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di Lea Melandri (saggista femminista)
Raramente un passaggio d’anno si è caricato di tanti interrogativi, sospiri di sollievo e aspettative, come quello che ci siamo appena lasciati alle spalle, tra il 2020 e il 2021. E non poteva essere altrimenti.
La pandemia è caduta all’improvviso su un mondo già in affanno per le crisi che lo attraversano da tempo, che vanno dall’economia, alla povertà crescente, al rapporto con l’ambiente, ai fenomeni migratori, alle differenze tra sessi e culture diverse. Si può dire che ha scavato dentro piaghe già scoperte, allarmi e previsioni tristemente profetici, costringendo l’“anima mundi”, per usare un termine platonico comprensivo di tutto l’esistente, a una sorta di autocoscienza.
Sul tempo sospeso del “confinamento” – il presente ininterrotto di giornate sempre uguali – è come se fossero precipitati all’improvviso i disastri del passato, le sue “vergogne nascoste” (Arundhati Roy) e, contemporaneamente, nuove inedite prospettive per il futuro. Non poteva che uscirne un rimescolamento di piani tradizionalmente separati e un pieno di contraddizioni, di spinte conservative e aperture al cambiamento.
Il primo a cadere, nel momento in cui la presenza è diventata di per se stessa rischio di contagio, è stato il confine tra privato e pubblico: porte che si sono chiuse a protezione di interni di famiglia e, al medesimo tempo spalancate per far entrare attività lavorative svolte fino a quel momento all’esterno. Mai, come in questa singolare osmosi e abbinamento, è parso così evidente che cosa significa il “doppio lavoro” delle donne, così intollerabile il peso di dover sostenere la continuità della vita, come loro destino “naturale” e al medesimo tempo far parte di un sistema economico creato a uso e consumo di una comunità storica di soli uomini, secondo logiche che prescindono dalle radici biologiche degli umani.
Per un altro verso, si è dovuto prendere atto che la cura – dei corpi, degli affetti, delle relazioni – che si svolga nelle case o nei servizi sociali rivolti alla persona, non è quel “dono d’amore” che nasce spontaneo dalla “natura” femminile ma un compito e una responsabilità lavorativa di soggetti differenti: quelli che negli ospedali hanno assistito i malati, rischiando le loro vite, e quelli che hanno continuato nei supermercati e nelle strade deserte ad assicurare che il cibo arrivasse a chi stava dentro le case. La modificazione dei confini che ha separato il cittadino dalla persona, presa nella sua interezza, non è di oggi.
L’uscita dai dualismi che hanno contrapposto femminile e maschile, natura e storia, individuo e società, sentimenti e ragione, e la ricerca di nessi che ci sono sempre stati tra un polo e l’altro, è stata il portato più originale della rivoluzione antiautoritaria e femminista degli anni Settanta, ma sembra che solo oggi quelle che chiamavamo allora le “problematiche del corpo” siano arrivate al cuore della politica. Esperienze universali dell’umano, confinate nel privato e nell’ordine della natura, come la dipendenza, la malattia, l’invecchiamento, la morte, escono allo scoperto e mostrano, fuori da coperture ideologiche, i segni che la storia, l’ordine sociale, economico in cui viviamo vi ha impresso sopra.
Che le vite contassero meno della produttività e del denaro, che la vecchiaia, soprattutto se prolungata, fosse un carico mal tollerato per la spesa pubblica, oltre che per le famiglie, in assenza di servizi sociali, è una verità che già sapevamo, ma sono state le bare accatastate in attesa di cremazione, le sistemazioni improvvisate dei pazienti in terapia intensiva, il racconto di chi si è trovato in condizioni estreme senza il conforto di un amico e o di un parente, a sottrarre la morte all’“impensato”, a quel terrore senza nome con cui si è tentato di cancellarla .
La consapevolezza della nostra fragilità, del bisogno che abbiamo gli uni degli altri, della solidarietà come valore prioritario per una società più umana, cambierà il nostro modo di vivere? C’è qualcosa, che nella sua contraddittorietà, lo fa sperare ed è l’esperienza di una solitudine che si è venuta a trovare per la prima volta sostenuta da un eccezionale accomunamento: soli, ma in un ritiro che ci proiettava paradossalmente nel mondo, ripiegati su noi stessi, sulle nostre paure, sull’attenzione ai più lievi sintomi di contagio, e proprio per questo nella condizione di scoprire somiglianze e differenze rispetto agli altri umani. Costretti a misurare gli spazi delle abitazioni, in caso di quarantena, le risorse economiche per le cure necessarie, la sostenibilità di conflitti già esistenti all’interno delle coppie e delle famiglie, la possibilità o meno di sottrarsi a lavori esposti al rischio di contagio, si può pensare che le disuguaglianze sociali abbiano preso una visibilità nuova, difficile da mascherare ideologicamente e da far tornare in ombra.
Ci sarà chi vorrà tornare a una “normalità” comunque rassicurante, anche se all’origine della pandemia stessa, ma non sarà facile distogliere gli occhi dai disastri di un modello di civiltà e di sviluppo, capitalista e patriarcale, di cui non siamo stati, come nella maggior parte dei casi soltanto “testimoni”, ma partecipi nella quotidianità delle nostre vite, delle nostre insicurezze e dei nostri desideri.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 45 di marzo-aprile 2021: “Recovery PlanET: per la società della cura”