L’assoluzione di Eni nel processo OPL245 e il “Sistema-Paese”

Dopo la sentenza del tribunale di Milano che ha assolto i vertici di Eni nel “processo del secolo”, che riguardava l’accusa di corruzione internazionale per il giacimento OPL245 in Nigeria, abbiamo intervistato Antonio Tricarico di Re:Common per un commento sulla vicenda. Re:Common ha seguito il processo fin dalle origini e il suo prezioso lavoro d’inchiesta è stato prezioso anche nell’accumulare prove contro Eni e altre compagnie petrolifere.

Quali sono le indicazioni politiche che ci dà la sentenza della VII sezione penale del Tribunale di Milano che ha assolto i 15 manager dell’Eni, accusati di corruzione internazionale nell’acquisizione del blocco petrolifero OPL245, al largo della Nigeria?

Le decisioni prese dal Tribunale sono alquanto preoccupanti. Per quanto riguarda strettamente la materia giudiziaria questo caso – che è stato quello in assoluto più investigato, anche per la rilevanza delle accuse e dei soggetti accusati, ENI e Shell – dimostra che l’impianto giuridico dell’anticorruzione è insufficiente. Lì dove ci sono reati transnazionali evidentemente i tribunali, nell’assunzione che siano in buona fede, si aspettano prove che sono impossibili da produrre, per ovvi motivi: si tratta di giurisdizioni diverse, indagini enormemente complesse, etc.

Quindi, dopo il caso Finmeccanica India, quello Saipem Algeria e quest’ultimo, sembrerebbe che sia quasi impossibile condannare per corruzione internazionale, anche laddove le prove sono chiare e schiaccianti. E tutto questo è abbastanza deprimente.

Un altro elemento che dobbiamo considerare è il significato politico complessivo di questa vicenda. Noi a fronte di una sentenza di assoluzione piena, anche se di primo grado, e a un precedente particolarmente importante – per la prima volta il governo della Nigeria si costituisce parte civile contro una multinazionale – le reazioni politiche sono state di assoluto sostegno a Eni, visto come “campione del sistema Italia”, come se il nostro futuro deve essere connesso al loro successo a qualsiasi costo.

Questa è una visione politica estremamente preoccupante perché produce una narrazione finto-garantista che taglia con l’accetta e non va a vedere quali siano le implicazioni e che modello di sviluppo queste imprese realizzano con la piena connivenza di ampi apparati dello Stato.

Chiudo su questo punto ricordando che le prove del processo ci mostrano uno spaccato alquanto preoccupante, in cui si vede chiaramente che l’operato e gli interessi di queste società sono intimamente legati a quelli dello Stato, dei suoi servizi di sicurezza, di attori che ai massimi livelli riescono a influenzare le scelte dei Paesi, gli accordi che vincolano determinate operazioni per decenni. Parliamo quindi di un quadro molto inquietante, a prescindere dal fatto che gli attori siano colpevoli o meno dal punto di vista giudiziario.

Tra le cose più interessanti del processo, al di là del risultato, c’è la constatazione che quando ci si muove dal basso in maniera decisa e organizzata si può far tremare i grandi colossi. Come continuerà questo battaglia?

Noi non abbiamo mai pensato che questo fosse un semplice caso di corruzione o che andasse trattato solo nelle sedi giudiziarie. Intanto questo è un caso che si innesta in decenni di lavoro di solidarietà con le comunità impattate dalle operazioni di Eni nel Delta del Niger, ma anche in Italia. Si innesta inoltre in una richiesta non solo di giustizia, ma anche di controllo democratico di queste multinazionali che, come detto prima, hanno piena connivenza con ampi settori dello Stato, al punto che diventa quasi impossibile definire che cosa è Stato e cosa è corporation.

Si va dunque al cuore di quella logica che noi chiamiamo “estrattivista di società”, dove un determinato modello va sistematicamente a premiare gli interessi di pochi a discapito dei territori.

Con questo approccio noi siamo convinti che la battaglia non finisce assolutamente qui: questo è solo il primo tempo di una partita che ha molti tempi. Partita che avrà un seguito a livello giudiziario – perché ci sarà un appello a Milano, ma sono in corso anche un processo in Nigeria e uno contro Shell in Olanda, nei quali sono attivi e coinvolti diversi attori della società civile e dei movimenti sociali – e questo sarà una vetrina per raccontare storie, creare dibattito pubblico e coinvolgere altri soggetti. Ma sono soprattutto le battaglie di campo che continueranno numerose, come sta accadendo in Basilicata dove vediamo un risorgere della società civile e dei comitati locali in occasione del secondo processo che riguardano Eni in quella regione, dopo la condanna avvenuta nel primo.

C’è poi un terzo livello, che è quello in assoluto più importante: quello di iniziare a porre nell’agenda dei movimenti, soprattutto in Italia, il fatto che i soggetti di cui stiamo parlando non possono essere gli attori centrali di questa cosiddetta transizione ecologica. Come è possibile che queste strutture di potere siano idonee per una cosa così strategica? Di pari passo va posta la domanda su quali siano gli spazi di alternativa che vanno creati in cui pensare e agire una trasformazione molto più profonda.

Vorrei focalizzarmi su un punto di cui parlavi. Come Re:Common avete sempre considerato OPL245 come qualcosa che andasse oltre semplice ipotesi di corruzione internazionale e che ponesse un problema sul controllo democratico di queste multinazionali. Quali sono gli strumenti a nostra disposizione?

Noi viviamo il paradosso che il principale azionista di un’azienda come Eni sia il governo italiano. E questo comporta una domanda centrale sul perché non si voglia esercitare questo controllo democratico. È abbastanza chiaro che dietro tutto questo ci sia un meccanismo di interessi reciproci, che negli anni si è sedimentato sempre di più fino a creare questo blocco di potere. Il primo passaggio è quello di rendere esplicito questo aspetto attraverso inchieste pubbliche, perché è utopico pensare che senza scardinare questo blocco sia possibile esercitare un qualsiasi tipo di controllo.

In secondo luogo vanno smascherate le bugie che oggi vengono propinate come soluzioni ai problemi. Sappiamo tutti qual è la narrazione dell’Eni che addirittura afferma di avere una mappa di decarbonizzazione del suo business al 2050, quando invece vuole continuare a estrarre più petrolio e gas nei prossimi 10 anni. Lo stesso vale per la questione delle bioplastiche, le eco-raffinerie, la chimica bio, etc. Andare a esporre le false soluzioni e creare opposizione diventa sempre più centrale, perché smascherare il greenwashing di queste società risponde a una logica esistenziale.

C’è poi un punto forse più specifico, che però ci consente di andare a utilizzare tutto quello che siamo riusciti a scavare tramite i vari procedimenti e processi: una mole di prove che, per quanto i tribunali non le considerino sufficienti, ci mostrano chiaramente qual è l’operato arrogante e spesso pensato per aggirare le regole, spesso anche con la complicità dei governi locali, per andare avanti con i propri interessi e le proprie operazioni. Questi sono elementi estremamente rilevanti che non vanno fatti cadere nel vuoto e vanno utilizzati per spiegare in maniera puntuale di cosa stiamo parlando. Perchè a parole sono tutti contro la corruzione e il cambiamento climatico, ma in pratica quello che si dicono nelle loro chat e nelle loro mail è tutt’altro e molte di queste prove lo dimostrano.

Il combinato di questi tre elementi ci dà di sicuro molti strumenti, però è chiaro che a fronte di un’assenza totale della politica, succube per interesse di questi atteggiamenti, l’azione dei movimenti deve essere quella di andare ad aprire uno spazio politico per porre le giuste domande.

Di recente, un’altra inchiesta di Re:Common ha svelato apertamente la compenetrazione esistente tra Eni e Farnesina. Come incide sulla geopolitica nazionale questo aspetto?

La definirei una situazione paradigmatica di quello che dicevo prima, Di fatto, la più grande azienda italiana gode di una strada preferenziale e lo sfrutta per portare i propri affari personali alla Farnesina; viceversa i diplomatici vengono portati all’Eni che emana gli interessi della società e poi alla fine orienta interamente la politica estera italiana, ovviamente nell’andare a salvaguardare l’accesso a risorse petrolifere e di gas ma anche di andare a identificare le aree di influenza su cui la politica estera italiana deve concentrarsi.

Potrebbe essere un esercizio particolarmente interessante andare a vedere dove l’Italia all’estero è maggiormente concentrata e andare a vedere dove è presente Eni e dove sono avvenute scoperte particolarmente rilevanti.

Vorrei fare i nomi di paesi come l’Iraq, l’Egitto e ovviamente la Libia, ma anche in Mozambico o alcuni paesi dell’Africa centro occidentale – come la Repubblica del Congo -guarda caso ci sono interessi strategici per l’Eni per l’accaparramento delle risorse naturali lì presenti.

Questo, ripeto, è paradigmatico di questa logica, cioè di questa compenetrazione che arriva al punto di creare “uno Stato nello Stato”, uno Stato parallelo.

Ne parlava la rivista Time, che definiva l’Eni proprio “uno Stato nello Stato” addirittura alla fine degli anni Settanta. Ed è esattamente la stessa logica di quella che – di fronte alle critiche –  la Farnesina definisce il “sistema-Paese”. Tutti dovremmo orientiamo intorno a quello, e non può essere tollerata alcuna critica perché altrimenti non si è “patriottici”, sennò non si risponde a questi interessi.

Sono interessi, in realtà, mossi da un circolo ben preciso che ha una visione abbastanza chiara di perpetrare un certo modello di business, che poi va a consolidare determinati interessi geopolitici e viceversa ed è preoccupante che a fronte della critica la risposta sia: «questo è il sistema-Paese ed è quello di cui abbiamo bisogno».

Ed è come se si riprendesse il vecchio concetto di Berlusconi di “diplomazia economica”. Funzionare come sistema-Paese al portamento di pochi grandi giganti, che sono quelli che ci aiutano nella dominazione oltre le nostre frontiere e direi che fin tanto che si persegue questa logica, ci saranno sempre conflitti e tensioni: non ci meravigliamo se questa è la situazione del Mediterraneo, dei migranti, dell’Africa.

Come valutate che questa sentenza potrà influenzare il processo in corso in Olanda, strettamente collegato a quello OPL245?

Potrebbe avere un impatto perché quel procedimento è proprio alla fine dell’indagine e siamo in una fase, in Olanda, dove la Shell ha mosso pesanti obiezioni proprio sull’utilizzo delle tantissime mail sequestrate nel blitz avvenuto all’inizio del 2016 nella sede centrale dell’Aja. In funzione di queste prove, perlomeno in questa fase preliminare, avverrà poi la decisione dei pubblici ministeri di muovere a processo o meno. Il sistema olandese, però, offre l’opportunità agli enti, qualora ci fosse un’archiviazione ,di impugnare questa scelta, cioè nel nostro caso Re:common, come le altre organizzazioni partner, potrebbero appellarsi a un altro tribunale e chiedere che invece l’indagine vada a processo perché ci sono sufficienti prove.

E speriamo che ovviamente il processo ci sia perché riteniamo che di prove ce ne siano molte, anzi direi che quelle contro Shell sono quasi più rilevanti rispetto a quelle contro Eni. Qualora queste non avvenga, in futuro penso ci sarà l’opportunità di spingere a livello giudiziario, appellarsi alla decisione, ma soprattutto di coinvolgere quello che – ripeto – è un nascente movimento molto forte in Olanda contro Shell e che ha tutte le premesse per poter intraprendere un’azione popolare molto più forte.

Che peso ha il fatto che Il Tribunale di Potenza abbia condannato a pene comprese tra i 16 e i 24 mesi di reclusione i vertici dell’Eni di Viggiano nel processo sulla gestione di reflui del Centro olio Val d’Agri, mentre l’anno scorso la stessa ENI ha patteggiato negli Stati Uniti il pagamento di 24.5 milioni di dollari in relazione alle accuse di corruzione riguardo a l’aggiudicazione di alcuni contratti con la compagnia petrolifera statale algerina?

Tantissimo!

Emblematica è stata la risposta – dopo la sentenza di assoluzione piena – dall’avvocato di Descalzi Paola Severino, che tra l’altro è stata ministra della Giustizia del governo Monti, perché in Italia – a differenza degli altri paesi – chi fa politica può continuare a fare attività di avvocatura. Lei ha detto che attualmente viene ristabilita la dignità professionale e la reputazione del suo assistito, ma soprattutto il ruolo importante e fondamentale che Eni gioca in Italia.

Quel che si può dedurre dalla sua affermazione è che questo ruolo era stato scalfito dalle indagini, e le condanne che ci sono già state e che potranno esserci, ad esempio nel processo per corruzione in Repubblica del Congo o nel secondo processo in Basilicata, danno molto fastidio.

Le compagnie petrolifere hanno in questa fase una crisi esistenziale, dovuta all’emergere nel dibattito pubblico della questione dei cambiamenti climatici: continuare a giustificare che bisogna estrarre petrolio e gas e che questo è l’unico modo strutturale per continuare a crescere e fare profitto è incompatibile.

Quindi hanno bisogno di un piano per confermare la loro legittimità e la licenza sociale ad operare e avere inconvenienti – chiamiamoli in questo modo – a livello giudiziario sono ombre che in un momento potenziale di fragilità possono pesare.

Non è un caso che lo scorso anno siamo stati letteralmente assaltati dalle pubblicità di Eni, perché ha bisogno di riposizionarsi per riguadagnare quella legittimità sociale. Questo vuol dire che è un potere forte, anzi assolutamente fortissimo in Italia in questo momento, ma ha probabilmente anche delle vulnerabilità. Quindi inviterei tutti a riflettere su questo punto, di quanto anche alcune cose che ci sembrano marginali, in realtà un impatto lo possano avere. Spetta a noi a amplificarlo e spetta a noi prendere parola in merito.

Ringraziamo Antonio Tricarico per questo approfondimento ricordiamo anche che potete continuare a seguire tutto il lavoro che portano avanti sia sui social network sia sul sito di Re Common.

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