Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La sedicesima puntata della rubrica “Suture, a cura di Valeria Andreolli.
Fai scorrere il tessuto sul piano macchina sotto i colpi risoluti dell’ago, facendo attenzione a far sì che questi vadano a incidere la stoffa seguendo tutti la stessa linea retta. Attorno a te impazzano i gemiti di mille macchine da cucire all’opera sotto gli sguardi vigili e muti dei tuoi colleghi. Questo frastuono ordinato, interrotto soltanto dai frequenti “muovete quelle mani” e “non distraetevi” urlati dai supervisori che passeggiano insolenti tra i vostri banchi, ti lacera le orecchie e ti fa apprezzare il silenzio che trovi la sera sulla tua brandina esile e sola, quando finalmente esci da quello stanzone affollato dopo troppe ore di lavoro.
Tuttavia, questo trapanarti i timpani e sudare negli aliti di altre cento persone con i tuoi stessi problemi e le tue stesse aspirazioni, mentre ripeti incessantemente movimenti sempre identici, è necessario. È necessario per dare un’educazione a tuo figlio, quel bambino con gli occhi neri e i capelli lisci che hai lasciato nella casa in mezzo alla foresta dei tuoi genitori. È necessario per fare in modo che egli abbia un’alternativa, per impedire che prima dei diciott’anni venga arruolato nell’industria tessile proprio come era successo a te. Sono più di sei mesi che non vedi quegli occhi vispi e quel sorriso triste correrti incontro. Ma le estenuanti nove ore di salite e discese in pullman lungo le tortuose e malandate stradine che separano lo stanzone traboccante di macchine da cucire dal tuo paese natale che dorme sepolto nella campagna selvaggia e lussureggiante ti impediscono visite frequenti. E così puoi solo immaginare come quel bambino cresca, come le sue gambe si allunghino e la sua voce acquisti nuove tonalità. Ti stai perdendo degli anni fondamentali della sua vita, ma è per lui, soprattutto per lui, che ti sei imposta questo sacrificio, perché non ne potevi più delle occhiate avide e sprezzanti del proprietario del negozio di alimentari dove compravi il cibo con la promessa che lo avresti pagato non appena ti sarebbe stato possibile. Non ne potevi più di sopportare gli sguardi vuoti dei tuoi genitori e non poter fare nessuna promessa agli occhi neri di tuo figlio. È per questo che hai deciso di partire, così come avevi fatto tanti anni prima. Hai deciso di abbandonare per la seconda volta i paesaggi verdi e bagnati dove eri cresciuta per far ritorno alle strade trafficate e colorate di Hanoi, al rumore, alla fatica, alla speranza di un futuro diverso per il tuo bambino.
Ruoti la manopola per far scendere l’ago e sollevi il piedino. Giri il tessuto che tieni tra le mani e che comincia a prendere la forma di una camicia. Il filo impazzisce nel rocchetto mentre ricominci a cucire. Ormai non ricordi nemmeno più quanti giorni sono passati dall’ultima volta che hai spento la macchina da cucire all’orario prestabilito. Ti fermi sempre qualche ora in più, spesso anche il sabato, nella speranza di vederti recapitata a fine mese una busta paga più gonfia, anche se non sai con precisione come vengano calcolati i đồng che ti spettano, perché tu non sei brava a fare i conti: hai lasciato la scuola prima che ti venissero insegnate le moltiplicazioni. Ma la logica ti dice che più ore lavori, più camice consegni, e più saranno le banconote che riceverai e che potrai spedire a casa. Risparmi su tutto purché quei soldi servano per riempire lo stomaco di tuo figlio che deve crescere e dei tuoi genitori che devono invecchiare in salute. Al tuo, di stomaco, non ci pensi, gli dai quel minimo sindacale per farlo stare zitto e continui a lavorare. Che il tuo corpo è stanco lo sai. Lo senti quando le tue articolazioni implorano pietà, quando il tuo cervello va in standby per qualche secondo e ti risvegli a terra con una cerchia di teste che ti scrutavano dall’altro. Ma nessuno si preoccupa per queste cose. Tu men che meno. Sai che il risposo è un lusso che non ti puoi permettere. E se non ti puoi permettere un paio di giorni lontana da questo stanzone, figuriamoci se ti potrai mai permettere queste camicie di poliestere che dopo essere state assemblate dalle tue mani stanche viaggeranno di frontiera in frontiera fino a giungere in luoghi del mondo che tu hai visto solo sulle cartoline. Prima di trovare una persona che la indossi, una qualunque di queste camicie percorrerà probabilmente più chilometri di quanti tu ne macinerai nel corso della tua intera vita.
Non riesci neanche ad immaginare quanto possa costare una di queste camicie, né riesci a figurarti a chi vada la grossa fetta del loro prezzo che non spetta a te, quali stomaci riempia. A volte fantastichi su come staresti con addosso uno dei capi che cuci. Immagini, indossandolo, di fare ingresso in un’altra vita, una vita in cui non devi rimanere china dodici ore al giorno su una macchina che punge le stoffe, in cui puoi vedere crescere tuo figlio e non temere che i debitori vengano a bussare alla tua porta.
Abbassi la leva di retromarcia e cuci per qualche punto sulla parte finale del lavoro appena svolto. Anche questa camicia è ormai pronta per solcare gli oceani.
** Pic Credit: Hau Dinh