Sui generi. Note per un femminismo rivoluzionario

“La formazione è tutto. Tutto il resto viene dopo. Ognuno qui deve imparare prima di tutto a uccidere il maschio dominante dentro sé e negli altri, uomini e donne. Interrogarsi sui generi, mettere in discussione i rapporti secolari tra maschi e femmine… è la base della rivoluzione.”

Zerocalcare, Kobane Calling Oggi, 2020, Bao Publishing

Ultimamente, mi sono chiesto spesso se il femminismo – quello più generalmente definibile con le parole di Chimamanda Ngozi Adichie come tendente alla “eguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi[1]” – si possa considerare per sé stesso un movimento rivoluzionario. La “quarta ondata” ha assunto negli ultimi anni sempre maggiore forza e coinvolto sempre più persone nella lotta. D’altro canto, però, come spesso succede ai fenomeni di massa, è stata in parte assorbita dalla logica neoliberale, in parte limitata da un approccio pluralista, inclusivo, globalizzato. Ma se da un lato fenomeni di pinkwashing e rainbowashing – cioè il supporto meramente dialettico ai temi transfemministi, a vantaggio di secondi fini, per lo più commerciali – o di “femminismi” liberali come quello del popolare network Freeda prosperano ancora e occupano una fetta importante del dibattito femminista italiano, non si può dall’altro lato negare che esistano istanze, almeno teoriche, che delineano una teoria femminista – anche se il termine non calza, vedremo – veramente rivoluzionaria.

Il primo, enorme, gradino da superare attiene al rapporto tra capitalismo e femminismo. Troppo spesso infatti si sente parlare di patriarcato come prodotto della società capitalistica, ponendo quindi la lotta femminista come sovrastrutturale rispetto alla lotta di classe, marxianamente intesa, quale lotta diretta a sovvertire la subalternità materiale tra proletariato e borghesia, comunque attualizzata. Il patriarcato, però, non può essere considerato un elemento sovrastrutturale ascrivibile al capitalismo, ancorché nella sua forma neoliberale. Ciò non perché ritengo la lotta femminista come più importante rispetto alle altre, che le sarebbero ancellari o che non la riguarderebbero in alcun modo. E questo lo dimostra, ad esempio, il movimento ambientalista per la giustizia climatica, fondamentale alla sopravvivenza nostra e del pianeta che abitiamo e dunque di primaria importanza, ma sovrastrutturale in quanto completamente ascrivibile al sistema economico che, fondato il differenziale di potere tra classe dominante e classe dominata, riproduce tale differenziale anche nei confronti della natura (e spesso della stessa scienza) anteponendo alla vita il costante aumento del profitto.

Descrivendo – in maniera elementare – il capitalismo in questo senso, cioè come sistema che costituisce una gerarchia tra due classi sociali affinché la classe borghese dominate possa estrarre un plusvalore dal lavoro della classe proletaria subalterna, si capisce immediatamente che il patriarcato non può correttamente inserircisi. Ciò che suggeriscono le opere di una filosofa femminista (che preferiva definirsi lesbica materialista) come Monique Wittig[2] è che ciò a cui ci riferiamo come patriarcato sia in realtà sottostrutturale rispetto al capitalismo. Wittig teorizza l’esistenza di un sistema sociale eterosessuale, fondato “sull’oppressione delle donne da parte degli uomini” e che “produce la dottrina delle differenze tra i sessi per giustificare tale oppressione”. L’eterosessualità intesa in questi termini fonda le condizioni di esistenza di un sistema capitalistico che dunque non crea un differenziale di potere tra uomini e donne – e le altre minoranze di genere e sessuali – bensì si fonda su una subalternità preesistente.

Adottare una prospettiva opposta significherebbe potenzialmente arrivare ad ascrivere le violenze di genere, gli stupri, finanche i femminicidi al capitalismo. E ciò non si può che definire aberrante.

Il secondo, altrettanto importante, passo da fare è invece relativo alla corretta qualificazione di questa subalternità. La lotta femminista mainstream, sia quella neoliberale che quella radicale[3], si fonda nella maggioranza dei casi sul superamento degli stereotipi e dei pregiudizi insiti nella società, limitandosi così a (cercare di) decostruire una subalternità solo culturale. Ma la subalternità delle minoranze di genere e sessuali, in cui vanno ricomprese le donne in quanto minoranza politica, non è solamente culturale, ma anche materiale, come ricorda Federico Zappino, citando Judith Butler.

L’eterosessualità informa i parametri di intelligibilità di ogni forma di soggettivazione e di relazione, procedendo poi alla loro distribuzione differenziale lungo linee di privilegio o abiezione, di dominio o oppressione. E come ricordava Judith Butler in Merely cultural il modo di produzione eterosessuale non è mai stato, e non è tuttora, “meramente culturale”: se la subalternità che produce si rivela essenziale al mantenimento del dominio di chi nel suo sistema sociale occupa posizioni di privilegio, tale mantenimento consiste sempre, inaggirabilmente, in una forma di riproduzione materiale ed economica[4].

Esempi in termini di subalternità materiale sono innumerevoli, a partire dal lavoro casalingo e di cura dei figli che le donne si trovano a svolgere senza percepire alcun tipo di retribuzione. In questo caso non si può negare che il plusvalore sia estratto, oltre che dal capitalismo, dalla classe maschile eterosessuale, che profitta del lavoro femminile in questi termini. Ancora, il fatto che la stragrande maggioranza dei commessi di sesso maschile nei negozi di moda cosiddetta fast (abbigliamento di basso costo) sia gay, o che gay e lesbiche siano comunque sfruttate in lavori sottopagati e massacranti – purché spesso diplomate o laureate – conferma l’esistenza di una subordinazione materiale che si estende al di là del semplice rapporto economico capitalistico e che solo in parte ha a che fare con pregiudizi e stereotipi. Il capitale altro non ha fatto se non passare dall’esclusione fondamentalista delle minoranze di genere e sessuali – perché il sistema sociale eterosessuale così voleva – alla loro inclusione condizionale, in un’ottica neoliberale e di diversity management. Il capitalismo di per sé, infatti, non avrebbe alcun interesse ad autoescludersi categoricamente la possibilità di sfruttare persone di un determinato gruppo sociale: semmai è la norma eterosessuale che impone di relegarle a posizioni di subalternità estrema.

Ciò naturalmente non vuole affermare che la lotta contro i pregiudizi e gli stereotipi non debba portarsi avanti, quanto più che “se la lotta agli stereotipi di genere […] sostituisce una lotta più radicale contro le norme di genere spesso fedelmente riprodotte da ciò che viene definito “stereotipo”, allora la lotta agli stereotipi diventa ancillare al consolidamento delle norme di genere stesse[5]”.

È quindi chiaro che l’oppressione eterosessuale si dilata in ogni aspetto della nostra vita senza nemmeno che ce ne accorgiamo, dal momento in cui è così strutturalmente costruita che è assunta, spesso, come prodotto della natura stessa e non invece come prodotto della società. Ciò a partire dalla differenza tra i sessi, che come ricorda Monique Wittig è un altro prodotto del sistema eterosessuale per “giustificare la sua oppressione”.

L’idea che i sessi siano perenni e l’idea che perenne sarebbe anche il rapporto tra schiavi e padroni derivano dalla stessa convinzione; eppure, così come non vi sarebbero schiavi se non vi fossero padroni, allo stesso modo non vi sarebbero donne se non vi fossero uomini. […] il punto è che non esiste alcun sesso. Esistono solo un sesso oppresso e un sesso oppressore. Ed è l’oppressione a creare il sesso; non il contrario. Sostenere il contrario significherebbe sostenere che il sesso crea oppressione, o che la causa (o l’origine) dell’oppressione debba essere ricercata nel sesso in sé, in una qualche naturale divisione dei sessi che preesiste alla società, o che a essa si pone come esterna[6].

Non è sufficiente adottare un approccio antinaturalista come quello xenofemminista, per cui “ogni progetto politico basato sulla natura come limite pseudoteologico, cartografia dell’intoccabile o spazio di purezza incontaminabile, rischia di concedere enormi risorse concettuali alla condanna conservatrice della differenza radicale[7]”. Bisogna, invece, riconoscere che le differenze tra i sessi che fino ad ora abbiamo ritenuto naturali siano invece frutto di un sistema sociale, che le produce alla stregua di diseguaglianze. E tali diseguaglianze diventano intellegibili solo al momento dello scontro tra oppressi e oppressori.Il nostro compito dunque non è quello di rintracciare nuove forme di diversità da conoscere e promuovere, ma di sovvertire le diseguaglianze e soprattutto sovvertire la loro matrice eterosessuale.

Non vorrei peraltro che tale discorso passasse per gender blindness, cioè per un annichilimento delle differenze storiche tra le minoranze di genere e sessuali come succede – e si è visto spesso negli ultimi tempi – con le differenze tra persone bianche e people of colour[8] annullate dagli slogan “All lives matter”. Con questo testo non si vuole affermare la ontologica indifferenza tra persone, ma sottolineare come tale differenza sia storica, e non biologica, e quindi ascrivibile ad un sistema sociale che l’ha fondata in maniera indistinguibile da come vengono formate le diseguaglianze, e non invece riferita solamente alla natura. Nessuno si sognerebbe mai infatti di ascrivere le differenze tra bianchi e POC che hanno fatto (in)sorgere il movimento Black Lives Matter, alla natura: le persone che manifestano nelle strade e nelle piazze statunitensi non contestano l’essere fisicamente diverse dai bianchi, quanto che tale differenza sia stata tradotta in una diseguaglianza che il sistema capitalistico ha inglobato e messo a valore, sfruttandola. Altresì sarebbe quantomeno curioso sentire qualcuno che sussuma la subalternità della classe proletaria ad una differenza naturale tra sfruttati e sfruttatori. In questo senso, riprendendo le parole di Wittig, così come non esisterebbero schiavi se non ci fossero padroni, allo stesso modo non ci sarebbero donne se non ci fossero gli uomini. Così come l’obiettivo della classe lavoratrice oppressa è autodistruttivo in quanto tende a sovvertire l’ordine imposto e quindi ad un futuro in cui tale classe non esista più, così l’obiettivo rivoluzionario femminista deve essere la sovversione non solo dei ruoli di genere, ma degli stessi generi, per un futuro in cui non esistano più uomini e donne.

Ed ecco che quindi viene in rilievo lo stesso termine – femminismo. Le ragioni storiche giustificano interamente il nome dato al movimento, anche ora che la tendenza maggioritaria è quella che risponde alla definizione di Adichie. Ma una prospettiva materialista come quella descritta ci impone di rivedere questo termine: d’altronde, come si può parlare di femminismo se l’obiettivo è la sovversione dei sessi, quindi anche quello femminile? È per questo motivo che Monique Wittig si definisce lesbica materialista, perché riconosce nella categoria politica di sesso “donna” uno strumento dell’oppressione eterosessuale. Si potrebbe dunque parlare, come fa Zappino, di teoria queer o, ancora meglio, di ideologia gender. Per anni, infatti, i movimenti neofascisti, neofondamentalisti e persino il Papa hanno attaccato i movimenti queer[9] come promotori della teoria gender e dell’ideologia gender. E per anni a tali accuse è sempre stato risposto che l’ideologia gender non esiste, che esistono semmai studi scientifici di genere che cercano di comprendere le differenze tra i soggetti queer. In un regime post-ideologico come quello neoliberale, però, una lotta altrettanto post-ideologica rischia di essere sussunta completamente nel sistema che la rinnega. Una lotta contro gli stereotipi di genere può portare ad una maggiore assunzione di personale queer[10]; una lotta contro i pregiudizi può portare alla commercializzazione di prodotti per le persone trans* e non binarie. In altri termini, il capitalismo riesce agilmente a rispondere alle lotte post-ideologiche con gli strumenti di cui dispone: lo sfruttamento e il consumo. L’unica lotta che possa veramente sovvertire sia i pregiudizi e gli stereotipi, sia l’intero sistema di oppressione eterosessuale che fonda tali pregiudizi e stereotipi è una lotta ideologica, e come tale va trattata. È questa però una lotta che non può essere pluralista, inclusiva, globalizzata; vanno messi dei paletti, limitato l’intervento di chi incorpora e riproduce la norma eterosessuale perché in esso bisogna riconoscere un nemico. Non è una questione di gusti, di orientamento sessuale, ma di condivisione di una lotta politica che ha come obiettivo quello di sovvertire il dominio degli uomini eterosessuali su tutte le altre persone.

Non abbiamo alcun bisogno di uomini eterosessuali “alleati” o “inclusivi” o “sensibili” o “antisessisti” o “antiomofobici”. Il problema è a monte: non abbiamo alcun bisogno di “uomini eterosessuali[11]”.

Ciò non significa peraltro che la lotta anti-patriarcale sia l’unica degna di essere combattuta, né che il nemico assoluto sia da identificare in tutti i soggetti maschi eterosessuali.Una lotta rivoluzionaria deve partire dalla costituzione di una ideologia contro-egemone, che postuli l’abolizione dello stato delle cose per costruire una società diversa. E tale contro-egemonia non può essere raggiunta attraverso l’inclusione di chi incorpora la norma egemonica[12]. Non si tratta di fare gatekeeping, ma di riconoscere che non ci serve un “femminismo per il 99%”, perché in quella massa c’è chi rifiuta di rinunciare al proprio privilegio eterosessuale. Ecco perché non è una mera questione di orientamento sessuale, quanto più di rinuncia assoluta ad un privilegio che si dà per naturale. La prospettiva è complessa perché è questo forse il primo momento in cui anche i movimenti sociali devono decostruirsi: la lotta portata avanti fino ad ora è sempre stata imperniata su una lotta di classe tra sfruttati e sfruttatori, categoria, quest’ultima, in cui chiunque lottasse si poteva identificare. L’esistenza di un differenziale di potere tra le categorie politiche di uomo e donna, però, istituisce un dominio eterosessuale che supera le frontiere della classe marxianamente intesa e irradia qualsiasi relazione sociale.

Tutto ciò non impedisce però di riconoscere altri assi di dominio che, similmente a quello eterosessuale, precedono e fondano la struttura del capitalismo, come ad esempio il sistema sociale razziale e quello abilista. Allo stesso modo in cui il sistema sociale eterosessuale produce le differenze tra i sessi in maniera indistinguibile dalle diseguaglianze, finanche ascrivendole alla naturalità, così gli altri sistemi producono la differenza tra persone bianche e nere e tra abili e disabili per privilegiare le prime sulle seconde. E allo stesso modo il capitalismo mette a valore tali diseguaglianze sfruttando – e spesso de-umanizzando o animalizzando[13]– le une e disdegnando le altre, considerate prive di valore in quanto “improduttive”. Dal momento che i diversi assi di dominio sono incomparabili, non gerarchizzabili per importanza o violenza perpetrata, è quindi necessaria una lotta che tenda a sovvertirli tutti, ma senza la necessità di dover includere, tra le fila della costruzione teorica o della distruzione pratica di tali sistemi sociali, chi, in posizione di dominio, non sia disposto a rinnegarla e a lottare per un futuro in cui tale posizione non esista più.

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Note:

[1]Chimamanda Ngozi Adichie, Dovremmo essere tutti femministi, Einaudi Editore, 2015

[2]Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, Ombre Corte, 2019

[3]Con radicale mi riferisco a quella più propria dei movimenti sociali, e non a quei gruppi di attivist* cc.dd. TERF (trans-exclusionary radical feminist) che per quanto mi riguarda non hanno nulla né di radicale, né di femminista

[4]Federico Zappino, Comunismo Queer, Meltemi, 2019

[5]Ibid.

[6]Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, Ombre Corte, 2019

[7]Helen Hester, Xenofemminismo, Produzioni Nero, 2018

[8]Utilizzo la terminologia inglese sia perché ricomprende tutte le persone non-bianche, sia perché dà una connotazione geografica ad un fenomeno come la race blindness che ha ripreso vigore come risposta al movimento Black Lives Matter statunitense

[9]Termine ampio utilizzato nella comunità LGBTQ+ (la Q sta proprio per queer) per intendere sia un orientamento sessuale diverso da quello eterosessuale, sia un’identità di genere diversa da quella cisgenere. In altri termini, indica ciò che sta fuori dalla norma eterosessuale, e per questo il termine è azzeccato.

[10]Assunzione perlopiù condizionata dal fatto che i soggetti in questione si comportino, si vestano e si atteggino seguendo la norma eterosessuale, di fatto nascondendo se stessi

[11]Federico Zappino, Comunismo Queer, Meltemi, 2019,

[12]Per esemplificare, in altre parole, non ci si può immaginare una rivoluzione ideata da Jeff Bezos (fondatore di Amazon e tra gli uomini più ricchi del mondo), o di manifestare in piazza assieme all’amministratore delegato di Eni.

[13]Si potrebbe in questo senso analizzare un altro asse di dominio, che possibilmente precede anche questi tre: quello specista. Ma la complessità dell’argomento impone di dedicargli un testo a sé.

** Pic Credit: Angelo Mennillo, su Komikazen 99%, Giuda Edizioni

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