Esistono migliaia di storie individuali di esperienze collettive che ignoriamo quasi completamente. Esistono protagonisti senza nome sparsi in diverse parti del mondo, seminati in diversi momenti storici, tutti però accumunati dal vivere sulla propria pelle oppressioni e lotte che noi in genere ascoltiamo o leggiamo distrattamente sui media, ma che per loro sono realtà concretissime. Questa serie di racconti brevi ci trascina nel mondo quotidiano di queste persone e, attraverso i loro ricordi, frammentati e incompleti come quelli di tutti, ci permette di ricostruire la loro storia e di approfondire contesti lontani dalla nostra conoscenza diretta. La ventiduesima puntata della rubrica “Suture, a cura di Valeria Andreolli.
Il sacco pesantissimo che porti sulla schiena trasforma ogni passo in una sfida per non perdere l’equilibro. Speri di aver raggiunto la metà della strada che devi percorrere. Ormai deve mancare sempre meno, pensi, mentre metti ostinatamente un piede davanti all’altro.
Quando gli uomini con la tuta mimetica e i mitra ti avevano detto che eri stato selezionato per essere un portatore, ti eri sentito sollevato e avevi ringraziato la corporatura robusta che avevi ereditato da tuo padre. Calarti in cunicoli bui, umidi e senza aria ti faceva paura, temevi l’assenza di luce e i crolli improvvisi che avevano tolto la vita a tanti tuoi amici. Camminare avanti e indietro sulle stradine scivolose della foresta verdeggiante di questo tuo Paese martoriato dalle guerre e dalle malattie ti sembrava un’attività meno pericolosa per l’incolumità dei tuoi orgogliosi undic’anni. Mai avresti immaginato i tagli sotto ai piedi, la pelle strappata sulla schiena e la fatica, lacerante e perpetua, che questo ruolo comportava.
Ti hanno detto che il minerale che trasporti è roba preziosa. Certo mai come l’oro o come i diamanti, pensi. E invece, anche se tu mentre ansimi e sudi lo ignori, quello che stai portando sulle spalle è proprio l’oro del nostro tempo. Tu non lo sai che in un’altra parte di mondo, dopo esser stato sottoposto ad innumerevoli viaggi e trasformazioni, tutti lo tengono in mano, tutto il tempo. Tu non sai che quel minerale è il migliore amico e confidente di milioni di persone. Tu non lo sai, e non hai neanche mai avuto troppo il tempo né le energie per ipotizzare a cosa possano servire quei sassolini neri. Tu sai che ti garantiscono quel minimo necessario a non farti morire di fame, sai che quando gli uomini con i mitra al collo sono venuti a visitarti nel tuo villaggio, non ti hanno lasciato molte altre alternative: o la miniera o la morte.
Oltrepassi la tomba improvvisata e sbrigativa di qualcuno che percorreva queste stradine con lo stesso carico che stai portando tu, qualcuno che è ceduto sotto i trenta chili che vi portate in groppa, perché, se la caratteristica di questo minerale che ti spacca la schiena è la sua resistenza che fa sì che le batterie dei nostri smartphone mantengano la carica elettrica, le tue ossa, come quelle della persona che riposa sotto questa striscia di terra, non posseggono la stessa virtù. Le vostre ossa si spezzano, il vostro cuore smette di pulsare e i polmoni non assorbono più aria. Siete bestie da soma e la vostra morte è una delle eventualità contemplate. Quando non vi vedranno giungere a destinazione, manderanno qualcuno ad inseguire le impronte che avete lasciato sul terreno, a togliervi di dosso il sacco colmo di questo nuovo oro nero e a scavarvi una fossa alla bell’e meglio, per non intralciare il passaggio al portatore che prenderà il vostro posto. Sai bene che anche tu potresti cedere da un momento all’altro, ma non hai nessuna alterativa da preferire a queste camminate disperate. La morte è una presenza ingombrante e ormai ricorrente: l’hai conosciuta la prima volta quando la tua sorellina di un anno appena ha smesso di respirare e avete dovuto regalare il suo corpo gonfio e molle alla terra, l’hai schivata nelle frane che imprigionano i tuoi colleghi nei meandri della terra, l’hai vista nei mitra dei soldati che indossano la bandiera azzurra con la striscia rossa e la stella gialla, in quelli degli uomini con i caschi blu e in quelli dei militari di una quantità inestimabile di gruppi ribelli, mitra che sono stati comprati anche con il tuo sudore.
Metti un piede in una pozzanghera. Tu non te lo ricordi ma sai che un tempo l’area che oggi è coperta di fango rossiccio e martoriata dalle zappe zelanti di decine di bambini e uomini era terreno fertilissimo dove, si dice, ogni coltura che veniva seminata cresceva rigogliosa e famiglie intere, come la tua, si sfamavano così, con i due raccolti l’anno che la terra offriva. La maledizione è stata che quella stessa terra non prospera solo in superfice, ma nasconde una quantità esagerata di ricchezze anche nel sottosuolo.
Pensi al momento in cui vedrai apparire tra gli alberi e le liane della foresta, come in un miraggio, la pista di atterraggio dove potrai finalmente scaricarti del peso che ti preme sulle spalle e guardarlo volare dentro elicotteri stranieri verso chissà quali mete. Tu non immagini neppure il ruolo che le tue gambe giocano all’interno di un subdolo e contorto sistema che prende avvio nella stretta di mano pulita e composta tra i capi della miniera, che tu non hai neppure mai visto, e uomini dalla pelle bianca e l’abito inamidato, prima ancora che nelle mani sporche e callose dei tuoi compagni che rubano il coltan alla terra e che te lo caricano sulla schiena. Tu non immagini i chilometri che questo minerale percorrerà senza di te e le forme che adotterà dentro a fabbriche cinesi dove verrà assemblato con il litio prelevato in Bolivia e il cobalto raccolto qualche centinaio di chilometri più a sud della tua casa, per dare vita ad una quantità infinita di apparecchi, la maggior parte dei quali probabilmente tu non sapresti neppure usare.
Resisti ancora, resisti ancora un po’, ti sussurri per farti forza mentre ripeti il semplice e sofferto movimento che serve ad avvicinarti alla tua meta.
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**Pic Credit: Stefano Stranges- The victims of our wealth