«All’alba del 18 marzo, Parigi fu svegliata da un colpo di tuono: “Vive la Commune!”. Che cos’è la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei borghesi? “I proletari di Parigi,” diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo, “in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l’ora in cui essi debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari… Essi hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto di rendersi padroni dei loro destini, impossessandosi del potere governativo”». Con queste parole Marx ne La guerra civile in Francia del 1871 raccontava la nascita della Comune di Parigi.
Le sconfitte subite ad opera dell’esercito prussiano avevano portato al crollo dell’impero di Napoleone III. Mentre la guerra continuava era nata una repubblica guidata da un governo provvisorio, espressione delle classi possidenti e presieduto dal primo ministro Thiers.
In questa drammatica situazione i lavoratori e le lavoratrici di Parigi si organizzarono in una comunità resistente, anzi in una confederazione di comunità resistenti. Fin dagli inizi del settembre 1870 i sindacati e le organizzazioni rivoluzionarie (alcune delle quali aderenti alla Prima Internazionale) avevano creato in ogni quartiere un Comitato di vigilanza, formato da delegati scelti dalla popolazione e che ad essa relazionavano in merito alla propria attività in assemblea. Ogni Comitato di vigilanza inviava a sua volta quattro delegati al Comitato centrale cittadino. Si era anche costituita la Guardia Nazionale, una forza armata di autodifesa popolare, dotata di fucili e cannoni pagati con le offerte dello stesso popolo che difendevano.
Grazie alla sua auto-organizzazione e al valore dei volontari della Guardia Nazionale Parigi resistette con successo ai prussiani, ma il governo borghese ed i suoi generali preferivano la sconfitta del proprio paese alla possibilità che avesse una trasformazione rivoluzionaria. Per questo prima sabotarono i tentativi di controffensiva e poi firmarono una pace umiliante con il Kaiser prussiano.
All’alba del 18 marzo 1871 la città si svegliò invasa dalle truppe dell’esercito regolare, su ordine del governo Thiers marciavano su Montmartre per requisire i cannoni della Guardia Nazionale lì concentrati. Ci riuscirono, ma si ritrovarono subito circondati da una folla di lavoratori e soprattutto di lavoratrici che non intendevano lasciarli fare. A quel punto il generale Lecomte, che aveva già fatto sparare sugli operai nel 1848, ordinò di aprire il fuoco sulla folla. Ma i soldati non spararono. Il generale si sgolava, ma le truppe restarono immobili, con i fucili imbracciati. Poi qualcuno dovette dirlo a voce alta, gridarlo: «Giù i fucili compagni! È la nostra gente!». Fu un attimo, i soldati ruppero le righe e si mescolarono al popolo. Il generale Lecomte venne arrestato e poi fucilato insieme al suo pari grado Thomas, mentre Thiers e i suoi ministri fuggivano in gran fretta verso Versailles.
Sull’onda di questa rivolta spontanea il Comitato centrale proclamò la nascita della Comune. La sua essenza è stata così colta da Marx:
«La molteplicità delle interpretazioni che si danno della Comune e la molteplicità degli interessi che nella Comune hanno trovato la loro espressione, mostrano che essa fu una forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l’emancipazione economica del lavoro».
La Comune non fu quindi un tentativo di mettere in pratica una qualche utopia o una lista di rivendicazioni, una ricetta già pronta. Ma piuttosto la creazione attraverso l’azione dal basso di una democrazia radicale, che dava voce ai diversi interessi, sensibilità e ideali della classe lavoratrice. È solo dopo aver creato tramite una rivoluzione politica questa democrazia effettiva che si può svolgere gradualmente l’emancipazione sociale, cioè il passaggio dei mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori e delle lavoratrici. La rivoluzione incarnata dalla comune aveva la sua essenza nell’orizzontalità, nella capacità di confederare le diversità. Il suo progetto politico si basava infatti sull’idea trasformare l’intera Francia in una confederazione di città e paesi, auspicando un identico processo nel resto del mondo. Nessuna volontà di creare un potere assoluto e centralizzato o di rivolgersi ad un’unica figura sociale, ma piuttosto quella di coordinare la pluralità di tutti e tutte coloro che si riconoscevano in un insieme di ideali e interessi, comuni ai diversi segmenti di tutta la classe lavoratrice.
Il vero errore di fondo fu non schiacciare subito la testa del serpente, non marciare subito su Versailles per mettere al muro Thiers e la sua banda. L’ingenua fiducia nella forza delle proprie idee e nelle offerte di tregua da parte del governo diedero al nemico il tempo di riorganizzarsi. Grazie al supporto dei prussiani, che liberarono in gran fretta i soldati francesi già fatti prigionieri in precedenza (catturati ancora all’inizio della guerra, durante il regime di Napoleone III, non avevano vissuto quei mesi di cambiamenti e discussioni politiche), Thiers poté arruolare e armare un nuovo esercito. Il 21 maggio, grazie ad una spia che segnalò un punto sguarnito nello schieramento dei federati (le milizie della Comune), l’esercito di Versailles poté entrare a Parigi.
Si continuò a combattere per altri sette giorni, fu la «settimana di sangue». I combattenti e le combattenti della Comune difesero sulle barricate i propri quartieri metro per metro.
E sulle barricate ancora si cantava. Cantavano una canzone d’amore del 1866, di Jean Baptiste Clement e Antoine Renard: Le temp des Cerises. Può sembrare assurdo cantassero quella, ma in fondo stavano combattendo per la primavera, contro le banche, le caserme e le sagrestie.
«Quando saremo al tempo delle ciliegie
e l’allegro usignolo e il merlo scherzoso
saranno tutti in festa.
Le belle avranno la follia in testa
e gl’innamorati il sole nel cuore.
Quando saremo al tempo delle ciliegie
fischierà ancor meglio il merlo scherzoso».
Ma è così breve il tempo delle ciliegie. Benedetti dalla stampa «laica» e da preti fanatici, agli ordini di ufficiali che avevano già partecipato alla repressione della Repubblica Romana e alla guerra contro i rivoluzionari messicani, i soldati di Versailles spianavano le barricate con l’artiglieria e avanzavano finendo i feriti. Le donne che venivano sorprese con qualunque tipo di recipiente in mano erano accusate di essere incendiarie e uccise sul posto. Per gli sconfitti non ci fu pietà, i prigionieri e le prigioniere vennero falciati con le mitragliatrici o fucilati in massa. Trentamila, quarantamila morti, quanti furono in totale non lo saprà mai nessuno. Di certo da quel momento sappiamo cosa intende la borghesia quando parla di «Diritti dell’Uomo e del Cittadino».
«Amerò sempre il tempo delle ciliegie.
È di quel tempo che conservo nel cuore
Una piaga aperta…
E anche se la signora Fortuna mi sarà offerta
Non potrà mai fermare il mio dolore…
Amerò sempre il tempo delle ciliegie
E il ricordo che conservo nel cuore».
Migliaia i deportati e le deportate nelle colonie d’oltremare. Tra loro Louise Michel, insegnante e rivoluzionaria, delegata del Comitato di Vigilanza della rossa Monmartre e combattente. Deportata nella Nuova Caledonia raccolse in un libro le leggende e i canti degli autoctoni, i Canachi. Quando si ribellarono ai colonialisti francesi donò loro una striscia della sua fascia rossa da delegata della Comune. Perché la rivoluzione è sempre la stessa, anche dall’altra parte del mondo.
Quando tornò a Parigi, nel 1880, sulla cima della collina di Montmartre ci trovò una nuova, pacchianissima, basilica bianca, le Sacré-Coeur. Costruita a partire dal 1873 per «espiare i crimini dei comunardi», vale a dire il fatto che negli ultimi giorni di resistenza, di fronte ai massacri delle truppe di Thiers una folla inferocita aveva linciato una cinquantina di prigionieri (gendarmi, spie e alcuni preti). Quella chiesa doveva esorcizzare i fantasmi delle decine di migliaia di uomini, donne e bambini massacrati perché colpevoli di aver difeso la primavera.
Nel 1887 un altro superstite della Comune, l’amico e compagno di lotta di Louise, 1887 Eugene Pottier (autore anche del testo de «L’Internazionale»), scrisse la canzone «La Comune non è morta».
«Per far tacere la città
vollero far la pelle
anche ai feriti di ogni età
perfin sulle barelle.
Il sangue inzuppava gli abiti
scorreva sotto ogni porta.
Malgrado tutto si vedrà
che la Comune non è morta».
E dopo 150 anni, dopo che è stata assassinata e tradita migliaia di altre volte, ancora la Comune non è morta. E oggi costruisce in Chiapas, combatte in Rojava, sperimenta un vaccino a Cuba, brucia i commissariati a Minneapolis, si scontra con los pacos in Cile e ad Atene, lotta ovunque contro chi distrugge il pianeta. E anche nelle nostre città apre scuole e ambulatori popolari, distribuisce pacchi viveri e ripara biciclette. Non è un dogma o un’utopia, è semplicemente il modo più sensato e decente di vivere, è la strada, concreta e praticabile, per riprenderci la nostra vita.
Malgrado tutto la Comune non è morta e anche quando noi non la vediamo è sempre lì, dietro la prossima piega della storia, pronta a risorgere.
La Comune da qualche parte c’è sempre e prima poi arriva ovunque, come la primavera.