Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La ventunesima puntata della rubrica “Suture, a cura di Valeria Andreolli.
Sali sulle scale dell’impalcatura muovendo meccanicamente i piedi. Cerchi di evitare di guardare in basso. Non ti sei ancora abituato alle altezze vertiginose di questi edifici che hanno la pretesa di grattare il cielo.
Le prime due settimane di lavoro impiegavi il doppio del tempo rispetto a tutti gli altri a salire quassù, avevi paura di precipitare di sotto. Il capo da terra ti guardava in cagnesco e grugniva parole minacciose in una lingua incomprensibile. Riuscivi a decifrare solo “italians” e “dago”, che ti avevano insegnato essere il nomignolo cattivo con cui gli americani apostrofano gli italiani. Tu avresti voluto spiegargli che avevi passato la vita ad arare i campi e dar da mangiare alle bestie, che nel paese da cui provenivi tu le case hanno massimo due piani, che la città la stavi conoscendo per la prima volta ora. Ma non sapevi dire una parola d’inglese, così eri stato zitto e avevi incassato gli insulti.
Sono passati parecchi mesi da quelle prime settimane e ora riesci a giungere al ponteggio più in alto velocemente, però non hai ancora imparato a parlare con il tuo capo, la lingua che si parla qui ti è ancora sconosciuta. D’altronde è difficile avere a che fare con gli americani. In genere quando passi per strada ti guardano storto, esattamente come fa ancora oggi il tuo capo, e si stringono le borse al petto.
Nel tuo quartiere gli americani non passano neanche per sbaglio. Il tuo quartiere è una succursale del paese, nella tua via si parla solo dialetto campano, si mangia pasta al pomodoro e si dice il rosario al tramonto. È abitato da uomini come te, che, come te, hanno vissuto la vostra nuova identità piemontese come una condanna, che non erano in grado di pagare le tasse sempre più alte che questo nuovo Stato esigeva, che non potevano neppure permettersi un biglietto del treno per raggiungere le promettenti terre del Nord Europa, che si erano lasciati affascinare dall’idea che negli Stati Uniti le strade fossero d’oro e che allora si erano imbarcati dal porto di Napoli a bordo di un vecchio battello carico di straccioni e nullatenenti, erano sopravvissuti all’aria putrida e assassina dei dormitori di terza classe nel ventre della nave, dove una quantità inimmaginabile di corpi stava stipata a dormire sopra sacchi di paglia e a lanciare imprecazioni quando non riusciva a raggiungere uno dei pochissimo orinatoi a disposizione nei momenti in cui i bisogni fisiologici si facevano pressanti.
Il tuo quartiere è abitato da uomini che, come te, una volta arrivati al porto di New York avevano guardato invidiosi i passeggeri di prima e seconda classe sbarcare, mentre venivano fatti salire su delle grosse zattere che li conducevano a Ellis Island, dove, dentro a stanzoni enormi, avevano atteso per ore, per giorni, il proprio turno per una visita medica che certificasse che non avrebbero appesantito il Nuovo Mondo e il suo sistema sanitario con nuove o vecchie malattie, si erano poi fatti rivoltare le palpebre, le labbra e le narici da uomini col camice alla scrupolosa ricerca di infezioni, avevano visto attoniti uomini e donne con una x disegnata col gesso sui vestiti gettarsi in mare nella speranza di raggiungere l’America a nuoto, piuttosto che essere rispediti indietro sulla stessa nave da cui erano arrivati, erano stati ribattezzati da funzionari negligenti che non avevano voluto sforzarsi di ascoltare i loro nomi e i loro cognomi ed erano finiti qui, come e con te, dentro alle minuscole e sporche stanze di fatiscenti edifici a sei piani. È tra queste mura che la sera, quando rientrate dalle rispettive giornate lavorative, rievocate le immagini delle vostre terre, delle vostre case, delle mogli e dei figli abbandonati dall’altra parte del mondo. Qualcuno sogna di mettere da parte il denaro sufficiente per pagare un biglietto per tutto il resto della famiglia e farsi raggiungere qui, nella terrà delle opportunità.
Tu sogni invece di rivedere tua moglie e i bambini laddove li ha lasciati, sogni di tornare al paese con l’aurea magica che circonda quanti hanno attraversato l’oceano e le tasche gonfie abbastanza per comprare un pezzo di terra tutto vostro e vivere in tranquillità. Nelle lunghe lettere che mandi a casa, oltre ad accertarti puntualmente che la parte di stipendio che hai affidato al banchista sia giunta a destinazione, descrivi il futuro che immagini per la vostra famiglia una volta che i soldi non saranno più un problema.
La nostalgia trasuda da ogni parola, ma ti sforzi di convincerti ogni giorno che il tuo soggiorno in America è necessario perché i tuoi figli non siano costretti ad emigrare, come è successo a te, perché possano costruirsi una vita in un Paese in cui agli ultimi arrivati non vengano riservati i lavori più umili, in cui non si debba vivere con il timore di essere assaliti da folle inferocite per la colpa di avere la pelle di una tonalità leggermente più scura, in cui i giornali non dipingano i disperati nati in un’altra parte del mondo come violenti, sporchi e dediti a delinquere. Vuoi evitare ai tuoi figli tutte le umiliazioni e le paure che tu subisci quotidianamente a seimilasettecento chilometri di distanza dalle loro bocche perennemente affamate.
Sei finalmente giunto in cima, sull’ultimo ponteggio. Da qui vedi la foresta grigia di grattacieli che si staglia sull’orizzonte. Devi ammettere che ha un certo fascino, benché infinitamente inferiore a quello del pezzo di terra che un giorno sarà tuo.