di Sandro Moiso
Roberto Demontis e Giorgio Moroni ( a cura di), Gli autonomi, vol. VII, Autonomia operaia a Genova e in Liguria. Parte prima (1973-1980), DeriveApprodi, Roma 2021, pp. 336, 20,00 euro
«Il fenomeno eversivo ha sempre trovato in Genova un «humus» particolarmente fertile: non è necessario, infatti, risalire al periodo risorgimentale (quando le maggiori città italiane insorgevano ripetutamente contro l’aggressione delle milizie straniere, che appoggiavano i dispotici governi locali, abbracciando senza riserve la politica unitaria dell’unico Stato veramente italiano e cioè il Regno di Sardegna; e Genova, invece, insorgeva contro quest’ultimo costringendolo ad una dura repressione) per trovare esempi di cruente sommosse contro i pubblici poteri attraverso episodi di guerriglia urbana organizzata.
È sicuramente il caso di quanto successe il 14 luglio 1948, quando alla notizia dell’attentato al segretario del Partito comunista, on. Palmiro Togliatti, contrariamente a quanto si andava verificando in altre città […] a Genova scoppiò una vera e propria insurrezione generale contro i poteri locali dello Stato e contro una formula di Governo che solo pochi mesi prima, al termine delle elezioni politiche del 1948, aveva ricevuto i suffragi della stragrande maggioranza degli elettori[…].
Analoga situazione si andò profilando alla fine del giugno 1960, quando una protesta anche legittima contro l’autorizzazione a celebrare in Genova – Medaglia d’oro della Resistenza – il congresso del M.S.I., si trasformò ben presto in un tentativo di insurrezione contro l’autorità del governo.
I fatti del 1960, comunque, non devono essere interpretati in chiave di mera contestazione, anche se violenta, del congresso del M.S.I., ma – probabilmente – quale primo sintomo di quel malessere che avrebbe qualche anno dopo travagliato tutta la sinistra rivoluzionaria, delusa della nuova impostazione ideologica dei partiti di quella storica, ormai attratti dalla politica delle «convergenze parallele» che sarebbe poi sfociata nel «centro sinistra» e, più tardi ancora, nel «compromesso storico» con l’ingresso del P.C.I. nella maggioranza di Governo.
Resta il fatto, comunque, che episodi del genere ebbero come diretta conseguenza:
–– l’assuefazione a considerare l’autorità legittima e democratica dello Stato, perdente in partenza
–– il grave rischio di una latente potenzialità criminosa;
–– la possibilità di strumentalizzazione per fini eversivi di una piazza che è facile ad esserlo»1.
A parlare così, come avrà già visto chi avesse consultato la nota a piè di pagina, non è un sociologo o un giornalista bensì il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani, sul sequestro e l’assassinio di Aldo Moro e sul terrorismo in Italia effettuata l’8 luglio 1980.
Se certe parole e considerazioni sulla bocca del gestore dell’azione stragista di Stato nei confronti dei militanti delle BR sorpresi nel “covo” di via Fracchia il 17 maggio del 1979 possono sembrare oggi ridicole se non offensive, è altresì certo che, come ho già sostenuto a proposito dello sviluppo di altre esperienze di lotta, la geografia politica e psicologica e la memoria storica dei territori contano non poco nel determinarne la combattività e resistenza dei loro abitanti. Sia in positivo che in negativo.
Il volume appena uscito per DeriveApprodi sulla storia dell’Autonomia ligure costituisce la prima parte di una ricerca divisa in due parti/volumi e si proietta oltre i primi anni Ottanta, periodo che stabiliva tutto sommato la deadline dei volumi precedenti dedicati agli “Autonomi” dalla stessa casa editrice, per arrivare fino al 2001 e alla “macelleria messicana” messa in atto dallo Stato italiano e dalle sue forze del dis/ordine nelle strade di Genova occupata dal G8 e successivamente nei locali della scuola Diaz.
La grossolana e superficiale ricostruzione del generale buonanima dimenticava più di un fattore tra quelli che si erano riversati nella rabbia e nella combattività genovese e ligure. Per esempio la formazione, a Genova, prima del Circolo Rosa Luxemburg e poi di LUDD – Consigli proletari in cui, insieme alle interpretazioni che sorgevano dalle riletture dell’esperienza rivoluzionaria sulle pagine di “Socialisme ou Barbarie”, nei primi numeri dei “Quaderni Rossi” e successivamente dell’Internazionale Situazionista si evidenziava sempre il fatto che l’insorgenza proletaria fosse una costante, dalla Comune di Parigi in poi e allo stesso tempo come le trame “partitiche” finissero sempre con l’ingabbiare e limitare l’espressione del desiderio di rivoluzione e superamento dell’esistente compreso all’interno dell’esperienza dei Consigli.
Ma, poiché nella Storia le cose non sono mai semplici o scontate, il testo (che nel primo volume raccoglie una ventina di testimonianze, memorie e ricostruzioni di singoli aspetti oppure di esperienze collettive), sottolinea come la storia antifascista della città e della regione e la forte presenza del PCI tra le fila della classe operaia, soprattutto della sua “aristocrazia”, impedì all’esperienza dell’Autonomia locale di esprimere la stessa radicalità che si era andata manifestando in altre città e regioni .
Ad analizzare la contraddizione tra disponibilità diffusa alla lotta e i limiti che la tradizione revisionista e antifascista ponevano al suo sviluppo sono in particolare l’intervista ad Emilio Quadrelli2 e la memoria “giovanile” di Nico Gallo3 contenute nel volume. L’insorgenza proletaria espressa in maniera potenziale e, talvolta, nei fatti finiva così, a partire dal piano teorico, col non trovare un’espressione adeguata poiché come afferma Quadrelli nell’intervista citata:
Genova è la città che più di altre si oppone sostanzialmente al XX Congresso e lo fa rimarcando una retorica, quella della Resistenza tradita, che diventerà il principale punto di riferimento e l’ordine discorsivo dominante di tutti coloro che inizieranno a porsi alla sinistra del Pci. Tutto ciò che ha ruotato intorno a Giovan Battista Lazagna oalla 22 Ottobre è ascrivibile a questo. Lo sguardo di chi si oppone al Pci, almeno nella sua grande maggioranza, è rivolto al passato piuttosto che al futuro. Non che il futuro a Genova non esista, ma questo futuro non trova, se non in minima parte, una sua grammaticae finirà con l’essere sempre confinato dentro un lessico, sicuramente più radicale, le cui coordinate non riescono però a rompere con il passato. Diciamo che sul piano della scrittura la sintassi non si modifica.
Prendiamo il 30 giugno 1960. Lì, sicuramente, nella pratica e nella materialità delle cose ci sono elementi non secondari di rottura, ma questi elementi rimangono in potenza e non trovano una qualche sistematizzazione teorica e organizzativa. Il giugno 1960 non è piazza Statuto, questo mi sembra essere il nodo della questione e anche il motivo per cui Genova rimarrà, rispetto all’Autonomia, sostanzialmente estranea. Nel giugno 1960 non mancano sicuramente aspetti similari a piazza Statuto, soprattutto in rifermento alla composizione di classe ma, e qui si situa l’enorme differenza tra i fatti di Genova e quelli di Torino, dal primo emergerà centrale e come memoria l’antifascismo radicale e militante, dalla seconda l’anticapitalismo radicale e militante.
Potrebbe sembrare impietosa e, almeno in parte immeritata, l’analisi appena fatta, ma rivela un aspetto che, in misura diversa, aveva finito col limitare tutta l’esperienza della Sinistra extra-parlamentare italiana pre-Autonomia e che troppo spesso finì col manifestarsi anche nei ranghi liguri di quest’ultima, nonostante la varietà delle esperienze, e purtroppo ancora in una parte significativa dell’antagonismo attuale. Finendo col costituire una sorta di proustiana madeleine democratica e antifascista, destinata a fuorviare e paralizzare qualsiasi iniziativa di classe. Passata, presente e (speriamo di no) futura.
Ma, come affermano i curatori del volume, nell’Introduzione:
Rileggere le vicende della seconda metà degli anni Settanta oggi, alla luce dell’eredità che le idee e le gesta di una minoranza ribelle e comunista hanno lasciato negli stessi compagni e compagne che vi presero parte e nei movimenti nuovi e contemporanei, rappresenta una doppia sfida: al rischio del feticismo da una parte, all’abitudine alla rimozione dall’altra. Oggi è tempo di bilanci critici, non di memoir, di rivendicazioni postume o di continuità nostalgica. Non lo è nemmeno di ricerca equivoca e ipocrita dell’oblio. Ma questa è anche una sfida che si alimenta del presente; che cosa sono i Movimenti oggi ci spiega cosa siano stati quelli del passato (quali i loro passaggi obbligati e quali le opzioni mancate).
Il fatto che l’Autonomia operaia negli anni Settanta sia stata a Genova e in Liguria, rispetto ad altre aree in Italia, una vicenda minore (meglio: che ha fatto parlar meno di sé rispetto ad altre) non costituisce un buon motivo per non scriverne. Da un lato ci sono abbondanti ragioni che spiegano perché, nonostante la storica centralità, economica e industriale, della città e della regione, e nonostante la ricchezza culturale espressasi localmente almeno fino alla fine degli anni Sessanta, una prassi innovativa come quella dell’operaismo prima e dell’Autonomia operaia poi si sia schiantata contro il muro della composizione di classe locale e della sua rappresentanza politica. Dall’altro un Movimento così ricco nei suoi momenti culminanti (il Settantasette romano e bolognese) e così persistente nel tempo e radicale nelle analisi, è proprio nelle situazioni apparentemente più povere o meno clamorose che può meglio essere studiato, perché è lì che si presenta in modo più addensato ed essenziale. Ed è lì che l’arretratezza del contesto può mostrare in anticipo i segni del suo superamento4.
Per fare questo i due curatori hanno fatto proprio una scelta corale del racconto di tutta quella esperienza poiché, come affermano ancora nell’Introduzione a proposito della metodologia utilizzata:
L’Autonomia è un personaggio collettivo che partecipa alla vicenda assieme e attraverso i suoi protagonisti. Ognuno/a delle compagne e dei compagni che hanno accettato di scrivere – qualcuno/a per la prima volta – ha condotto il racconto in soggettiva. Il lavoro dei curatori è consistito nell’induzione di un processo di
ricomposizione molecolare. Quel Movimento, finito in un cono d’ombra storico, era un mosaico di istanze e voci distinte che assumeva la diversità come un elemento di ricchezza, perché la forza del comune denominatore era tale da consentire di espandere la diversità delle opzioni al di là di ogni limite, senza tuttavia snaturarsi e, fino al 1978, evitando sovradeterminazioni di una parte sul tutto; la multiformità dei contributi che presentiamo crediamo che diano conto di tutto ciò.
La ricostruzione di trent’anni di storia dei movimenti a Genova e in Liguria è declinata dal punto di vista dell’Autonomia operaia, che è uno sguardo di parte che non ha mai inteso essere neutro o storicamente obiettivo. È la prima ricostruzione narrata in prevalenza dai protagonisti e testimoni diretti senza i filtri all’opera nelle uniche fonti di informazione finora disponibili, i resoconti usciti dai tribunali, dalle questure e dalle redazioni dei giornali5.
La lettura del volume appena pubblicato ci permette pertanto di ri/leggere dall’interno e in contro luce un’esperienza collettiva che finisce, proprio per la sua intrinseca contraddittorietà, col rivelarsi più interessante di altre, proprio a causa delle sue debolezza e sconfitte perché, come ricorda Sandro Mezzadra al termine di questo primo volume con le parole scritte da Rosa Luxemburg all’indomani della sconfitta dell’insurrezione spartachista a Berlino, nel gennaio del 1919: «poggiamo i piedi proprio su quelle sconfitte, a nessuna delle quali possiamo rinunciare, ognuna delle quali è una parte della nostra forza e consapevolezza»6.