La Convenzione di Istanbul, promossa dal Consiglio d’Europa e ratificata dal governo turco nel 2011, è il primo strumento internazionale giuridicamente vincolante che crea un quadro giuridico completo per proteggere le donne da qualsiasi forma di violenza.
La Convenzione interviene specificamente nell’ambito della violenza domestica – nonché lo stupro coniugale e le mutilazioni genitali femminili, e caratterizza qualsiasi maltrattamento come una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione. Non è riferita solo alle donne, ma anche altri soggetti, ad esempio bambini ed anziani, ai quali altrettanto si applicano le medesime norme di tutela.
81 articoli raggruppati in dodici Capitoli, e di un Allegato che mirano al raggiungimento dell’uguaglianza di genere “de jure e de facto”, proteggendo le donne da ogni forma di violenza e promuovendo una concreta parità[1].
Ma secondo i conservatori turchi, di cui Erdogan si è fatto nel tempo portavoce, la Convenzione mina l’unità familiare e i valori base della famiglia, tanto che lo stesso Presidente ha dovuto cedere alle richieste delle frange più estreme del suo partito, l’AKP, e uscire dalla Convenzione.
Che la Turchia stia attraversando un processo di islamizzazione e radicalizzazione non è una novità, quindi non stupisce più di tanto se alcuni alti funzionari e ministri del partito di Erdogan abbiano richiesto una revisione dell’accordo, sostenendo che è incompatibile con i veri valori tradizionali della Turchia, poiché tale Convenzione incoraggia il divorzio e promuove l’omosessualità attraverso l’uso di categorie come genere, orientamento sessuale e identità di genere.
La Convenzione viene vista come una vera e propria minaccia alla famiglia turca.
I discorsi di odio sono da anni in aumento esponenziale in Turchia, tanto che lo stesso Ministro degli Interni Süleyman Soylu, numero due del pario AKP e possibile successore di Erdogan, ha descritto le persone lgbtqia+ come “pervertite” in un tweet, rincarando la dose dichiarando che “non esiste un problema legato ai femminicidi”.
“Provo vergogna per questo bigottismo senza cuore che protegge i bulli e gli assassini invece delle donne”, ha twittato – in risposta – l’autrice turca Elif Safak.
Korkunç, tek kelimeyle korkunç. Yazıklar olsun. Kadınları korumak yerine, zorbaları, katilleri koruyan bu bağnazlık, ataerkillik, kalpsizlik ve vicdansızlığa yazıklar olsun. #İstanbulSözleşmesi kaldırıldı haberini büyük bir üzüntü, öfkeyle karşılıyorum. #AklınızdanBileGecirmeyin
— Elif Shafak (@Elif_Safak) March 19, 2021
Le associazioni femministe hanno subito chiamato alla mobilitazione sotto lo slogan “Ritirare la decisione, attuare il trattato”, asserendo che la loro lotta decennale rischia di venir cancellata in una notte. Migliaia di donne sono quindi scese in piazza: oltre la capitale, in testa troviamo Kadikoy, roccaforte laica sulla sponda asiatica della metropoli sul Bosforo, dove si sono date appuntamento diverse associazioni femministe, lgbtqia+ e altri gruppi di opposizione.
Va precisato che la Turchia non tiene statistiche ufficiali sul femminicidio, ma il tasso è più o meno triplicato negli ultimi dieci anni, secondo la piattaforma civile “We Will Stop Femicide Platform” (Noi fermeremo i femminicidi) che monitora i dati sulle violenze contro le donne e sui femminicidi in particolare.
Per rendere meglio l’idea di cosa sta succedendo in Turchia, va detto che quest’anno sono state uccise 78 donne, mentre nel 2020 se ne contano 409, con decine di vittime trovate morte in circostanze sospette. Il gruppo di advocacy Women’s Coalition Turkey ha affermato che il ritiro da un accordo sui diritti umani “ incoraggerà ulteriormente gli assassini di donne, i molestatori e gli stupratori”. Intanto, i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità mostrano che il 38% delle donne in Turchia sono soggette alla violenza di un partner nel corso della loro vita, rispetto al 25% in Europa.
Il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, del principale partito di opposizione CHP, ha detto che l’abbandono del patto è un atto “doloroso” e che non tiene conto della lotta delle donne per anni.
La Turchia non è il primo paese a muoversi verso il ritiro dall’accordo: anche la Polonia comincia ad avere dei dubbi su un trattato che il governo nazionalista considera troppo liberale.
La Segretaria generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric, ha definito “una notizia devastante” il ritiro della Turchia dalla Convenzione. Una decisione che segna “un’enorme battuta di arresto” per le iniziative internazionali a tutela di donne e ragazze dalla violenza “che affrontano ogni giorno nelle nostre società”, “tanto più deplorevole perché compromette la protezione delle donne in Turchia, in tutta Europa e oltre”.
Ma facciamo qualche passo indietro. In un momento in cui la popolarità del presidente Erdogan è in netto calo tutti i voti servono, anche quelli degli estremisti, a cui strizza da anni l’occhio.
La questione però ha radici più profonde: già l’anno scorso il Presidente aveva millantato per la prima volta di abbandonare la Convenzione di Istanbul, nel tentativo di mobilitare il suo elettorato più conservatore a suo favore di fronte alle evidenti e croniche difficoltà economiche della Turchia. A spingere Erdogan a fare il passo di non ritorno sono sicuramente gli ambienti più reazionari e islamisti, in seno al suo partito e non, che vedono nella Convenzione una minaccia alla vena tradizionalista della società. Negli anni della sua presidenza, Erdogan ha ripetutamente sottolineato la “santità” della famiglia e ha pubblicamente invitato le donne ad avere tre figli. Il suo direttore delle comunicazioni, Fahrettin Altun, ha rilanciato il motto del governo: “Famiglie potenti, società potente”.
La crisi che la Turchia sta affrontando risale a diversi anni fa. Il ciclico uso ed abuso della retorica nazionalista fatta dal governo e dai suoi rappresentanti nasconde da troppo tempo linee di frattura, politiche e sociali, ormai divenute incolmabili. La crisi economica, gigantificata dall’emergenza legata al Covid-19, ha messo a nudo la fragilità delle politiche economiche del governo dell’Akp, facendo di conseguenza scendere la popolarità del Presidente e del suo entourage di adepti.
L’elevato tasso di inflazione, prolungato nel tempo, ha fatto sì che la lira turca perdesse di circa il 40% del suo valore pre-pandemia, rendendo così più vulnerabili tutti quei settori della società che già si trovavano con l’acqua alla gola.
Le uscite pubbliche di Erdogan, l’individuazione di un nuovo nemico interno, la necessità di puntare sempre il dito contro qualcuno o qualcosa che mina il suo potere e la sua autorità, sono il classico esempio di un regime che non si sente sicuro e che teme per la propria sopravvivenza. In altri momenti di crisi interna, Erdogan e il suo partito hanno trovato nella guerra uno “sfogo” mentre ad oggi sembra che il suo obiettivo sia quello di polarizzare maggiormente la popolazione: “o con me, o contro di me”.
La spirale di violenza verbale e fisica in cui è precipitata la Turchia negli ultimi due decenni non è che l’antipasto dell’erosione dei diritti, di cui le donne sono “solo” le ultime vittime in ordine temporale. Nel tentativo di distogliere l’attenzione dai veri e reali problemi del paese su due continenti, il Presidente si sta lanciando in una campagna di guerra tout-court contro i difensori dei diritti sociali e politici, che hanno nel Partito Democratico dei Popoli, HDP, la loro voce e la loro rappresentanza. Il tentativo in atto in questi giorni di rendere fuorilegge il partito, attraverso sentenze di giudici, i quali sono diventati la longa manus del potere esecutivo venendo meno al loro ruolo di garanti della Costituzione, costituisce un attacco totale alla democrazia. E questa purtroppo non è una notizia nuova.
Dall’altra parte della barricata in questo momento si trovano proprio le donne, vittime in gioco che non solo vede a rischio la loro stessa vita, ma anche la democrazia stessa in Turchia. Mai come ora il destino del Paese, e di conseguenza del risultato delle politiche conservatrici e oscurantiste di Erdogan, passa attraverso la lotta delle donne, siano esse turche, curde, arabe e siriane.
Perché come sovente si sente urlare nelle piazze in rivolta, il grido è “Jin, Jiyan; Azadi!”. Ovvero “Donna, Vita, Libertà!”
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Note:
[1] https://www.istat.it/it/files/2017/11/ISTANBUL-Convenzione-Consiglio-Europa.pdf
** Pic Credit: Una manifestazione contro la violenza sulle donne lo scorso 8 marzo a Istanbul (Burak Kara/Getty Images)