Ai combattenti internazionali vennero concesse due notti di tempo per scegliere. Se avessero accettato, si sarebbero trovati contro un nemico molto più potente dello Stato islamico: bande jihadiste bene armate che affiancavano soldati professionisti, elicotteri Mangusta con mitragliatrici calibro 12 mm, cacciabombardieri contro i quali non si poteva fare assolutamente nulla, se non rintanarsi nelle grotte e aspettare. Era il 19 gennaio del 2018 e gli scoppi dell’artiglieria turca avevano cominciato ad abbattersi all’interno del cantone di Afrin, l’invasione contro la rivoluzione del Rojava era appena cominciata. Il giorno seguente le truppe di fanteria avrebbero fatto il loro ingresso nel territorio siriano, sarebbe iniziata l’Operazione Ramoscello d’Ulivo. La maggior parte dei combattenti internazionali non se la sentì di spostarsi su quel fronte e preferì restare a fronteggiare le bandiere nere del Califfato tra Deir ez-Zor e Shaddadi. Cinque italiani si trovavano ad Afrin in occasione dell’invasione turca, e quattro di loro presero parte alla guerra di resistenza. Una guerra radicalmente diversa da quella contro lo Stato islamico: non più scontro simmetrico con fronti ben definiti, ma uno in cui bisogna colpire e nascondersi, avanzare e ritirarsi, solcare a piedi uno sterminato numero di colline, evitare gli spostamenti lungo le vie stradali per non incappare nello sguardo dei droni, ed essere convinti fino in fondo di poter arrivare a sacrificare la propria vita.
Ma capiamo per bene cosa è stata l’invasione di Afrin, tre anni fa.
Il 18 marzo del 2018 l’Esercito turco e le bande jihadiste da esso sostenute conquistavano la cittadina siriana di Afrin, dopo quasi due mesi di combattimenti. Afrin era una delle città più importanti per la rivoluzione confederale dei curdi siriani, che nel 2012 avevano scacciato le truppe del dittatore Assad già impegnato con le insurrezioni nel resto del paese. Da allora, i curdi siriani avevano proclamato una loro autonomia nel nord della Siria, mettendo in pratica un originale programma incentrato sulla liberazione femminile, l’inclusione di tutte le minoranze etniche e religiose nella gestione politica, il decentramento del potere e l’implementazione di una agenda socialista ed ecologica. Semplificando molto è bene sottolineare che quando parliamo di curdi siriani non ci riferiamo ad una comunità omogenea, ma a quei gruppi che si riconoscono nelle sigle YPG e YPJ (milizie popolari), PYD (il partito al potere nella Siria del Nord/Rojava) e SDF (coalizione di forze plurietniche a guida curda).
All’inizio del 2018 si poteva tranquillamente dire che i curdi siriani erano uno dei pochi vincitori della guerra civile in Siria. Meno di sei mesi prima, infatti, erano riusciti a espugnare Raqqa (allora capitale dello Stato islamico), sia grazie ad una formidabile motivazione ideologica e rivoluzionaria, ma anche all’appoggio aereo della Coalizione internazionale. Inoltre godevano dell’amicizia di comodo degli Stati Uniti che li avevano scelti come interlocutore privilegiato per condurre la guerra sul campo contro il terrorismo jihadista. E nei tre anni precedenti, a partire dal 2014, la presenza delle truppe USA lungo il confine turco-siriano aveva funto da deterrente contro invasioni da parte della Turchia, acerrima nemica dell’autonomia curda nella Siria settentrionale, laica, femminista e antitotalitaria. Alle milizie YPG/YPJ dei curdi siriani si erano aggiunti anche un gran numero di internazionali arrivati in Siria per le motivazioni più disparate, chi per combattere contro il fanatismo islamista, chi per sostenere la rivoluzione, chi per semplice solidarietà.
Ma come si arriva alla presa di Afrin?
Le cose cominciarono a cambiare subito dopo la liberazione di Raqqa da parte delle forze della rivoluzione. Se da una parte, una volta conclusa la maggior parte delle operazioni contro lo Stato islamico, gli Stati Uniti si dimostrarono via via sempre più timidi nel redarguire il potente alleato turco su un suo improvviso attacco contro la Siria del Nord, dall’altra anche la Russia iniziò ad assecondare le richieste di Erdoğan in virtù dell’equilibrio raggiunto tra le due potenze dopo il fallito golpe in Turchia del 2016. Insomma: i curdi cominciarono ad essere scaricati dai vari alleati, per poi essere lasciati in pasto alle mire espansionistiche del dittatore turco Erdoğan.
Come dicevamo all’inizio, Afrin era una delle città più importanti per la rivoluzione del Rojava: la città si colloca nell’estremo angolo nordoccidentale del paese, in un ambiente molto diverso dal quello del resto della Siria, con migliaia di ettari collinari destinati alla coltura di olivi, disponibilità di corsi d’acqua, laghi e addirittura della diga Maydanki, edificata lungo il fiume che presta il nome alla città. Qui erano state fondate le milizie femminili YPJ, baluardo della politica femminista del PYD. Negli anni era stata un cittadella pressoché al riparo dalle turbolenze del conflitto siriano, luogo sicuro per l’affluenza di profughi e sfollati interni, nonché una tra le poche realtà economicamente più forti in Siria. A differenza Rojava orientale, che rimaneva assicurato da invasioni esterne grazie alle truppe statunitensi, ad Afrin erano i russi a far da padroni. Ed è per via della presenza russa che gli scenari mutarono improvvisamente.
Mettiamo indietro le lancette dell’orologio al gennaio di tre anni fa: è il momento in cui la Russia di Putin e la Turchia di Erdoğan si accordano per il completo ritiro delle truppe russe dal cantone di Afrin. Il 20 gennaio 2018 il Ministro della Difesa turco dichiara l’inizio dell’operazione finalizzata a eradicare l’autonomia curda del cantone di Afrin. L’invasione segue tre direttrici: da nord (presso il villaggio di Bulbul), est (sulla sommità del monte Barsaya, che viene strappato alla resistenza dopo giorni di combattimenti) e ovest (in prossimità del confine tra i centri di Jindires e Rajo). Per circa quattro settimane gli avanzamenti territoriali sono timidi e stentano a consolidarsi: soprattutto nelle prime fasi dell’ingresso delle bande filo-turche arrivano immagini di carri armati impantanati, miliziani jihadisti che si ritirano dietro alle linee turche, villaggi di volta in volta riconquistati dalla resistenza YPG/YPJ. Ma allo stesso tempo si iniziano a diffondere i volti dei martiri, tra cui quello della combattante YPJ Avesta Xabur, che una settimana dopo l’ingresso delle truppe turche si sacrifica presso Jindires per far saltare in aria un carro armato.
La guerra partigiana di Afrin significa trascorrere ore infinite al riparo dai bombardamenti nelle caverne, significa sciogliere la tensione accumulata fumando centinaia di sigarette, bevendo quintalate di chay e cantando canti popolari dalla mattina alla sera, il tutto nell’oscurità delle grotte. Significa anche combattere una guerra di guerriglia dove la popolazione è amica, ti fornisce addirittura i piatti dove mangiare un boccone di riso, di pane. Significa uscire dai ripari nel cuore della notte, indovinare il punto dove si è soliti fare i propri bisogni e lì dirigersi senza dare nell’occhio del nemico, e fare tutto questo senza accendere una torcia o spezzare un ramoscello sul sentiero. Significa combattere a fianco di curdi, arabi, turcomanni, armeni, assiri, tutti uniti dal desiderio di difendere la propria terra dall’invasore. Significa portarsi in spalla per chilometri il corpo del compagno ferito o ucciso, perché la tumulazione dei martiri è un rituale irrinunciabile nella cultura del posto, indispensabile per restituire la dignità a ciascun caduto.
Dalla seconda metà di febbraio la superiorità tecnica e militare dell’Esercito turco comincia a farsi sentire. Le forze partigiane continuano inesorabilmente a cedere terreno sotto le bombe dell’aviazione e l’avanzata delle truppe meccanizzate. Interi manipoli di compagni e compagne vengono sterminati dalle incursioni degli elicotteri, che fanno piazza pulita degli avamposti difensivi. Dall’inizio dell’operazione il numero di unità partigiane impiegate in combattimento arriva a sfiorare le 20 mila unità, più del doppio di quelle presenti a fine gennaio, ma sono costrette a fronteggiare un nemico soverchiante. Nei primi giorni di marzo la Turchia arriva a creare una cintura ininterrotta all’interno del confine siriano, profonda una decina di chilometri e che si estende da Azaz fino alla sacca di Idlib: è dal 2012 che le due zone controllate dalle milizie ribelli del FSA (ora utilizzate strumentalmente dalla Turchia) non hanno punti di contatto. Rajo, Cindires, Sheikh al-Hadid e Bulbul vengono tutte occupate. Le canne dei fucili turchi ora puntano dirette su Afrin, nel cuore del cantone.
La città cade il 18 marzo, due giorni prima dello scoccare dei due mesi precisi dall’inizio dell’invasione. Tutto lasciava presagire che la resistenza sarebbe durata ad oltranza quartiere per quartiere, strada per strada, casa per casa. Invece i comandanti delle SDF decidono di evacuare in fretta e furia Afrin per evitare un massacro annunciato di civili e combattenti, che altrimenti non avrebbero potuto nulla contro la superiorità aerea della Turchia. I jihadisti e i militari di Erdoğan dilagano per le strade di Afrin, abbattono la statua del fabbro Kawa – figura mitologica della cultura curda -, danno alle fiamme le bandiere delle Forze di protezione delle donne e ammazzano i prigionieri esponendone i corpi. Il mondo occidentale che ha armato e sostenuto la Turchia e le sue milizie jihadiste volta lo sguardo dall’altra parte, per non intaccare gli interessi economico-militari tra le potenze: le forze rivoluzionarie che avevano sbaragliato lo Stato islamico vengono abbandonate ad un massacro. La Repubblica titola che l’Esercito turco apre un corridoio umanitario per evacuare la città e salvare i civili, ma tace sui molteplici bombardamenti che gli ospedali civili di Afrin hanno dovuto sopportare. Amedeo Ricucci scrive che non dobbiamo definire le truppe turco-jihadiste come “tagliagole”, in barba alle immagini della partigiana Barin Kobane straziata, mutilata e vezzeggiata proprio dai militari del secondo esercito NATO.
Il bilancio finale dell’Operazione Ramoscello d’Ulivo è spaventoso: più di 500 civili uccisi dai miliziani turco-jihadisti e dai missili dei droni, utilizzo di armi chimiche come il fosforo bianco; spari da parte della Jandarma turca sugli sfollati e sui convogli di civili in fuga (per di più bombardati addirittura dall’aviazione), 200 mila rifugiati costretti a lasciare le proprie abitazioni; due ospedali rasi al suolo; da questo momento inizia la politica di reinsediamento nel cantone appena conquistato sia dei profughi arabo-siriani precedentemente fuggiti in Turchia sia delle famiglie dei combattenti turcomanni allineati con Erdoğan: quindi ne segue pulizia etnica, rapimenti, sequestri, femminicidi, deportazione degli oppositori, confisca di terre e proprietà ed esecuzioni sommarie. Infine, si contato tra i 1000 e i 1500 compagni caduti: per capirci, quasi il triplo dei martiri di Kobane durante l’epica resistenza contro lo Stato islamico.
E cosa rimane oggi dell’invasione di Afrin? Cosa possiamo imparare noi che restiamo? Come ci insegnano i compagni internazionali che hanno combattuto ad Afrin, citando Seneca: vivi per gli altri se tu stesso vuoi vivere. Forse questa frase rappresenta al meglio lo spirito che animò quella lotta senza quartiere, tra le colline e gli uliveti di una provincia pacifica e accogliente. Oggi sappiamo che quel che accadde ad Afrin tre anni fa furono le prove generali per l’invasione del Rojava da parte della dittatura turca, che ebbe luogo l’anno successivo. Sicuramente i carri armati dell’invasore sono pronti a far rombare nuovamente i motori per completare l’opera, e noi dovremo essere pronti. Vivi per gli altri se tu stesso vuoi vivere: cos’altro ci insegnano i martiri di quella resistenza?