di Marco Bersani, Attac Italia e Cadtm Italia*
*articolo pubblicato su il manifesto del 27.03.2021 per la rubrica Nuova Finanza Pubblica
Il Governo corre, ogni giorno con più affanno, per mettere a punto il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) da presentare entro il 30 aprile in Europa, per poter accedere ai circa 200 miliardi di fondi del Next Generation Ue.
Sono molti soldi, in parte sotto forma di trasferimenti, in parte sotto forma di prestiti. Tutti legati alle famose “condizionalità”, ovvero alla necessità di mettere in campo una serie di riforme dai connotati neoliberali, e all’impegno, passata l’ubriacatura di spesa, a sistemare i conti di bilancio con una nuova dose di austerità legata all’aumento del debito pubblico.
Un percorso tortuoso che, viste le premesse – il PNRR predisposto dal governo Conte e le linee guida del governo Draghi – rischia di diventare “il danno e la beffa” per i bisogni della popolazione: il danno di centinaia di miliardi per rilanciare l’economia – questa economia – senza alcun cambio di paradigma sistemico che trasformi il disastro della pandemia in una svolta per un’alternativa di società, e la beffa di scaricarne gli effetti sulla popolazione con una riedizione dell’austerità.
Così, mentre il Paese attraversa la terza ondata del virus, giocando a rimpiattino con le introvabili dosi di vaccino e ascoltando i quotidiani proclami da mondo all’incontrario del presidente di Confindustria Bonomi (“Lo sblocco dei licenziamenti serve per assumere”), lo scenario sopra descritto assume i contorni dell’inevitabile e alimenta la già abbondante rassegnazione.
Nessuno che rifletta sul fatto che, in attesa dei soldi che verranno, rispetto ai quali andrà ingaggiata una battaglia senza quartiere sulla loro destinazione, ci sono quasi 300 miliardi disponibili subito e senza condizionalità.
Parliamo del risparmio che oltre 20 milioni di italiani hanno depositato in libretti o investito in buoni fruttiferi postali, raccolti da Cassa Depositi e Prestiti, per oltre 150 anni ente di diritto pubblico e oggi, dopo la sua trasformazione privatistica, con l’81% del suo capitale detenuto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.
E’ un risparmio privato, poiché appartiene a ciascun singolo risparmiatore, ma, al contempo, costituisce la più estesa raccolta collettiva di ricchezza, in quanto coinvolge un abitante su tre.
Per quasi 150 anni la gestione di questi risparmi ha seguito una direzione precisa verso l’interesse generale. Cassa Depositi e Prestiti aveva infatti solo due compiti: tutelare il risparmio affidatole dalle persone e utilizzarlo per finanziare a tassi agevolati gli investimenti degli enti pubblici, a partire dai Comuni. Se anche il nostro Paese ha potuto usufruire per qualche decennio di un stato sociale, gran parte di questo è stato dovuto a questo semplice meccanismo.
Quanta ripresa e resilienza si possono fare con 300 miliardi? Quanti investimenti sul dissesto idrogeologico, la trasformazione ecologica della produzione, il riassetto delle reti idriche, un diverso ciclo energetico e dei rifiuti, una scuola pubblica di qualità, una sanità pubblica territoriale e universale, una mobilità sostenibile?
Oggi Cassa Depositi e Prestiti si comporta come un gigantesco fondo d’investimento privatistico e utilizza il risparmio postale per finanziare da una parte le aziende competitive sui mercati internazionali, con assoluta indifferenza ai contenuti della produzione, dall’altra “aiuta” gli enti locali nella svendita del patrimonio pubblico, nella messa a valore finanziario del territorio, nella privatizzazione dei servizi pubblici locali. Non a caso ai posti di comando di Cdp, ormai da anni si alternano ex dirigenti di Jp Morgan o di Goldman Sachs.
Eppure, quei 300 miliardi sono lì, sono nostri e sono utilizzabili all’unica condizione di tutelare i risparmiatori e di destinarli al perseguimento dell’interesse generale.
Riprendiamoci la Cassa.