Yekatit 12 | Febbraio 19. Zerai Deres, una mappa e una data per agire la memoria.

Secondo post, di quattro, per avvicinarci alla scadenza di Yekatit 12, il 19 febbraio, che abbiamo lanciato come giornata di iniziative per ricordare i crimini del colonialismo italiano.

Una settimana fa abbiamo reso pubblica la mappa qui a destra, in costante aggiornamento, dove intendiamo rappresentare i luoghi di una sterminata “topografia colonialista”: edifici, monumenti, odonimi, lapidi e fantasmi che incarnano nel paesaggio l’eredità coloniale d’Italia.

Abbiamo battezzato il progetto “Viva Zerai!“, in assonanza con il “Viva Menilicchi!” che architettammo a Palermo nel 2018. Ma chi diavolo era questo Zerai?

Per raccontarlo, possiamo ripartire dal 19 febbraio 1937 e dal massacro di Addis Abeba, in risposta all’attentato contro il Viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani. Come abbiamo visto, gli Italiani non si accontentarono di scatenare una gigantesca rappresaglia, ma deportarono all’Asinara, e poi in altri luoghi di confino, circa 400 notabili etiopi, per punirli, sorvegliarli e raccogliere informazioni. A questo scopo, nell’estate di quell’anno, il regime fascista convoca a Roma una squadra d’interpreti: tra questi, c’è ዘርኣይ ደረስ (Zerai Deres), un ragazzo di ventiré anni, nato in un villaggio dello Hamasien, venti chilometri a nord-ovest di Asmara, capitale dell’Eritrea italiana.

Zerai parla il tigrè, la sua lingua madre, l’amarico e il ge’ez, ma quando scrive preferisce farlo in italiano, come ha imparato a scuola. Di famiglia ortodossa copta, si converte alla religione cattolica e abbandona la casa paterna per entrare in seminario, salvo poi lasciare anche quello, a quanto pare per colpa del razzismo dei frati. Per guadagnarsi da vivere, si fa assumere come interprete dall’amministrazione coloniale. Ma nonostante lo si possa credere uno house negro – secondo la celebre definizione di Malcolm X – Zerai è tutt’altro che un leccapiedi delle autorità italiane.

Nel 1936 scrive due lettere anonime, mai pubblicate, al Corriere dell’Impero, nelle quali contesta le affermazioni segregazioniste del direttore, rivendicando il ruolo degli “indigeni” eritrei nelle conquiste militari degli Italiani in Africa.

Da Roma, dove rimarrà per un anno, spedisce al fratello Tesfazion lettere indignate per il razzismo delle persone che incontra. Non vede l’ora di rientrare in Eritrea e di riabbracciare la donna che ha sposato poco prima di partire, nell’aprile 1937.

Il 14 giugno 1938 ottiene le carte per il rimpatrio. Il giorno successivo, mentre è diretto alla stazione Termini, s’imbatte nel monumento ai Caduti di Dogali, sotto al quale, da poco più di un mese, per celebrare un anno d’Impero, è stata aggiunta una statua del Leone di Giuda, simbolo della corona d’Etiopia. La scultura viene da Addis Abeba, l’hanno trafugata i fascisti al loro ingresso in città, e in origine era dedicata a Menelik II, in quanto vincitore nella battaglia di Adua.

Zerai s’inginocchia, forse prega. La scena non passa inosservata. Due militari gli si avvicinano, gli ordinano di circolare. Il ragazzo si alza di scatto, sfodera una sciabola. Secondo Hidat Berhane, il principale biografo del nostro, si trattava di un’arma tradizionale, appartenente a un superiore di Zerai, che l’aveva dimenticata nel suo ufficio al ministero delle Colonie. Zerai lo doveva incontrare a Napoli, dove si sarebbe imbarcato, proprio con l’intento di restituirgli il pezzo da collezione.

Fatto sta che Zerai è lì, al centro di Roma, elegante nel suo completo scuro, e ora grida con la sciabola in pugno. Jacques Bureau gli mette in bocca parole precise: “Abasso l’Italia, abasso Mussolini, Viva Etiopia, Viva il Negus!”. I documenti di polizia, citati da Alessandro Triulzi, dicono che pronunciò ““parole ingiuriose indirizzo Italia e Duce inneggiando negus”. Sia come sia, una piccola folla si raduna intorno a lui, cercano di fermarlo, qualcuno (secondo i giornali tre persone) rimane lievemente ferito. Un carabiniere spara, colpisce Zerai alla coscia, quindi lo arrestano e lo portano in ospedale.

Fin dalle prime ore, il suo gesto è considerato un atto di follia improvvisa. I giornali di regime liquidano l’episodio in poche righe. Come già era successo a Violet Gibson dodici anni prima, anche Zerai viene giudicato infermo di mente e internato nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto. Da qui riprende la corrispondenza col fratello, dichiarando di trovarsi in manicomio, “perché così vuole la politica del governo”.

Tesfazion Deres, nel luglio 1939, riesce a incontrare suo fratello alla “casa dei matti”, ma non può far nulla per liberarlo. Zerai morirà tra quelle mura il 6 luglio 1945. La città nella quale è prigioniero è stata occupata dagli Alleati due anni prima, ma nessuno s’è interessato al suo caso, nemmeno a guerra finita. Il fratello ottiene soltanto che la salma venga rimpatriata e sepolta nel villaggio natale, tra due leoni di pietra.

Il quotidiano di Addis Abeba Ethiopian Herald, il 22 ottobre 1945 dedica un articolo alla morte di Zerai, chiamandolo, fin dal titolo, “uno dei più eccezionali patrioti etiopi” e sostenendo che, sguainata la spada, “precipitandosi su migliaia di fascisti, uccise cinque italiani e ne ferì molti altri”.

Da allora, il suo nome è stato celebrato in molti modi e per molte ragioni. La voce su di lui della Wikipedia italiana, molto ben fatta e curata, analizza la trasformazione di Zerai Deres in eroe nazionale sotto il paragrafo “mitizzazione” – che allora dovremmo introdurre in moltissime altre voci, da Norma Cossetto alle foibe, da Garibaldi a Silvio Corbari.

Per noi, la performance di Zerai davanti al Leone di Giuda e all’obelisco per i Cinquecento di Dogali è la prima testimonianza, in Italia, di un gesto di ribellione contro il colonialismo, ispirato dall’arredo urbano. Per questo, non meno mitizzatori dei cantastorie d’Etiopia, lo nominiamo patrono della guerriglia odonomastica e topografica, cioè di quelle azioni che non si sono fermate nemmeno durante la pandemia, com’è avvenuto a Padova, il 20 giugno, con l’iniziativa “Decolonizzare la città“, a Milano, grazie al centro sociale Il Cantiere, con l’opera collettiva “Decolonize the city” e a Reggio Emilia, con l’intervento degli Arbegnuoc Urbani in via Makallè.

La mappa “Viva Zerai” vuol essere uno stimolo per azioni del genere, fatte anche con un semplice adesivo. Oppure con una missiva al sindaco, come ha fatto il responsabile trentino dell’Uaar Alessandro Giacomini, dopo che il sito d’informazione Il Dolomiti ha dato notizia del progetto Yekatit 12, segnalando alcuni odonimi da noi rintracciati. Primo fra tutti: via Italo Balbo a Saone, frazione di Tione di Trento. “Una manganellata alla memoria”, l’ha definita Giacomini.

A questo proposito, ci teniamo a ribadire che i nomi e i monumenti elencati sulla mappa non sono per forza esecrandi, – come quello di Balbo – o meritevoli di essere abbattuti, cancellati e dannati. Noi li consideriamo occasioni da non perdere, per ricordare. Questo non significa che mettiamo sullo stesso piano Rodolfo Graziani e un caduto forlivese nella battaglia di Adua, né ci auguriamo che i loro nomi subiscano lo stesso trattamento. Allo stesso modo, crediamo si debba intervenire in maniera diversa su una targa stradale e su una lapide, sull’intitolazione di una scuola e su una statua.

Per l’inserimento dei luoghi sulla mappa, oltre alle diverse categorie, abbiamo cercato di definire qualche criterio, onde mantenere il focus sull’eredità coloniale.

  • I caduti nelle battaglie “africane” della Seconda guerra mondiale, combattute per lo più contro l’esercito britannico, non rientrano nella mappa (a meno che non ci siano altri motivi per inserirli). Certo: se il Regno d’Italia non avesse occupato la Libia per trent’anni, i suoi soldati non avrebbero combattuto sul fronte libico, ma poiché non si trattò di una guerra coloniale – bensì del teatro di una guerra più vasta – preferiamo tralasciarlo.
  • I nomi di città e regioni colonizzate dal Regno d’Italia verranno pian piano inseriti. Abbiamo scelto di non considerare i territori occupati dopo la prima guerra mondiale e annessi direttamente all’Italia metropolitana. Quindi niente via Zara, via Bolzano o via Gorizia. Questo non significa che non verranno inseriti luoghi e nomi coloniali all’interno di quelle città o regioni.
  • Dei personaggi ricordati per i motivi più diversi, valuteremo l’importanza dei loro trascorsi coloniali o del loro appoggio al colonialismo. Per questo abbiamo Gabriele d’Annunzio e non Giovanni Pascoli, per L’ora di Barga; abbiamo Ferdinando Martini, governatore d’Eritrea per 10 anni e Ministro delle colonie, e non abbiamo Vittorio Emanuele III, imperatore d’Etiopia e Re d’Albania; e abbiamo Pietro Badoglio, criminale di guerra in Etiopia, ma non abbiamo Italo Pietra, che partecipò alla guerra d’Etiopia da soldato e fu poi comandante partigiano nell’Oltrepò pavese.
  • Abbiamo deciso di non mappare eventi o personaggi legati ai rapporti tra l’Italia e le sue ex-colonie, compresa l’esperienza dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia. Servirebbero quindi nuovi dettagli per valutare l’inserimento di Via Pio Semproni, ad Ascoli Piceno. Semproni prestò servizio in AOI dal marzo ’36 all’agosto ’38. Nel Dopoguerra si arruolò nel Comando Carabinieri Eritrea e morì ad Agordat il 21.10.1950 in uno scontro a fuoco.

Via via che si presenteranno nuovi “casi limite”, decideremo per nuovi criteri, insieme al collettivo di collettivi Resistenze in Cirenaica, che ci affianca nell’impresa, e grazie alle discussioni che si svilupperanno qui. Come già ricordato, chiunque voglia contribuire può mandarci un elenco di luoghi, il più possibile completo di informazioni storiche e geografiche, scrivendo alla mail che compare nella colonna destra, oppure postando direttamente un commento.

Concludiamo segnalando un’altra mappa e un progetto legato alle tematiche di questo post.

La mappa è quella di Postcolonial Italy, un’iniziativa simile alla nostra ma limitata (per ora) ad alcune città.

Il progetto è quello proposto dal sito campifascisti.it, dal quale – tra le altre cose – abbiamo attinto notizie e posizioni di alcuni luoghi d’internamento dei sudditi coloniali. In questo caso, il focus è sul campo di concentramento di Rab/Arbe. Attraverso un crowdfunding su Produzioni dal Basso, l’obiettivo è quello di finanziare una ricerca d’archivio, un sito dedicato in 4 lingue (italiano, sloveno, croato e inglese), un database di tutte le persone internate e un viaggio della memoria. A curare il progetto saranno Andrea Giuseppini di Topografia per la Storia e lo storico Eric Gobetti, che qui conosciamo bene per le sue ricerche sulla resistenza jugoslava, sul confine orientale e sulle foibe.

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

Altri testi che potrebbero interessarti:

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento