“Pachamama by Juan Manuel Rama” by Tom_Stahl is licensed under CC BY-NC-ND 2.0
di Raffaella Bolini
Negli ultimi giorni sui media è stato dato rilievo a una scoperta recente: al contrario di ciò che per molto tempo si è creduto, le donne Neanderthal erano cacciatrici al pari degli uomini, e artiste.
Ritorna l’antico e sempre più pressante interrogativo: quando l’essere umano ha cominciato a costruire la gerarchia che governa il mondo, quella che mette l’uomo al di sopra della donna, l’uomo dominante al di sopra del dominato, l’essere umano al di sopra della natura? Dove nasce la nostra brama distruttiva di potere e dominazione, che ci sta facendo andare dritti verso l’ecocidio e verso il suicidio?
Gli studiosi discutono su quando sia accaduto, ma una cosa possiamo dirla con certezza: siamo gli unici esseri viventi che hanno saputo e voluto rifiutare di far parte della catena della vita che lega tutti i viventi del pianeta: invece che farne parte e accettare di esserne un anello, l’abbiamo messa al nostro servizio.
I sofisticati e complessi meccanismi del pianeta sono tutti orientati alla riproduzione della vita stessa e dell’equilibrio che la consente. Noi, questo equilibrio lo abbiamo ripudiato.
La natura è nel corso della storia diventata funzionale solo alla nostra specie. E’ diventata cosa e poi è diventata merce: inanimata, scambiabile e vendibile, proprietà degli umani o, meglio, dei più forti degli umani.
Ci siamo sottratti alla catena e all’equilibrio della vita e abbiamo compiuto un dirompente atto di dominazione. Dominazione degli uomini sulla natura e su altri esseri umani. Dominazione sulle donne, che tanto potere hanno invece in natura.
Potere, separazione delle forme di vita, patriarcato e costruzione di una gerarchia funzionale al dominio vanno insieme e di pari passo, nella storia umana, in tutta la storia umana, ben prima che nel sistema capitalistico. Con eccezioni e resistenze, certo. Anche grandi. E tutte sconfitte.
Nell’epoca moderna, tutto ciò si è radicalizzato nei passaggi dal capitalismo mercantile alla industrializzazione, fino alla globalizzazione neoliberista, e anche nelle esperienze socialiste che si sono fatte governo e stato.
Ora, siamo arrivati a un bivio della vicenda umana sulla terra: possiamo proseguire seguendo il sentiero che ci ha portati fin qui, credendoci i padroni del mondo, continuando a segare il ramo su cui siamo seduti.
Possiamo andare avanti così, permettendo che la logica di dominio non riconosca il valore della vita né della natura e neppure della maggioranza della specie umana, con il picco della diseguaglianza e dell’esclusione ogni giorno più estremo.
O cambiare strada, rimettendo in discussione il senso del nostro stare al mondo in maniera profonda e totale. La pandemia ci ha detto che, per quanto abbiamo provato a tirarcene fuori, siamo sempre e solo una componente della catena della vita sul pianeta e che dalla salute della vita del pianeta dipendiamo. Ci ha detto che siamo interdipendenti: per stare al sicuro, bisogna che tutta la vita sul pianeta stia al sicuro.
Per questo il paradigma della cura è davvero e totalmente rivoluzionario. Ristabilisce il primato assoluto della riproduzione fisica e sociale della vita sulla terra rispetto alla produzione di merci. Rimette al centro l’accudimento di tutta la vita e delle relazioni che la legano, al posto del dominio. Abbatte le gerarchie e ricostruisce unità e interdipendenza fra il destino degli umani, di tutti gli esseri viventi, del territorio e del pianeta.
Ci ricolloca laddove dobbiamo stare, dentro la catena della vita e dentro la dimensione della comunità, che è fatta di umani, viventi non umani, elementi naturali -l’acqua dolce, la terra, il mare, la vegetazione- così come delle identità e delle culture prodotte dalla interrelazione fra tutti questi elementi.
Salva le donne dalla condanna della cura, perché tutta la società si occupa di curare e di accudire noi stessi, gli altri, il pianeta. Se siamo capaci di imporre questa rivoluzione, ci si offre una via di uscita dalla cultura dello sterminio.
E’ rivoluzionario, il paradigma della cura, e quindi non si affermerà senza conflitto. Ma è l’unico conflitto che vale la pena praticare. Non sarà certo facile.
Nel tempo scandito dal collasso climatico, il tempo del cambiamento necessario non è infinito.
L’impegno ad accelerarne i tempi fa parte della responsabilità storica di questa generazione, a differenza di quelle passate.
E ora siamo anche consapevoli che i mezzi devono essere adeguati ai fini e, dunque, le forme di lotta non possono prevedere forme di dominazione e di sopraffazione.
E allora, come si conciliano i tempi lunghi della democrazia con l’urgenza del cambiamento radicale necessario? E’ il grande dilemma di questi tempi inediti.
Di sicuro, abbiamo bisogno di reinserire a forza nel pensiero politico altri saperi, negando il monopolio del pensiero economico, e ricostruire un pensiero olistico che includa fra gli altri la storia, l’antropologia, l’etologia, la biologia, la psicologia, i saperi educativi e relazionali, il pensiero femminista ed eco-femminista.
Vanno recuperate alla politica le sfere dell’etica, delle emozioni, dei sentimenti e della spiritualità, perché noi e la natura non siamo solo materia e la ricerca di senso non è comprimibile. Abbiamo bisogno del pensiero e delle pratiche non occidentali, periferiche, ancestrali e originarie, perché dobbiamo avere il coraggio di de-colonizzare il nostro pensiero.
Bisogna dare maggior valore culturale e dimensione politica a tutte le pratiche sociali, relazionali, produttive che accudiscono e si prendono cura del mondo, del pianeta, dei beni comuni, della società malata, degli esclusi. E fare in modo che le pratiche alternative e autogestionarie assumano, e siano riconosciute, nella loro valenza costituente di una nuova società.
Abbiamo da rammendare tutti i fili che compongono la trama della vita naturale e sociale di cui ogni individualità è parte, ridando senso al nostro stare al mondo, riunendo la separazione falsa dei bisogni individuali e di quelli collettivi, riunificando l’io con il noi.
Interdipendenza al posto della pretesa autosufficienza. Sicurezza umana, sociale ed ecologica al posto della sicurezza egoistica ed escludente. Amore al posto dell’odio. E differenza come base di una eguaglianza piena e non omologante. E’ una rivoluzione vera, profonda, anti-gerarchica e anti-autoritaria, quella della cura. E può salvarci.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021: “Recovery PlanET: per la società della cura”