di Marco Bersani
Per affrontare adeguatamente la discussione sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR, meglio conosciuto come Recovery Plan), occorre collocarlo nel contesto più complessivo dell’Unione Europea in questa fase.
Senza questo, si rischia di credere alla narrazione mainstream di un’Unione Europea improvvisamente passata dall’austerità a politiche economiche espansive, e all’arrivo di un bastimento carico di miliardi, rispetto ai quali occorre solo deciderne la destinazione.
Così appare ad esempio la discussione intorno al MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, che mette a disposizione un fondo per le spese sanitarie (per l’Italia, sono 36 miliardi). Occorre fare chiarezza su questo punto anche per evitare che alcune realtà del mondo sanitario, che lavorano quotidianamente in emergenza, rischino di ascoltare le sirene del MES.
I 36 miliardi del MES non sono risorse aggiuntive. Il MES è una delle modalità di reperimento di risorse per coprire le spese previste nel comparto sanitario, spese già approvate con la legge di bilancio, e il cui ammontare è indipendente dalle modalità con cui le si finanzia.
Non ci sono 36 miliardi in più, c’è solo la possibilità di finanziare una parte della spesa deliberata per il Servizio Sanitario Nazionale (121,37 mld per il 2021) attraverso il MES, invece che con l’ordinaria emissione di titoli di Stato.
Il “vantaggio” sarebbe nei tassi di interesse leggermente inferiori per quella parte; lo svantaggio, ben più considerevole, sono le condizionalità (leggi: politiche di austerità), inscritte nel Trattato e mai modificate, nonostante le dichiarazioni del Gentiloni di turno.
Proviamo a leggere meglio anche le mirabolanti cifre del Next Generation UE, una serie di fondi europei, con in testa il cosiddetto Recovery Fund. Il governo ha in questi giorni approvato il Recovery Plan, ovvero l’insieme dei progetti per accedere a questi fondi.
La prima cosa da sottolineare è che, mentre i fondi assegnati all’Italia corrispondono a 196,5 miliardi, il governo ha predisposto un piano per 209,9 miliardi.
Di questa cifra, 68,9 mld sono trasferimenti e 141 sono prestiti.
Sono tutte risorse aggiuntive? No, le risorse aggiuntive sono i 68,9 mld di trasferimenti e 53,5 della quota prestiti, perché gli altri 87,5 mld di quota prestiti vanno a coprire spese già deliberate (cambia solo, come per il MES, la modalità di finanziamento).
Risultato: non stanno arrivando 209,9 miliardi, ma solo 122,4 mld (di cui 68,9 senza interessi e 53,5 con tassi d’interesse leggermente inferiori) nell’arco di un periodo di sei anni (2021-2026).
Si tratta dunque di 20 miliardi all’anno e anche questi soggetti alle “Raccomandazioni UE specifiche per paese”, ovvero le cosiddette “riforme strutturali” liberiste, che, proprio in questi giorni, vengono costantemente ricordate come adempimenti obbligatori per poter ottenere i fondi assegnati.
Non siamo dunque in presenza di un mutamento sostanziale del profilo dell’Unione Europea, bensì dentro una fase in cui i vincoli vengono resi meno stretti per rispondere alla pandemia e rilanciare l’economia, in attesa di ripristinarli non appena l’emergenza sarà stata superata.
Per questo motivo, occorre legare la battaglia sul Recovery Plan ad una strategia più ampia che rompa la gabbia liberista dell’Unione Europea, almeno in tre direzioni, qui velocemente sintetizzate:
a) rompere la trappola del debito: solo per fare un esempio, prima delle spese in deficit fatte nel 2020 per rispondere alla pandemia, dei 2.400 miliardi di debito pubblico italiano, solo 266 corrispondevano a spesa in deficit, il resto era unicamente frutto del sistema perverso degli interessi sul debito, per i quali attualmente paghiamo 60 miliardi all’anno. Si tratta della terza voce di bilancio, dopo sanità e previdenza. A questo proposito, occorre rivendicare la cancellazione del debito (le forme tecniche esistono) accumulato per le spese necessarie al contrasto della crisi prodotta dalla pandemia e occorre rivendicare il principio giuridico delle “circostanze significativamente mutate” per applicare una drastica riduzione degli interessi sul debito storicamente contratto;
b) rendere la BCE banca centrale a tutti gli effetti: la BCE oggi è l’unica banca centrale del mondo a non funzionare come una banca centrale, ovvero ad essere indipendente dagli Stati e a finanziare il sistema bancario privato e – quando lo fa, come in questo periodo di emergenza – a finanziare solo indirettamente gli Stati e il settore pubblico.
A questo proposito, se la BCE divenisse una banca centrale a tutti gli effetti, non ci sarebbe alcun bisogno di inventare meccanismi come il Recovery Fund, il MES e quant’altro, poiché sarebbe la Banca Centrale Europea stessa a finanziare e a garantire il debito degli Stati membri;
c) abolire i vincoli di Maastricht: patto di stabilità, pareggio di bilancio e fiscal compact sono stati sospesi fino al 2022 per permettere agli Stati di poter spendere per rispondere alla pandemia. Ma se per curare le persone vengono sospesi i vincoli finanziari, non ci vuole Aristotele per dedurre che quei vincoli sono contro la cura delle persone. Occorre quindi rivendicarne l’abolizione per costruire dal basso un nuovo patto costituente fra i popoli dell’Europa.
Detto delle cifre e del contesto, proviamo ora dare uno sguardo d’insieme al Recovery Plan approvato dal governo.
Il piano si fonda si tre assi strategici (digitalizzazione e innovazione / transizione ecologica / inclusione sociale) e su tre priorità trasversali (donne / giovani / Sud).
E’ diviso in sei missioni, a loro volta declinate in 16 componenti e in 47 linee di intervento.
Le sei missioni sono le seguenti:
- Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (46,18 mld)
- Rivoluzione verde e transizione ecologica (68,90 mld)
- Infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,98 mld)
- Istruzione e ricerca (28,49 mld)
- Inclusione e coesione (27.62 mld)
- Salute (19.72 mld)
Ad una lettura generale il piano appare totalmente privo di una visione, costruito come una ordinaria legge di bilancio, dove ognuno cerca di portare a casa qualcosa per il proprio settore e i propri interessi di riferimento.
È un piano costruito intorno all’idea che la pandemia sia un incidente di percorso, un evento esogeno al modello socio-economico, un accadimento estraneo, superato il quale il sistema potrà riprendere il proprio ordinario cammino.
È un piano figlio della cultura liberista, basata sull’idea della trinità religiosa di competitività-concorrenza-crescita e sull’assunto che il benessere della società si fondi sul benessere delle imprese.
È un piano che prova a stabilizzare e rivitalizzare il modello economico-sociale sui filoni dell’innovazione digitale e degli investimenti nel settore ambientale, prefigurando così una nuova fase di capitalismo digitale e verde.
Per tutt* noi che da tempo abbiamo evidenziato, dentro le nostre proposte, le nostre lotte e le nostre pratiche, come la pandemia sia tutt’altro che un incidente di percorso o un evento esogeno al modello capitalistico, sembra abbastanza chiaro come il nostro lavoro collettivo debba avere l’obiettivo di dare una lettura antisistemica, chiara e comprensibile del Recovery Plan e di favorire, sull’insieme e sulle singole declinazioni, da una parte l’approfondimento della sfida sull’alternativa di società (la società della cura) e, dall’altra, la convergenza delle esperienze per avviare un’ampia mobilitazione sociale.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021: “Recovery PlanET: per la società della cura”