Nella visione tradizionale, il passaggio potenzialmente più destabilizzante connesso a un abbandono dell’euro e all’introduzione di una nuova moneta nazionale è rappresentato dalla conversione di tutte le attività e le passività finanziarie, connessa a un’attesa svalutazione della nuova moneta per effetto della “liberazione” di un differenziale accumulatosi negli anni e rimasto compresso dal cambio fisso imposto.
In realtà, essendo l’intero settore finanziario organizzato sulla base del noto principio della “partita doppia”, per il quale ad ogni attività corrisponde una passività e viceversa, una conversione integrale non determinerebbe, in termini aggregati, alcuno squilibrio.
Nella realtà, tuttavia, ci sono almeno due fattori, di natura in parte psicologica, in parte tecnica, che finiscono per complicare tale scenario:
- i singoli soggetti economici tendono a valutare in modo differente l’impatto di un’eventuale svalutazione, dando maggior peso agli svantaggi potenziali sul lato delle attività rispetto ai vantaggi potenziali sul lato delle passività;
- non è scontato che la conversione possa riguardare “pacificamente” tutte le voci di bilancio.
Il primo punto, in parole più semplici, vuol dire che i risparmiatori tendono a non accettare scenari nei quali il valore nominale dei loro risparmi si ridurrebbe; a nulla vale dimostrare che tale riduzione nominale rispetto a una valuta estera non si tradurrebbe automaticamente in una riduzione del potere di acquisto, o prospettare i vantaggi che le nuove politiche produrrebbero nel medio-lungo termine anche a sostegno dei risparmi (a partire dalla garanzia totale su depositi e titoli di Stato). Il blocco, infatti, è di natura psicologica e tende a tramutarsi in scelta politica, come dimostra il costante scollamento tra alta consapevolezza delle criticità dell’UE e bassa disponibilità effettiva a uscirne.
Il secondo punto si riferisce, invece, ai dubbi connessi alla convertibilità dei titoli di debito pubblico “marchiati” da apposite clausole (le famose CACS); se, infatti, l’applicazione stessa di tali clausole mostra la percezione della concretezza dell’ipotesi della ridenominazione, dunque la crescente debolezza del sistema euro/Unione Europea, dal punto di vista giuridico essa potrebbe rappresentare un ostacolo concreto per l’applicazione della “lex monetae”, con il rischio di determinare un’asimmetria nei bilanci pubblici (attivi in nuova valuta nazionale, passivi in euro) potenzialmente destabilizzante.
Ebbene, la straordinarietà del “modello Mosler” consiste proprio nella capacità di disinnescare questi punti critici, che poi rappresentano l’argine tecnico e psicologico che impedisce alla prospettiva di abbandono di euro e Unione Europea di imporsi sul piano politico ed elettorale.
Esso, infatti, prevede di non convertire nulla dell’esistente: risparmi, titoli di debito e di credito, ogni altro tipo di contratto redatto fino al momento dell’introduzione della nuova moneta conserverebbero la denominazione valutaria originaria.
L’introduzione della nuova moneta avverrebbe semplicemente attraverso le leve della spesa pubblica e della tassazione: lo Stato inizierebbe cioè a spendere, tassare ed emettere titoli di debito nella nuova valuta, creando così una crescente domanda della stessa e determinando i presupposti della sua diffusione e della progressiva, rapida e inevitabile sostituzione dell’euro.