Sfrutto dunque sono. Breve analisi intersezionale dell’antispecismo

L’ espressione ultima della sovranità consiste, in larga misura, nel potere e nella capacità di decidere chi può vivere e chi deve morire.

Achille Mbembe, Necropolitiche, 2013

Ogni classe riproduce se stessa attraverso una norma regolatoria esclusiva di determinati soggetti da tale classe. In questo modo il processo di soggettivazione dell’individuo attraversa una fase di oggettivazione dell’altro da sé (cioè dell’altro dal simile) e quindi l’instaurazione di un rapporto di subalternità tra il primo e il secondo. Così la produzione delle soggettività è indistinguibile dalla produzione delle gerarchie. Nel saggio Homo Sum, Monique Wittig ripercorre all’indietro il fondamento di questa dicotomia, rinvenendo nella scuola pitagorica la prima forma di divisione nel processo del pensiero. Mentre infatti fino ad allora i filosofi ragionavano nei termini dell’Uno, la scuola pitagorica introduce nel pensiero e nel ragionamento il Due[1]. Ma mentre la distinzione pitagorica atteneva ad una valutazione interpretativa, utile ad analizzare e possibilmente misurare il mondo esterno, i filosofi successivi – in particolare Aristotele e Platone – sussumono questi concetti nella sfera metafisica. L’astrazione dei concetti in questo senso permette la loro cristallizzazione e soprattutto la loro essenzializzazione: ciò che è Uno lo è dal principio, innato e immutevole; ciò che è diverso dall’Uno, cioè dall’Essere, è Altro.

Nel campo dialettico creato da Platone e Aristotele, possiamo trovare una serie di opposizioni ispirate alla prima tavola matematica,  ma  stravolte.  Sotto  la  serie  dell’“Uno”  (l’essere  assoluto e indivisibile, ossia il divino) troviamo “maschile” (e “luce”), e da quel momento in poi non verrà mai più spodestato dalla posizione dominante. Sotto le altre serie troviamo invece il perturbante: la gente comune, le donne, le “schiave dei poveri”, l’“oscurità” (i barbari, che non distinguevano tra schiavi e donne), e tutto ciò che veniva ridotto al rango del non-essere. “Essere” significa “bene”, “maschile”, “eterosessuale”, “Uno”; in altre parole, come Dio. “Non-Essere” significa qualunque altra cosa (una molteplicità di altre cose), e “femminile”: “dissonanza”, “disordine”, “oscurità”, e “male”[2].

Bisognerà aspettare Marx perché le diverse dicotomie, e in particolare quella tra classe borghese e classe proletaria, vengano ascritte alla storia e al relativo conflitto e non allo stato dell’essere [3].

Certo Wittig propone una tale analisi per risalire alla distinzione tra uomini e donne che ha fondato il pensiero eterosessuale e il relativo modo di produzione del genere. Ciò peraltro non esclude che la medesima analisi si renda applicabile ad un’altra dicotomia, anch’essa essenzializzata e che possibilmente sta alla base di un modo di produzione che fonda ogni altro rapporto di dominio, e quindi più difficilmente intellegibile: la dicotomia Uomo-Animale. Mentre nell’antichità infatti si distinguevano i concetti di bios e di zoè, per distinguere la vita umana di rapporti sociali dalla “nuda vita”[4] biologica degli animali, sulla scorta della produzione teorica femminista materialista, si può invece teorizzare l’esistenza di un sistema sociale antropocentrico che si fonda sull’oppressione degli animali non umani da parte degli umani e che produce la dottrina delle differenze tra le specie per giustificare tale oppressione. 

La prospettiva è molto più complessa perché se nell’ottica intraspecista del femminismo le categorie politiche di sesso si riferiscono a soggettività che si rivelano sensibilmente simili – e per cui la dinamica esclusiva dell’Altro da sé e dell’Altro dal simile è più facilmente sovvertibile – un’ottica di sovversione delle categorie di specie implica l’accostamento ad un Altro da sé del tutto dissimile per apparenza, comportamento, linguaggio.

Una possibile via di semplificazione di tale processo teorico – e dunque politico – è offerta da un cambio di paradigma dell’analisi interspecista in un’ottica di stessità, e non di alterità. In altri termini, invece che focalizzarsi fin da subito sulla sovversione del modo di produzione delle differenze di specie, conviene analizzare tale sistema per capire cosa vi è in comune con altri modi di produzione, tenendo però a mente che, considerando il modo di produzione antropocentrico come il fondamento degli altri regimi di subalternità, devono essere questi ultimi che hanno mutuato dal primo gli strumenti di oppressione. Ciò non toglie che, essendo più a lungo studiati altri sistemi sociali di dominio, è più facile trasponderne i fondamentali per l’analisi. In particolare, particolarmente azzeccata è l’applicazione, alla tematica in esame, dell’analisi transfemminista e delle sue rivendicazioni politiche – anche peraltro in un’ottica di intersezione teorica e alleanza politica delle lotte.

La rivendicazione forse più importante del movimento transfemminista mondiale è sicuramente quella all’autodeterminazione soggettiva e dei corpi. Autodeterminazione significa anzitutto il riconoscimento della capacità di scelta autonoma e indipendente del soggetto, e quindi di conseguenza l’esistenza di un diritto a mettere in pratica tale scelta. La rivendicazione di uno spazio di autodeterminazione si pone in questo senso come pretesa di legittimizzazione della violazione della norma eterosessuale. In altri termini, il femminismo vuole rivendicare il diritto di mantenere una condotta-altrimenti rispetto a quanto impone il sistema sociale patriarcale[5].

Parallelamente, la norma antropocentrica, nella sua tragica semplicità della vita quotidiana, si traduce in una norma sacrificale[6]: il rapporto di subalternità tra umano e non umano si esplica non nel mero potere del primo sul secondo, bensì in un biopotere, che cioè vuole (e di fatto riesce a) impadronirsi e dominare l’esistenza dell’altro. Così non sono solo le scelte di vita dell’Altro, quanto la stessa vita ad essere etero-diretta. In questi termini, la sovversione del modo di produzione antropocentrico postula un diritto all’autodeterminazione dei corpi (umani e non umani) che anzitutto si traduce nel ben più basilare diritto di tali corpi ad esistere nel mondo sensibile. E quindi la volontà di “violare la norma” è implicita nella volontà di sopravvivenza dei corpi animali[7].

Basti poi pensare alle rivendicazioni femministe sull’autodeterminazione sessuale delle donne – e delle minoranze di genere, in un’ottica transfemminista – per ricollegare direttamente non solo la negazione di qualsiasi spazio di libertà sessuale agli animali allevati, ma anche la completa etero-direzione del lavoro riproduttivo delle femmine, inseminate artificialmente dagli allevatori.

L’interdipendenza tra la norma antropocentrica e la norma eterosessuale, però, viene in luce in un altro processo, anch’esso quotidiano, che riporta entrambi i piani di dominio nella dinamica dello scherno e della riduzione all’Alterità.

Il più facile espediente per annichilire la controparte di uno scontro – diretto o indiretto che sia – resta a tutt’oggi l’animalizzazione. In particolare, sempre mutuando le tematiche transfemminsite, è tipica la riconduzione ad animale dei soggetti che conducono una vita al di fuori della norma eterosessuale. Così le donne con una vita sessuale attiva diventano cagne o troie, le donne grasse diventano vacche, e poi ancora oche, galline, ecc.. 

L’animalizzazione in questo senso contribuisce a definire e a rafforzare il sistema sociale antropocentrico, per cui il trattamento più grave che si può ricevere in quanto esseri umani è l’esclusione da tale categoria. La de-umanizzazione così diventa inevitabilmente oggettivazione e quindi contribuisce a soggettivizzare l’interlocutore che si ergerà in posizione di dominio.

Così come il sistema sociale antropocentrico produce categorie che vengono mutuate dal sistema sociale eterosessuale per perpetrare la differenziazione tra i sessi, allo stesso modo l’eterosessualità tende a schernire e quindi escludere i soggetti – in particolare maschi – che rifuggono la norma antropocentrica. In altri termini, se la norma eterosessuale impone il consumo di carne e quindi il dominio dell’uomo sugli altri animali, chi rifiuta tale posizione di superiorità non può che essere escluso aprioristicamente dal sistema, almeno dal punto di vista culturale.

L’inintelligibilità di un conflitto aperto tra oppressi e oppressori rende complessa l’analisi e la sovversione di un sistema sociale come quello antropocentrico. Ed è per questo che mutuare gli strumenti e le rivendicazioni da fronti di lotta già aperti e percorsi è indispensabile a costruire un piano di alleanze e di intersezionalità che pianifichi una lotta comune, tesa a sovvertire ogni livello di dominio, ogni strumento di oppressione.

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Note:

[1]Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, Ombre Corte, 2019

[2]Monique Wittig, Homo Sum, ne Il pensiero eterosessuale, Ombre Corte, 2019

[3]Apparirebbe peraltro superfluo analizzare la subalternità materiale dei non umani rispetto agli umani, ove il plusvalore estratto da questi ultimi sarebbe onnicomprensivo della stessa esistenza dei primi.

[4]Giorgio Agamben, Il potere sovrano e la nuda vita. Homo sacer, Einaudi, 2005

[5]Certo autodeterminazione vuol dire anche essere liber* di seguire la norma, ma la rivendicazione nasce dal divieto di mantenere determinate condotte, contrarie alla stessa

[6]Federico Zappino, Norma sacrificale / Norma eterosessuale, in Corpi che non contano (a cura di Massimo Filippi e Marco Reggio), Mimesis, 2015

[7]Volontà di sopravvivenza che, come ricordano le storie di Resistenza Animale (https://resistenzanimale.noblogs.org/), è spesso tutt’altro che passiva

** Pic Credit: Porgetto grafico sulla foto Michael Indresano

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