di Sandro Moiso
Mauro Boarelli, La fabbrica del passato. Autobiografie di militanti comunisti (1945-1956), prefazione di Carlo Ginzburg, Quodlibet, Macerata 2021, pp. 334, 19,00 euro
Bene ha fatto Quodlibet a riproporre, in occasione di un centenario della nascita del Partito Comunista d’Italia, soltanto più tardi Italiano, passato quasi sottotraccia, il testo di Mauro Boarelli già pubblicato nel 2007 presso l’editore Feltrinelli. La ricerca dell’autore, infatti, non soltanto riporta i lettori in una situazione spazio-temporale che Carlo Ginzburg, nella sua prefazione, paragona a quella di “un libro di fantascienza”, ma anche, e forse soprattutto, li costringe a riflettere su una metodologia usata per ricostruire la storia del “partito comunista più grande dell’Occidente” che è diventata anche strategia politica. Mentre l’indagine di Boarelli sfugge, per scelta, alle norme che hanno prodotto le più scontate indagini storico-politiche, quasi tutte basate sull’esperienza dei vertici del partito stesso e sui documenti prodotti nel tempo da quegli stessi.
Come afferma ancora Ginzburg nella prefazione alla presente riedizione, al suo primo apparire: «La fabbrica del passato lanciava una sfida originale alla corporazione degli storici, invitandoli a superare l’ottica verticistica formulata in maniera esplicita da Paolo Spriano nella sua Storia del Partito comunista italiano»1. Sfida che non consisteva tanto in una differente lettura di quella storia, ma nell’utilizzo di un archivio costituito da circa milleduecento autobiografie che i militanti del partito erano stati invitati a scrivere nel periodo intercorso tra il 1945 e i 1956 in quel di Bologna.
In quel decennio il Partito obbligava di fatto i propri militanti a narrare pubblicamente oppure a scrivere la propria storia e molto spesso li sollecitava ad esplicitare il racconto della propria vita in entrambe le forme. Prima di procedere all’analisi dei motivi politico-ideologici che fecero sì che il Partito comunista, a livello nazionale, avesse adottato questa modalità di integrazione e controllo dei militanti all’interno delle proprie strutture, val la pena di sottolineare subito che la scelta operata nei confronti delle fonti utilizzate da Boarelli è già di per sé molto importante dal punto di vista storiografico.
Una sfida che, anche se è rimasta ancora in gran parte inevasa fino ai nostri giorni, ribalta l’ordine della storiografia partitica precedente, tutta rivolta ai documenti prodotti dall’alto, riportando l’attenzione sui documenti prodotti, si potrebbe dire, dalle gambe su cui il partito marciava.
Un autentico ribaltamento di prospettiva che nella scelta delle fonti aveva, e ha tutt’ora, il suo autentico punto di forza. Un punto di vista che, a differenza della prospettiva scelta anche da coloro che ieri e oggi hanno continuato e continuano a sottolineare e criticare il sostanziale stalinismo delle scelte espresse da Togliatti e dal suo “partito nuovo”, permette di allargare lo sguardo all’essenza del metodo di funzionamento dei partiti comunisti e della loro percezione e introiezione da parte dei militanti politici di base.
Non è certamente un caso che, più volte, Boarelli si richiami all’esperienza, in gran parte ancora unica e poco compresa, di Danilo Montaldi e alle sue scelte metodologiche, che Pier Paolo Poggio ha avuto modo di definire come una sfida ai protocolli ideologici del PCI2. Sfida che diventa, per forza di cose e lo si vedrà meglio più avanti, anche tale nei confronti dei rigidi protocolli di una storiografia imbalsamata ancora troppo spesso nei paramenti dei documenti e delle fonti “ufficiali” ovvero “alte”.
Un metodo storiografico rigido di cui si avvalgono ancora oggi sia la storiografia modellata dal togliattismo e dallo stalinismo che quella di “opposizione interna” nel ricostruire fatti ed eventi della storia della politica comunista. Da cui già si distaccava Montaldi quando nel suo Saggio sulla politica comunista in Italia3 ricordava, solo per fare un esempio, gli episodi di autentica e violentissima lotta di classe verificatisi nelle fabbriche dell’URSS all’epoca dello stakanovismo.
Un testo che all’epoca era stato rifiutato da editori come Einaudi e Feltrinelli proprio perché scomodo, non soltanto dal punto di vista politico ma anche storiografico. Mentre l’irrequietezza di Montaldi, dalla sua esperienza con gli internazionalisti della Sinistra Comunista, ancora ben radicata all’epoca della sua gioventù nel cremonese e nella Bassa Padana, agli incontri con i rappresentati degli Zengakuren giapponesi e di Socialisme ou barbarie fino ai prodromi dell’Autonomia operaia, è ancora ravvisabile, fatte le dovute differenze epocali e soggettive, nel lavoro di Mauro Boarelli.
Ma se l’inquietudine di Montaldi scaturiva da una passione politica che costringeva il cremonese a modificare i canoni della ricerca sociologica e storica, nel caso di Boarelli è proprio l’insoddisfazione nei confronti delle metodologie e dei protocolli di ricerca a far scaturire, poi, nei fatti un differente sguardo storico-politico sulla storia del partito, anche se forse sarebbe meglio dire dei partiti comunisti. Rovesciando il punto di vista delle fonti scelte evidentemente si è costretti a rovesciare anche la narrazione storiografica. Semplificando: dal basso è possibile cogliere ciò che dall’alto è impossibile percepire (oppure si vuole nascondere).
Il problema vero, e più importante, è però costituito dal fatto che il lettore si troverà davanti non soltanto ad un’epoca in cui i militanti di base erano costretti a “confessare” ai funzionari del partito le loro convinzioni e, eventuali, debolezze, all’interno di un inquadramento e disciplinamento che si riscontrava in tutti i partiti stalinizzati, ma anche alla riflessione sul fatto che quella pratica, scritta e orale, discendeva dritta dritta dal gesuitismo dell’epoca della Controriforma.
Scoprendo così che quella pratica e quell’organizzazione partitiche erano tutt’altro che di ispirazione laica, facendo così in modo che la fede religiosa, apparentemente, cacciata a pedate dalla porta del partito, si ripresentasse nella fede e fiducia nello stesso, rientrando così da una finestra nemmeno troppo stretta. Una fede di carattere religioso che riposava comunque sul fondo dell’“anima” di molti militanti dell’epoca e che veniva sostituita da una fede “laica” di uguale o maggior portata e potenza simbolica.
Ecco allora che la ricerca sulle “scritture” dei militanti comunisti rivela un aspetto ancora troppo accantonato dell’esperienza e del successo epocale dell’ideale comunista, in un contesto in cui il “partito nuovo” di Togliatti riproponeva la tradizione staliniana ancor più che bolscevica cercando di adattarla opportunisticamente alle necessità politiche dei tempi, affidandosi all’arma di coinvolgimento più potente per un’istituzione politico-religiosa (che fosse la Compagnia di Gesù o il PCI poco importa dal punto di vista della ricerca): la confessione pubblica e la dichiarazione della piena appartenenza alla causa ideale.
Fino ad ora però si è qui tralasciato l’aspetto più interessante sottolineato da Mauro Boarelli, quello riguardante la cultura d’origine degli autori delle biografie esaminate: una cultura ancor prevalentemente orale in cui l’uso della scrittura costringeva spesso i militanti ad autentiche contorsioni espressive che costituivano effettivamente la “forma” della resa e dell’accettazione di un certo tipo di inquadramento politico che era, forse, prima di tutto culturale.
L’ideale progressista che animava le scuole di partito finiva così col ricalcare il metodo di una scuola che, dal punto di vista linguistico, più che tener conto delle differenze individuali, culturali e di classe, mirava ad un inquadramento unico dei soggetti/oggetti destinati ad essere istruiti e che della cancellazione delle radici sociali e delle lingue ad esse collegate faceva, e ancora troppo spesso fa, il suo obiettivo primario.
Lo sradicamento dalle radici culturali significava, in ambito istituzionale e partitico, non solo impoverire la ricchezza espressiva posseduta in partenza dai subordinati, ma anche, ridefinendone i linguaggi e le terminologie usate (spesso impropriamente), ridisegnarne i confini del pensiero e della capacità di autonoma riflessione, sia dal punto di vista individuale che collettivo. Motivo per cui si può cogliere come la resa dei partiti comunisti all’ideale progressista di acculturazione e alfabetizzazione finisse col ridurre quegli stessi partiti a strumenti di un’evoluzione politica e sociale che poco per volta avrebbe rimosso dal suo orizzonte qualsiasi cambiamento radicale dei rapporti di classe, economici e culturali.
Come dire: la trasformazione dell’immaginario partitico da antagonista a sostenitore dell’esistente aveva origine, più ancora che nelle scelte ideologiche e nella praxis politica, negli strumenti usati per inquadrare i militanti. Strumenti educativi che si pensavano imparziali e disinteressati, ma che di fatto non lo erano.
E non a caso qui l’autore pone attenzione alle diverse interpretazioni dell’uso e dell’avvento della scrittura nelle società prevalentemente orali, mettendo a confronto le ipotesi di Walter J. Ong e Jack Goody che sono stati due dei maggiori studiosi, da punti di vista differenti e, sostanzialmente, contrari del fenomeno, sia a livello storico che antropologico.
Togliere ai militanti, o a chiunque altro, il proprio retroterra linguistico, rappresentava, e significa ancora adesso, una sorta di colonizzazione culturale destinata a privarli della “voce” nel senso più vero e profondo e “togliere la voce” significa anche ricomporre, oppure reprimere, il disaccordo compreso in una differente e più articolata organizzazione del discorso. Ecco allora che l’esercizio forzoso della scrittura si trasformava in un disarmo profondo della base del partito, dopo di che qualsiasi alterazione del percorso politico programmato dai vertici sarebbe stato più facilmente digerito dalla stessa. Fino alla cancellazione della sua memoria e della sua esperienza storica.
Sia ben chiaro: questa recensione si è basata principalmente sui presupposti metodologici espressi dall’autore sia nella prima introduzione che in in quella aggiunta per la nuova ma, anche se la ricchezza e la varietà delle testimonianze contenute nelle autobiografie citate costituisce il vero cuore del testo, è proprio in quelle che è possibile cogliere il problema di quella disciplina della memoria cui Boarelli ha rivolto principalmente la sua attenzione.
La lettura del testo non può dunque che rivelarsi utile e stimolante per chiunque sia interessato ad uscire dalle peste, ideologiche e metodologiche, che hanno caratterizzato un secolo giunto da tempo al suo tramonto, ma che ancora tardano a lasciare libero il campo a più approfondite conoscenze e riflessioni sulle cause delle sue tragedie, dei suoi errori e delle sue sconfitte. Cui la sola critica di carattere ideologico non può certamente più bastare.