Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La diciassettesima puntata della rubrica “Suture, a cura di Valeria Andreolli.
Con la mano destra sollevi un cartoncino di forma rettangolare dalla pila che ti sta a fianco. Te lo appoggi sul grembo e ci dai un’occhiata. È il disegno abbozzato e colorato di un cavallo, uno hiävuš. Sposti lo sguardo dall’immagine alla platea di bambini e bambine seduti a gambe incrociate di fronte a te. Le guardi negli occhi una ad una, queste otto creature a cui è stato affidato il compito di tenere in vita una lingua che sta morendo. Loro non lo sanno, ma sono loro, solo loro, la speranza di un’intera comunità che anni di angherie, di ricollocamenti forzati e di scherni hanno decimato ed impoverito. Sono i figli sempre più imbastarditi di un popolo che un tempo allevava renne, pescava in acque ghiacciate e viveva in capanne di legno, un popolo che viaggiava, si spostava in continuazione, e si esprimeva in una decina di lingue, diverse ma intellegibili, un popolo che oggi è stazionario, ha un proprio parlamento e sta dimenticando i nomi con cui un tempo chiamava le cose.
È per questo che i bambini biondi e mori qui seduti, che contemplano il cavallo disegnato sulla carta, qualcuno con entusiasmo, qualcun altro in modo svogliato, sono così fondamentali non solo per le loro famiglie, ma per la comunità tutta, perché loro, con il loro cervellino elastico e malleabile, hanno il potere e l’onere immenso di tenere in vita questi suoni antichi e gutturali, e tutto l’apparato grammaticale e sintattico che essi portano con sé. Perché quando muore una lingua, muore un pezzo di identità collettiva, muore un sistema di valori, un universo culturale, oltreché linguistico, che a quel punto non sarà più possibile recuperare. Com’è possibile infatti comprendere l’intimo rapporto che lega un popolo alla natura meglio che con la ricchezza lessicale di una lingua che chiama la neve con centinaia di nomi diversi a seconda della sua profondità, della sua densità, della sua durezza e del tempo trascorso da quando si è posata a terra? Tu lo hai sempre saputo e anche i genitori di questi bambini ora lo hanno capito. È servito loro del tempo: hanno dovuto scavalcare la vergogna, a volte addirittura il disprezzo, che, spinti da una società che vedeva i sami come un popolo di sottosviluppati e relitti, associavano alla lingua che sentivano parlare in casa dai loro genitori che, a loro volta, traumatizzati dalle innumerevoli frustate sulle mani e sul sedere ricevute a scuola per la colpa di esprimersi nell’unica lingua in cui potevano farlo, hanno deciso che essa sarebbe stata un fardello ingombrante ed inutile per i loro figli. Questi nonni sono oggi essenziali, non solo nel supportare i loro nipoti nel lento ed emozionante processo di apprendimento, ma anche nell’insegnare loro a cantare lo yoik, ad indossare la tradizionale casacca blu a strisce rosse e gialle e a distinguere i tipi di pesci che popolano le acque gelide delle vostre terre.
Fissi quegli occhietti vispi impiantati sulla figura che tieni in grembo. Qualcuno pronuncia la parolina che indica il cavallo in finlandese, qualcuno in sami. Essere parte attiva di questa rivitalizzazione della lingua ti fa sentire parte di un processo importante, in cui non solo contribuisci a mantenere in vita una cultura, ma devi sforzarti quotidianamente di integrare le sfide che la modernità inevitabilmente porta con sé. Siete voi, in queste interazioni sdentate e singhiozzanti, che inventate nuovi vocaboli e modi di dire, che forse un giorno cammineranno sulle proprie gambe e oltrepasseranno i confini colorati ed accoglienti di queste due stanze.
L’idea di un asilo dove i bambini potessero imparare la lingua dei loro nonni ti aveva entusiasmata da subito, ma non avresti mai immaginato la serie di conseguenze che questi nuovi parlanti avrebbero generato fuori da queste mura. Sempre più spesso incontravi genitori che, con una scintilla di gioia negli occhi, ti confidavano di essersi iscritti a corsi intensivi di sami; sempre più spesso salutavi i bambini mentre si allontanavano con le manine salde in quelle esili e rugose di uomini e donne che chiedevano loro il resoconto della giornata in una lingua di nomadi e cacciatori; sempre più spesso i tuoi incoraggiamenti alle famiglie perché i loro figli continuassero a studiare il sami una volta approdati a scuola venivano ascoltati. E così ti sei resa conto che, per permettere a una lingua, a questa lingua, di tornare a fiorire, è necessario uno sforzo collettivo e partecipe da parte di tutta la comunità. È necessario essere in tanti ed essere uniti in questa lotta contro un mondo sempre più globalizzato ed interconnesso, che predilige un esiguo numero di idiomi e ne getta centinaia nell’abbandono, impedendo così a migliaia e migliaia di persone di esprimersi nel modo che trovano più naturale.
Pronunci la parola hiävuš scandendo bene ogni suono. Qualche bambino ti ascolta, qualcun altro guarda dalla finestra i primi fiocchi di neve che timidamente cominciano a scendere dal cielo.
** Pic Credit: Vincent Frances