Usiamo la celebre esclamazione di Marco Tullio Cicerone, nella sua orazione contro Catilina, per denunciare la corruzione delle virtù repubblicane: «che tempi, che costumi!».
Già: che tempi, che costumi! La crisi di governo aperta da Matteo Renzi, apparentemente senza senso, ma in realtà legata a giochi di potere tra le varie lobby politico-economiche, non è per nulla paragonabile alla crisi della democrazia americana, ma sul piano strutturale è un ulteriore tassello che dimostra la crisi della democrazia rappresentativa tout court.
Questa crisi, più che a una tragedia o un dramma, assomiglia a una “commedia all’italiana”, con personaggi tra il comico, il grottesco e il ridicolo, in cui i vari protagonisti inventano persino una neo-lingua politica: i “responsabili”, i “costruttori”, etc. Questo a testimoniare la decadenza di questa forma della politica, il suo inesorabile declino. Per stare al gioco, dovremmo dire gli “impresentabili”, vecchie cariatidi e nuovi parvenu, tutti attaccati alla poltrona, ai lauti vitalizi, ai privilegi.
La “soluzione” della crisi era ed è prevedibile: nessuno vuole davvero la cacciata di Conte o andare alle elezioni anticipate; emergenza Covid, crisi economica e sanitaria, il timore di perdere il posto da parlamentari: chi prende in mano la patata bollente? Staremo a vedere.
Si tratta di un classico della “politica politicante”, la politica del pallottoliere che si misura su una manciata di voti, sul trasformismo e la corruzione, sul determinare gli equilibri politico-istituzionali in qualità di “ago della bilancia”; insomma la vecchia tattica craxiana. La pantomima della crisi di governo è stata un puro e semplice esercizio per misurare i rapporti di forza in parlamento in vista di passaggi nei quali si muovono grandi interessi. Tra questi sicuramente la gestione del Recovery Fund e la prossime elezioni del presidente della repubblica? Più che altro, dopo le dimissioni di Conte, è probabile un nuovo governo Conte o addirittura un altisonante “governo di unità nazionale”. Di certo il quadro di instabilità si fa ancora più complesso ed intricato.
Francamente ci interessa poco la sorte dei governi: instabilità e ingovernabilità nella crisi del capitalismo e della governance vanno viste, al contrario, come possibilità di costruire processi di movimentazione sociale di ampio respiro. Solo una considerazione: la politica senza etica diventa trascendenza del potere come mero esercizio di dominio sociale e di classe. Pur lontani nel tempo, su queste tematiche sono illuminanti le considerazioni di Machiavelli, Spinoza e la straordinaria attualità di Marx: senza contropotere e lotta di classe non ci può essere una vera democrazia, intesa come espressione della potenza della moltitudine.
In Marx, la critica dell’economia politica è sempre legata alla critica delle forme Stato e del diritto borghese: le crisi economiche e le instabilità dei governi sono determinate dalle trasformazioni del modo di produzione capitalistico, dalle lotte tra le classi e dai mutamenti della loro composizione. Sono questi gli elementi che l’intelligenza rivoluzionaria deve saper cogliere a ogni dislocazione e salto di paradigma della formazione sociale capitalistica.
Da questo punto di vista, interessanti sono le considerazioni di Gramsci su quel periodo critico a cavallo tra le due guerre mondiali: instabilità politica, crisi delle democrazie parlamentari, ascesa dei regimi autoritari, le lotte operaie in tutto l’Occidente, il dibattito sullo stato di eccezione, l’accentramento del poter esecutivo e l’emergere del capo “carismatico”.
Il grande merito di Gramsci è aver applicato il metodo materialista di Marx, legando le trasformazioni degli Stati liberali alle trasformazioni del modo di produzione, riportando il cielo della politica alla concretezza materiale dei rapporti di produzione e alle loro modificazioni su scala mondiale. Questo aspetto è messo in luce da Gramsci nei Quaderni: in Americanismo e Fordismo coglie la trasformazione del capitalismo verso un’economia di piano, attraverso le innovazioni tecnologiche, la fabbrica taylorista, una totale meccanizzazione del lavoro, un aumento della produttività e dello sfruttamento. Questa nuova organizzazione del lavoro diventa progressivamente egemone, in maniera discontinua e non priva di contraddizioni, anche in Europa.
Queste trasformazioni incidono profondamente nelle forme dello Stato e nei governi: vecchi equilibri si rompono, nuove forze emergono: si tratta di una rivoluzione passiva, nella terminologia gramsciana, una rivoluzione senza rivoluzione, che consolida il potere costituito e l’ordine del capitale. Rispetto a che cosa? Bloccare la possibilità che si sviluppi al polo opposto della contraddizione il ”potere operaio” autonomo, le organizzazioni collettive dei lavoratori, le loro lotte sulla giornata lavorativa, tempo di lavoro e tempo di vita, per maggior reddito e meno alienazione.
Il concetto di rivoluzione passiva viene applicato anche nell’analisi sul fascismo, che emerge dalla crisi della democrazia liberale e parlamentare come risposta degli interessi della borghesia al “biennio rosso”. Le tumultuose vicende politiche di quel periodo portano a una situazione ambivalente: da una parte creano la possibilità di costruire un nuovo ordine sociale, dall’altra aprono la strada alla centralizzazione del comando, a soluzioni autoritarie, alla dittatura di classe.
Lungi da proporre analogie con quel periodo, nel post-fordismo odierno, quando la “sussunzione reale” si realizza compiutamente e la produzione diventa completamente sociale, salta ogni mediazione possibile tra capitale e vita, tra cooperazione sociale e proprietà privata. Nelle forme della governance, sulla superficie dell’autonomia del politico, riverberano le molteplici contraddizioni che attraversano la struttura fondamentale di questo modo di produzione. Crisi “organica”, come direbbe Gramsci, non occasionale o congiunturale. Ma è proprio in fasi come questa che la potenza del lavoro vivo e lo stesso divenire della vita eccedono i limiti imposti dal capitale e alludono continuamente a un “fuori”, ad un “oltre” rispetto a questo modo di produzione.
Su questa linea di confine precario ed instabile si misura il rapporto tra potere destituente, la disarticolazione e distruzione del vecchio ordine, e la costruzione di un nuovo potere costituente, la fondazione di una nuova società. È proprio questa instabilità strutturale, che mette in discussione le fondamenta della modernità alla loro radice, le forme di resistenza, di autorganizzazione e di autovalorizzazione possono rendere concreta la domanda di vera democrazia, non rappresentativa, ma sostanziale.
È chiaro che, nel momento in cui si vivono, nell’attualità del presente, è impossibile cogliere l’interezza di questo processo di transizione: paradossalmente gli eventi storici si comprendono e sono leggibili non quando si vivono, ma quando si sono compiuti. E allora possiamo cogliere anche ciò che oggi ci sembra inadeguato, piccolo, insignificante nel quadro dei rapporti di forza tra le classi e nella trasformazione radicale dello stato di cose presenti.