduto, richiama i tuoi cani e dimettiti!” e anche “Martiri, è di nuovo rivoluzione!”.