di Paolo Cacciari
La prolungata crisi sanitaria, economica, ambientale e politica ha formato una cappa opprimente che pesa sopra i movimenti sociali e che è difficile squarciare. Le sofferenze che subiscono le fasce di popolazione più deboli ed esposte – a partire da chi avrebbe bisogno di una assistenza socio-sanitaria adeguata, da chi è rimasto senza mezzi di sostentamento, dai giovani allontanati dalle scuole e dai luoghi della socializzazione – stentano a trovare la strada per esprimersi con istanze, proteste, rivendicazioni. Chi riesce a farsi sentire sono solo le categorie più esperte nelle pratiche lobbistiche corporative, scatenando una pericolosa competizione per i “ristori”.
L’orrido “distanziamento sociale” (che in tutto il mondo si chiama più propriamente e semplicemente confinamento) impedisce di praticare aggregazioni reali e organizzare mobilitazioni collettive. L’orwelliano “capitalismo della sorveglianza” ha trovato nella pandemia un banco di prova eccezionale per stringere un nuovo giro di vite all’isolamento solipsistico dentro cui la società di mercato costringe gli individui. In questa situazione così pesante è prezioso ogni tentativo di mantenere vivi i collegamenti tra la miriade delle soggettività libere che, nonostante tutto, continuano ad operare nella società.
La rete informale imbastita con la Società della cura ha questo scopo primario minimo. Ma per realizzarlo non basta organizzare un “ufficio di corrispondenza” (così si chiamava nella Prima Internazionale il coordinamento dei partiti socialisti). È necessario che si realizzi una conoscenza e un riconoscimento reciproco tra ogni “asteroide della galassia dei movimenti” (erano parole del subcomandante Marcos).
Se una cosa ci ha insegnato la pandemia è che tutto è connesso, interdipendente. La trama della vita ci tiene legati in un unico ecosistema. Mi sia permesso, nel bicentenario della nascita, citare una frase famosissima di Friedrich Engel: “Ad ogni passo ci viene ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato, che non la dominiamo come chi è estraneo ad essa, ma che noi le apparteniamo come carne e sangue e cervello, viviamo nel suo grembo.” (Dialettica della natura, 1878). Così come davvero efficaci sono risuonate le parole di papa Bergoglio, quel giorno di Pasqua dello scorso anno: “Non ci si può illudere di essere sani in un mondo malato”. Per “sani” non dobbiamo intendere solo la “assenza di malattie” (definizione medica dell’Oms), ma avere una “buona vita”, vivere degnamente. Per “mondo malato”, non dobbiamo intendere solo la natura maltrattata da azioni umane distruttive, ma una società attraversata da relazioni sociali alienanti, crudeli, violente.
Dirsi “società della cura” significa allora rovesciare i valori e i comportamenti dominati oggi nel mondo governato dalle leggi del mercato, del profitto, dell’accumulazione, della produttività, del massimo rendimento dei capitali investiti. Prendersi cura di sé, degli altri, del pianeta significa scardinare l’ordine economico, culturale e simbolico non solo del turbocapitalismo neoliberista, ma anche del patriarcato e dello specismo dell’Antropocene.
Kathleen Lynch (Care, capitalism and politics, 26th November 2020) ha scritto : “La pandemia ci ha insegnato che, in tempo di malattia, l’assistenza non è un optional: fa la differenza tra la vita e la morte”. Pertanto: “Questa vicinanza alimenta la moralità: il nostro bisogno degli altri ci consente di pensare agli altri. Le persone possono identificare comportamenti moralmente appropriati in se stesse e negli altri e questi orientano e regolano le loro azioni”. La consapevolezza di essere parte di una comunità sviluppa un’etica della condivisione, della relazione, della reciprocità, dell’auto-aiuto. Per questo sono così importanti le pratiche di solidarietà disinteressata, di mutuo appoggio e di welfare di prossimità che si sono sviluppate in molte città e paesi nel corso dei lockdown.
Insomma, Società della cura evoca un ordine di valori opposto all’“individualismo metodologico” dell’antropologia dell’homo oeconomicus, che soddisfa i propri bisogni e desideri accedendo al mercato attraverso il denaro. Società della cura ci fa intendere che esistono altre tipologie di rapporti sociali di produzione, di distribuzione, di utilizzo e di riproduzione sociale fondate su relazioni umane dirette, comunitarie, interpersonali, viso a viso. Altre forme di economia, altri modi di abitare i territori, altri valori etici di riferimento.
La rete informale della Società della cura non si presenta come un soggetto politico organizzato. Nemmeno sotto le forme di una “piattaforma”, di un “campo” o di qualsiasi altro “luogo” più o meno circoscritto. La convergenza – è sempre bene ricordarlo – non è sinonimo di confluenza, non contempla accentramenti, “cartelli” sindacali o elettorali. Ma, come insegnano i movimenti femministi: intersezionalità. La Società della cura è semplicemente un’attivatrice di un processo fluido di convergenza dei gruppi, dei movimenti, delle associazioni, delle persone impegnate nei percorsi di trasformazione dello stato di cose esistente. Soggetti autonomi protagonisti in campi diversi, ma che esprimono il bisogno di mettere in comune esperienze e difficoltà, successi e problematicità. Un bisogno profondo, non tattico, che emerge da molte riflessioni maturate in questi anni sulla necessità di andare oltre la settorializzazione degli interventi trasformativi.
Penso al movimento Fridays for Future che ha recentemente denunciato con un Climate Strike “l’interdipendenza del sistema economico” e i danni che arreca sull’ambiente e sulla salute (https://fridaysforfutureitalia.it/eventi/climate-strike-sciopero-per-il-clima). Penso al Manifesto uscito dal Climate Meeting di Venezia su dieci punti sulla giustizia climatica, l’uscita dal fossile, l’equa redistribuzione della ricchezza sociale, il riconoscimento dei diritti fondamentali (https://www.globalproject.info/it/in_movimento/nasce-rise-up-4-climate-justice/23015). Penso al Forum sociale mondiale delle economie trasformative (https://transformadora.org/) sulle esperienze dei movimenti che praticano forme di economie alternative, locali, fuori dalla logica del profitto e del mercato.
Penso alle associazioni che sostengono l’idea di decrescita (fuoriuscita dall’economicismo) che hanno elaborato un documento e stanno portando avanti un “forum delle convergenze comunitarie” (www.decrescita.it/verso-una-soggettivita-politica-plurale-e-alternativa). Penso alla Rete dei beni comuni emergenti e degli usi civici partita dalle esperienze partenopee (www.facebook.com/retebenicomuniemergenti/). Penso a molte altre reti nel mondo del lavoro, nella scuola, nei territori, a cominciare dai NoTav.
Ma la convergenza tra tante diverse esperienze nei più svariati campi della vita può riuscire solo se emergerà un’idea forte di nuove relazioni sociali agibili e desiderabili. Un sistema economico semplice, elementare, in cui tutte e tutti abbiano abbastanza per poter vivere bene, in pace con gli/le altri/e, in equilibrio con la natura. È questa un’idea così fuori dal tempo, romantica e utopica? O, all’opposto, è troppo rivoluzionaria? La sfida al decrepito sistema economico che sta acuendo le sofferenze umane e portando alla catastrofe planetaria potrebbe partire dal chiedere conto ai potenti della Terra, che si riuniranno proprio in Italia nel corso di quest’anno come G20, del rispetto di due semplici criteri. Primo, la preservazione della vita sul pianeta. Secondo, la condivisione solidale, equa e premurosa delle ricchezze che si possono produrre tramite una cooperazione sociale responsabile.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021: “Recovery PlanET: per la società della cura”