Riprendiamo da Effimera l’introduzione al libro di Maura Benegiamo La terra dentro il capitale. Conflitti, crisi ecologica e sviluppo nel delta del Senegal, uscito di recente per Orthotes Editrice. Maura Benegiamo fa parte del network di ricerca Politics Ontologies Ecology ed è assegnista di ricerca presso l’Università di Trieste e ricercatrice associata presso il College d’Études Mondiales di Parigi. Si occupa di ecologia politica e critica dello sviluppo, i suoi interessi di ricerca includono le trasformazioni capitalistiche nel contesto della crisi ecologica, le forme di resistenza e conflitto nei processi di sviluppo e le ecologie decoloniali.
Fratture coloniali e margini di resistenza
Quasi duecento anni fa il barone Jacques-François Roger si insediava nella sua nuova casa sul bordo del fiume Senegal, un maestoso ed eccentrico edificio in stile neoclassico molto più principesco di quello in cui risiedeva precedentemente nel vicino centro urbano di Saint Louis. Era arrivato in Senegal qualche anno prima per prendere possesso del palazzo che il re di Francia aveva fatto costruire sul modello delle lussuose residenze dei funzionari coloniali e proprietari di piantagioni di Santo Domingo[1], al tempo tra le più ricche colonie dell’Impero francese. Con la grande festa di inaugurazione che venne allestita nella nuova residenza, Roger voleva probabilmente marcare uno specifico carattere al suo mandato di governatore che, dopo vari tentativi, era riuscito ad ottenere con stipula reale il 26 luglio del 1821 e la nomina a Commandant et administrateur du Sénégal et dépendances. Incaricato dal re di Francia di attuare una politica di recupero e sviluppo della colonia, sarebbe stato nella regione del delta del fiume Senegal che il barone avrebbe portato avanti il suo progetto di costruzione di una fattoria modello, prima di arrendersi agli insuccessi ed abbandonare il Paese sette anni dopo.
Intenzionato ad importare in Senegal il modello coloniale delle piantagioni, nel delta, Roger si sarebbe impegnato a condurre alcuni tentativi di sviluppo di un’agricoltura di irrigazione e coordinare delle sperimentazioni botaniche d’avanguardia. Le specie vegetali interessate dai suoi esperimenti furono principalmente il riso, alcuni alberi da frutto, l’indaco, il caffè e l’arachide, unica pianta da cui ottenne importanti successi e di cui divenne un fervente promotore. Ad accompagnare Roger in questo progetto fu il botanico e capo giardiniere della colonia, il francese Jean Michel Claude Richard in cui onore sarà battezzato il parco botanico, fatto costruire dal Barone nelle vicinanze del suo palazzo, che oggi dà il nome anche alla piccola cittadina di Richard Toll, da una parola wolof significante appunto giardino. Sarebbe stato per Richard l’inizio di una lunga carriera scientifica che lo avrebbe portato a viaggiare per molte isole e colonie francesi in Africa. Non riuscirà tuttavia a passare alla storia come un grande inventore, come avrebbe voluto. Quando nel 1840 Edmond Albius, uno schiavo dell’età di 12 anni, residente sull’isola di Bourbon, antico nome dell’attuale Réunion, scoprì quella che è tutt’ora la principale tecnica di impollinazione del fiore della vaniglia, Richard tentò di farsene riconoscere la paternità, sostenendo di essere lui l’ideatore. Smentito, la sua reputazione fu compromessa per sempre mentre l’isola della Réunion avrebbe conservato per lungo tempo il primato di principale paese esportatore della vaniglia, nonché della pregiata vaniglia di Bourbon.
Ci sono voluti altri centoventi anni prima di smantellare il sistema coloniale in Senegal, il palazzo di Roger giace come una rovina nel delta, il suo progetto tuttavia non è tramontato. Oggi la regione è il principale centro di produzione di riso del Senegal, i suoi corsi d’acqua sono stati tutti a poco a poco incanalati per poter irrigare i campi dei contadini e permettere all’agricoltura di avanzare su quella che era prima una vasta area quasi interamente coperta da acquitrini, stagni e zone umide. Se da dicembre a giugno si segue la strada che va da Richard Toll sino alla città di Ross Bethio, 50 km più a sud, e si guarda verso destra si potranno scorgere alcuni di questi campi irrigati. A sinistra invece ci sono le distese semidesertiche della stagione secca saheliana interrotte solamente da un ristretto numero di piccoli gruppi di capanne. Bisogna allora lasciare la strada ed inoltrarsi lungo la savana per scoprire una nuova e diversa vegetazione, intervallata da numerose acacie e alberi di baobab e dalla presenza di alcune mandrie di mucche, pecore, capre e asini. È qui che, almeno sino al 2012, si estendeva la Riserva di Avifauna di Ndiaël.
Quando vi giunsi, nel 2013, ero da poco arrivata in Senegal con l’intenzione di esplorare da vicino una delle grandi acquisizioni fondiarie che avevano interessato il Continente a ridosso delle crisi del 2007-2008 e negli anni immediatamente successivi. In quel periodo la notizia che da un po’ di anni, in tutto il mondo, le terre stessero passando di mano ad un ritmo e ad una concentrazione inedita dai tempi della colonizzazione aveva cominciato a circolare anche sui media non specializzati. Come suggerito dalla tempistica di tali operazioni, si trattava nella stragrande maggioranza dei casi di un tentativo di risposta e adattamento rispetto alle grandi crisi che il pianeta stava attraversando, climatica, ecologica, alimentare, energetica e finanziaria. Molte di quelle operazioni erano anche animate da una serie di nuove politiche di sviluppo agricolo e transizione energetica sancite a livello globale e dai singoli Stati. Si trattava comunque di un fenomeno dalle proporzioni assai sconvolgenti. Secondo le stime più ufficiali di quel periodo almeno 45 milioni di ettari di terra arabile erano passati di mano nel solo biennio 2008-2009[2]stime maggiori sono emerse nel periodo immediatamente successivo al picco di investimenti[3]. La maggior parte delle acquisizioni riguardava aree comprese tra i 10.000 e i 200.000 ettari. Con più della metà delle transazioni registrate, il continente africano, e in particolare l’Africa subsahariana, risultava tra le aree più coinvolte da questo processo. Interi pezzi di territorio stavano transitando nelle mani di gruppi e attori economici dalle identità poco chiare e sulla base di processi poco trasparenti[4].
Sapevo dunque che avrei molto probabilmente incontrato un conflitto tra delle imprese capitaliste e delle comunità locali interessate a non essere espropriate dalle proprie terre. Non immaginavo invece che la storia che avrei documentato si sarebbe occupata anche del ritmo delle piene dei fiumi e di quello delle maree oceaniche, del susseguirsi delle piogge e dei lunghi periodi di siccità che avevano avuto un ruolo centrale nell’evoluzione della regione, ben da prima della colonizzazione francese. Ciò implicava anche conoscere la morfologia dei suoli e la loro distribuzione spaziale, la posizione delle depressioni argillose, sapere dove finiscono le dune sabbiose e iniziano le distese brulle e lateritiche.
Non sapevo, inoltre, che avrei finito col ricostruire la nascita di quel conflitto e di quei luoghi molto indietro nel tempo, cercandone le tracce negli archivi storici della Société nationale d’aménagement et d’exploitation des terres du delta du fleuve Sénégal (SAED), nelle tesi degli studenti di agronomia delle università di Dakar e Saint Louis e nei rapporti degli ex istituti coloniali francesi. Eppure, la storia di un territorio che c’è stato e non c’era già più si è rivelata essere la prima chiave per analizzare ciò che stava avvenendo in quei luoghi. La seconda chiave di lettura richiedeva di guardare allo sviluppo capitalista non tanto, o non solo, come il processo sotteso all’evoluzione del mercato e della proprietà privata, ma anche come la continua alterazione degli spazi vitali e la riorganizzazione dei ritmi di rigenerazione e delle forme di riproduzione delle specie, inclusa quella umana.
Alcune studiose, tra cui l’antropologa Anna Tsing, hanno proposto di chiamare la nostra epoca come l’epoca delle piantagioni. Accogliendo i risultati delle analisi di molti storici, geografi e studiosi della storia mondiale e dell’Antropocene[5], quest’approccio propone di situare in quel processo che ha visto l’economia della piantagione espandersi nelle isole del mar dei Caraibi, dalle Barbados alla Jamaica, nei primi anni del XV secolo, l’emergere di una particolare congiunzione tra disciplinamento della natura (discipline of plants)[6] e disciplina del lavoro che avrebbe finito col permeare l’insieme delle strutture sociali della modernità. La logica delle piantagioni prevedeva il lavoro di migliaia di schiavi africani ed ha implicato l’estinzione di interi popoli e culture, piante, microbi e animali. Non ha solamente imposto una radicale semplificazione delle forme di vita presenti su quelle isole rigogliose, ma ha anche influenzato le forme della progettazione territoriale e richiesto la creazione di norme e standard di regolazione tutt’ora in uso.
Le piantagioni hanno cambiato le geografie dei luoghi e della circolazione su scala globale, creando nuove infrastrutture e tecnologie e permettendo l’espandersi dei centri urbani. Come spiega Jason Moore[7], questo enorme progetto di riscrittura del “sistema-mondo” ha avuto come obiettivo principale quello di creare una natura “a buon mercato” che ha reso disponibile risorse e cibo a basso costo per un proletariato in espansione nelle nascenti economie industriali europee. Ovviamente ciò non si è prodotto nell’immediato, molte altre dinamiche hanno dovuto articolarsi per rendere tale progetto reale. Per esempio, la maggioranza delle donne si è vista destinare ad attività che sono state giudicate senza valore, non remunerabili né produttive, come accudire i figli, preparare da mangiare, curare i malati, raccogliere le erbe e la legna nel bosco[8]. Per liberare gli uomini e renderli dei lavoratori salariati, vaste estensioni di terra hanno dovuto essere privatizzate. Infine senza un intenso e crescente sfruttamento dei minerali fossili, né agricoltura né industria avrebbero potuto evolversi come hanno fatto.
Nelle ultime due decadi il problema di garantire cibo accessibile e a sufficienza ad una popolazione urbana mondiale in crescita ha riguadagnato un posto centrale nel dibattito scientifico e in quello delle politiche sullo sviluppo. Diversi fattori hanno contribuito a questa rinnovata centralità della questione alimentare. Anzitutto l’acutizzarsi, tra il 2007 ed il 2008, di una crisi dei prezzi del cibo di portata globale che ha condotto il numero di persone nel mondo che patiscono la fame o versano in condizioni di sotto-nutrizione a superare il miliardo per la prima volta dal 1970[9].
Il dibattito sull’agricoltura è stato anche influenzato dalla presenza di un movimento rurale e contadino globale, che è andato rafforzandosi sin dai primi anni ’90, evidenziando il ruolo centrale che l’agricoltura può avere nel garantire società giuste, inclusive e sostenibili e nel cambiamento radicale dei modi di produrre, distribuire e consumare il cibo che tale società necessita. Entrambi, crisi alimentare e movimenti rurali, si pongono, seppur da prospettive molto diverse e sostanzialmente divergenti, nel solco di quella che può essere definita come una crisi del “cibo a buon mercato” e del sistema mondiale e geopolitico entro il quale tale cibo era prodotto. Nelle zone rurali del “sud globale”[10] il modello del cibo a buon mercato ha causato soprattutto fame e disastri ambientali costringendo, in particolare a partire dagli anni ’80, molte persone a migrare verso i quartieri poveri delle grandi megalopoli in espansione[11], vendendo o perdendo le proprie terre che venivano ad essere inglobate nella creazione di monocolture, nell’edificazione di grandi opere infrastrutturali o nei nuovi progetti di sfruttamento minerario che sono andati moltiplicandosi per tutti gli anni ’90 e 2000. Ciò nonostante, il modello dell’agricoltura su piccola scala ha continuato, seppur con tutte le sue difficoltà, ad essere il principale fornitore di cibo, in particolare nei paesi a più basso reddito, garantendo a migliaia di persone il diritto a nutrirsi. Ciò si spiega con il fatto che queste attività sono principalmente orientate verso la produzione alimentare e privilegiano il contesto nazionale per vendere le loro eccedenze nei mercati regionali e locali[12]. Seguono una logica distinta da quelle operate dal settore agro-industriale controllato dalle grandi corporation, che tende invece a privilegiare una destinazione d’uso non alimentare dei propri prodotti agricoli, essenzialmente diretta all’esportazione e sottomessa alle variazioni dei mercati finanziari[13].
All’indomani della crisi alimentare del 2007-2008, il quadro appena delineato è andato incontro a riconfigurazioni profonde che stanno ridisegnando in maniera decisiva le condizioni materiali ed i rapporti di forza in numerosi contesti. Tali processi minacciano di pregiudicare definitivamente la capacità dell’agricoltura di piccola scala di garantire la propria autosussistenza ed alimentare i mercati locali, portando un numero sempre maggiore di persone dentro quel margine di esclusione costituito dalle vite la cui riproduzione sembra oramai essere superflua allo sviluppo del capitalismo[14].
Sia la crisi alimentare che le modalità con cui vi si stava rispondendo restano dentro al sistema che le ha generate. Il capitalismo è abituato alle crisi e rispondervi fa parte del suo modo di avanzare. Come spiega David Harvey[15], un meccanismo centrale di risposta è quello che vede il capitale espandersi geograficamente e, allo stesso tempo, fissarsi in luoghi specifici ristrutturando radicalmente gli spazi in cui atterra per poi eventualmente abbandonarli. Un secondo meccanismo, proprio del capitalismo neoliberista, è quello di appropriarsi della ricchezza comune per accrescere il proprio potere e poter mettere a profitto nuove merci. In questo quadro la mercificazione e la privatizzazione della terra e la conversione di varie tipologie di beni – comuni, collettivi, statali, ecc. – in diritti esclusivi di proprietà privata costituiscono dei meccanismi fondamentali[16]. Il capitalismo ha bisogno, ciclicamente, di estrarre valore dalle pratiche che sottendono quella che Marx chiamava l’accumulazione primitiva.
Anche se buona parte di quelle riflessioni restano valide, ciò che stava succedendo nel contesto della nuova corsa alla terra mette in luce anche altre dinamiche. In effetti sembrava che questioni come il valore della natura, l’acqua, la biodiversità e la possibilità di garantirsi una fornitura di beni di base avessero un ruolo primario non tanto, o non solo, in quanto strategie di produzione e accumulazione del valore, ma quali garanzie della riproduzione dello stesso sistema capitalista e al contempo tentativo di incorporare e piegare le forme della riproduzione in nuovi circuiti di valorizzazione e commercio. La riconfigurazione globale del capitalismo di fronte alla contraddizione ecologica, riassunta nella crisi del cibo a buon mercato[17], assume allora la forma di un’ulteriore espansione delle frontiere estrattive e di una modificazione ancora più profonda ed irreversibile degli ecosistemi, della vita e della riproduzione sulla terra. Se osservate a livello locale, queste dinamiche ci permettono di affrontare con uno sguardo decolonizzato le grandi trasformazioni sociali. Esse si mostrano come crisi, metamorfosi e resistenze materialmente incorporate nelle relazioni, nei territori e nelle forme della soggettività.
Una sera di marzo di sette anni fa, quando il sole era già calato sopra al villaggio di Djalbanabe nella Riserva, sono stata colpita da delle luci che si stagliavano sull’orizzonte, molto diverse dalle luci dei fuochi che illuminano la notte in questo pezzo di savana saheliana. Le persone che erano con me mi spiegarono che si trattava dei fari dei trattori che stavano preparando il terreno per la semina, sradicando gli arbusti che crescevano spontanei e che fino a quel momento erano serviti per dar da mangiare agli animali. Non si sapeva bene quanto ci avrebbero messo, se settimane oppure mesi, ma si sapeva che avevano intenzione di continuare sino a quando non sarebbero arrivati alle porte del villaggio. Poco dopo, seduta per terra con alcuni anziani e dei ragazzi molto giovani rientrati in Senegal dopo un tentativo di migrazione in terra spagnola, ascoltavo delle riflessioni che sembravano essere nuove per quel contesto. Gli adulti si chiedevano se non avessero sbagliato a tenere fuori i giovani dalle rivendicazioni e negoziazioni politiche e se non ci fosse bisogno di adottare metodi nuovi per vedersi riconosciuti delle forme più ampie di rappresentazione nel contesto delle strutture di potere dominanti. A. Sow invece sembrava distratto, mi avrebbe svelato poi che pensava a quando, molto tempo prima, la sua famiglia era venuta a costruire qui i primi insediamenti, risalendo verso nord-ovest i percorsi che portavano i pastori sulle sponde del Lago di Guiers dalle terre rosse del deserto di Cajor in cerca di acqua per i loro animali e di spazi non ancora occupati. Pensava che se lui fosse dovuto partire non avrebbe avuto la stessa fortuna perché tutta l’acqua era per chi coltivava i campi mentre la terra sembrava che il governo preferisse darla a nuovi imprenditori arrivati in Senegal portandovi mezzi e capitali. Pensava anche che forse era giunto il momento di cambiare, ma non riusciva ad associare a questa parola uno scenario valido e realizzabile di mutamento.
Qualche tempo dopo, mentre partecipavo ad un dibattito di gruppo che avevo organizzato con alcuni villaggi nello Ndiaël, una donna che era seduta un po’ più lontana rispetto al primo cerchio di persone si alzò in piedi e prese la parola. Esclamò:
Ciò che ci preoccupa in quanto allevatrici non è tanto la nostra sorte, ma soprattutto quella dei nostri figli e nipoti: i fulɓe vivono dell’allevamento, se il progetto continua, l’allevamento sparirà da questa regione e questo ci inquieta profondamente[18].
Mi colpì non solo ciò che disse, ma soprattutto l’agitazione che trasmettevano quelle parole. Nel suo libro What is Land?[19] L’antropologa Tania Li fornisce una lettura un po’ diversa dell’idea di espropriazione, riflette sul fatto che i processi di accaparramento delle terre sono spesso dei processi molto lunghi, che coinvolgono più generazioni. Le frontiere estrattive, agricole e minerarie, avanzano a volte lentamente, occupando gli spazi progressivamente. Non sempre questi processi sono vissuti da subito come un problema, a volte gli abitanti di una data zona possono anche trovare dei vantaggi, per esempio una nuova strada che viene costruita, o dei commerci che si insediano. La terra in questi luoghi, scrive Li, è spesso considerata abbondante e l’idea che non ci possa più essere uno spazio affinché tutte le forme di vita possano evolvere ed adattarsi mutualmente non si palesa immediatamente ai suoi abitanti. A un certo punto però la terra finisce e le persone che all’inizio sono riuscite ad evitare o minimizzare le loro relazioni con la frontiera si trovano schiacciate su un limite che è sia spaziale che sociale, diventano marginali. Le lotte e le rivendicazioni che nascono in questi contesti sono spesso trattate come lotte di difesa dello status quo e affrontate dalle istituzioni con il linguaggio dello sviluppo e della modernizzazione e con l’imperativo dell’adattamento.
Ciò tende ad oscurare come invece, proprio per la storia che le ha prodotte, queste lotte sostengono dinamiche di trasformazione che guardano al futuro e si muovono, insieme a molte altre, nell’ambizioso e molteplice spazio politico che prova a pensare insieme benessere sociale e continuità della vita, rigenerazione e lavoro, autonomia e partecipazione, rottura con la storia coloniale e possibilità per le altre storie di emergere nel presente. In questo contesto, l’analisi dei conflitti socio-ecologici muove allora da una duplice intenzione. Da un lato far emergere altri modi di descrivere e intendere lo sviluppo capitalista, per mettere in luce i processi attraverso cui tutta una serie di pratiche sono state incorporate e marginalizzate nelle strutture economiche e politiche della modernità. Dall’altro, evidenziare come queste stesse pratiche costituiscono oggi degli spazi da cui è possibile ripartire per immaginare la transizione a forme più giuste e sostenibili di coesistenza.
Comprendere gli accaparramenti di terra: capitale, sviluppo e crisi ecologica
Il libro si articola attorno allo studio di un conflitto ambientale nato in seguito ad un investimento agricolo su larga scala condotto da un’impresa italiana con lo scopo di coltivare patate dolci e girasoli da importare in Italia per produrre energia verde[20]. Dal 2017 il progetto è sospeso. A ragione degli scarsi successi in termini di produzione agricola e della crescente ostilità delle popolazioni residenti sulle terre affidate all’impesa da parte del governo, gli investitori italiani hanno deciso di abbandonare la zona, cedendo le proprie quote a un socio senegalese, che sembra aver rilevato la concessione attraverso una nuova impresa.
Né il singolo investimento né il suo fallimento coincidono con la fine del processo di “accaparramento”, che resta una possibilità aperta, tanto per lo Stato, che prevede di riallocare le terre a nuovi imprenditori, che per le popolazioni locali, il cui diritto a risiedere nel territorio è messo in discussione e ulteriormente precarizzato dall’attuale condizione di incertezza. Allo stesso modo, la visione di un global land grabbing inteso come evento unitario e come principale indicatore delle trasformazioni del capitalismo agro-industriale richiede di essere messa in discussione. Anzitutto, diversamente dalla percezione riduzionista del land grabbing come fenomeno omogeneo, diversi studi hanno sottolineato come gli investimenti fondiari realizzati dopo la crisi del 2007-2008 coinvolgano un insieme complesso e variegato di attori economici, di interessi e di dinamiche sia locali che globali. Similmente, le reazioni delle popolazioni coinvolte, così come le forme di contestazione o di collaborazione, variano enormemente. Lo stesso fenomeno della corsa alla terra ha subito “aggiustamenti” importanti, tra i quali il principale, analizzato anche in questo volume, è il ridimensionamento dell’interesse per alcuni tipi di produzione, come quelli legati alla Jatropha, e per alcune terre, le più aride o marginali, che sono risultate più difficili da sfruttare poiché lontane dalle reti di trasporto e da riserve d’acqua dolce.
Non si è trattato di archiviare completamente la discussione sulle nuove acquisizioni fondiarie, quanto di avere una percezione più dettagliata dei modi in cui la terra si sta ridefinendo come risorsa centrale per lo sviluppo del capitalismo. Altri studiosi hanno tuttavia osservato come l’enfasi posta sulle acquisizioni di terra a grande scala rischi di far passare in secondo piano la molteplicità delle forme di accentramento fondiario operate dal settore agroindustriale (prima tra tutti l’aumento delle iniziative di contract farming), ma anche delle forme di estrazione di valore associate alla terra ed al modo in cui i territori vengono messi a profitto[21]. Possiamo in sostanza affermare che se in un primo momento, che ha coinciso con l’intensificarsi delle transazioni fondiarie, l’espressione land grabbing è stata utile per identificare e nominare una tendenza in corso, delineandone le principali caratteristiche, è divenuto presto importante approfondire l’analisi, per comprendere il fenomeno nel complesso dei mutamenti globali in corso e alla luce delle dinamiche di trasformazione a livello locale. Un percorso simile, seppur non identico, lo ha avuto anche la nozione di estrattivismo, a sua volta utilizzata in questo testo, che, dall’essere circoscritta all’analisi dell’impatto e delle reazioni seguite all’aumento degli investimenti minerari nei primi anni ’90, si è ampliata sino ad includere l’analisi delle forme di “sussunzione” dei territori, dei modelli di governo e delle relazioni di sapere, potere e ricchezza che sostengono le forme contemporanee dello sviluppo. Entrambe le nozioni inoltre – estrattivismo e land grabbing – hanno avuto una funzione importante nel consentire ad una molteplicità diversa di conflitti e resistenze di riconoscersi dentro un percorso comune, definito dalla lotta contro logiche simili, seppur con differenze nelle forme di attuazione.
Rintracciando i “tempi lunghi” delle attuali appropriazioni di terra e evidenziando il portato coloniale insito nei processi di formazione delle frontiere estrattive, visibile nel caso Senhuile-Senethanol, questo libro si propone di cogliere la complessità del land grabbing dentro un’idea di capitalismo che, per essere compresa, richiede di illuminare in maniera differente la logica dello sviluppo, soffermandosi sull’articolazione tra processi di valorizzazione e territori, tra produzione e riproduzione, prestando attenzione alle resistenze generate nelle varie comunità colpite[22]. In linea con questo obiettivo, il primo capitolo si situa direttamente nei territori interessati dagli investitori italiani per guardare ai modi in cui paesaggi, pratiche e comunità sono stati riarticolati e ristrutturati dentro specifici rapporti sociali ed ecologici connessi alle idee di sviluppo e modernizzazione così come definite dalla progettazione coloniale e, successivamente, dallo Stato nazione. La chiusura delle terre attraverso la perimetrazione agricola e l’esclusione della pastorizia da uno dei suoi luoghi d’eccellenza si accompagnano ad una prospettiva di valorizzazione che interpreta il territorio come spazio vuoto, occupabile e domesticabile secondo precise gerarchie di sapere, che continuano ad agire nel contesto degli investimenti attuali. L’analisi dell’“accumulazione primitiva”, ovvero la prospettiva analitica che interroga i rapporti tra accumulazione, espropriazione ed esclusione, richiede, per venir colta nel suo complesso, anche di essere messa in relazione all’evoluzione del capitalismo globale e della riproduzione allargata del capitale agroindustriale, nel contesto dei muta- menti sistemici in atto. Per questo motivo il secondo capitolo muove verso un piano globale, quello della crisi dei prezzi dei prodotti di base esplosa nel periodo 2007-2008, seguita a stretto giro dalla crisi finanziaria, da cui il land grabbing è emerso come progetto e possibilità concreta di sviluppo. Entrambe queste crisi, colte nella loro reciproca articolazione, hanno rappresentato qualcosa di più che una crisi capitalista nel senso classico del termine. La rinnovata centralità della questione alimentare e il riallinearsi di una buona parte delle strategie di sviluppo globale attorno alla questione della produttività agraria e della produzione agro-energetica sono state il sentore che i limiti dentro cui si è espressa la crisi del cibo a buon mercato non sono riconducibili unicamente a quelli della valorizzazione del capitale, dello sfruttamento del lavoro e dello scambio nel mercato, bensì ai limiti più generali della riproduzione sociale ed ecologica del sistema globale capitalista.
In questo quadro le risposte da parte di governi e di attori agroindustriali, della finanza o di imprenditori in cerca di nuove prospettive sono state quelle di assicurarsi una risorsa, la terra, non solo per metterla “a valore”, ma in vista anche di un futuro di crescente scarsità ed emergenze. Tale mossa diviene visibile nel suo senso profondo se accostata al discorso generale sullo sviluppo green, rafforzatosi in questa fase, secondo cui crescita economica, sicurezza alimentare e mitigazione climatica sono non solo compatibili ma addirittura possono rinforzarsi a vicenda[23]. Si tratta in effetti di una costruzione ideologica che ristruttura in maniera cruciale, e allo stesso tempo innovativa, lo sviluppo capitalista, poiché basa la sua legittimazione su un’ipotesi, che è al contempo una scommessa: quella della totale indifferenza tra capitalismo e mondo[24]. È dentro quest’ottica che una nuova fase di politiche di sicurezza alimentare prende piede, guidata dall’alleanza del settore tecno-scientifico con i grandi capitali industriali e finanziari.
Eppure non è sufficiente integrare la crisi climatica dentro le prospettive di sicurezza alimentare, poiché se queste ultime lasciano intendere l’idea che sia possibile pensare la sostenibilità rinnovando – e intensificando – i modelli produttivi, la questione ecologica richiede di andare alle basi del paradigma moderno e coloniale della crescita infinita[25], piuttosto che occuparsi dei suoi effetti. Non riconoscere ciò, equivale a celare il fatto che la sperimentazione sui limiti, e il tentativo di espandere le frontiere del valore, si ergono sulla creazione di un margine di esclusione sempre maggiore[26]. Il caso del delta lo mostra in un duplice modo: da un lato non sono più i contadini, gli agricoltori locali, ad essere al centro delle nuove strategie di sviluppo, bensì i grandi capitali agrari, a cui va il sostegno dello Stato. Dall’altro, per chi era già stato condannato in quanto incompatibile con la logica modernista e sviluppista, non sembra più esserci spazio di coesistenza. Nel mostrare ciò il terzo capitolo entra nel merito di alcune delle principali narrative che hanno guidato le nuove politiche di sicurezza alimentare: quella della modernizzazione sviluppista, quella degli agrocarburanti come vettore di sviluppo per le aree povere e quella degli investitori privati intesi come attori in grado di coniugare crescita economica, transizione energetica e miglioramento della vita a livello locale. Il caso italiano è particolarmente emblematico in questo contesto: principali acquisitori di terra in Senegal, con lo scopo di produrre agrocarburanti, gli investimenti italiani sono falliti quasi tutti nel giro di pochi anni. La descrizione delle modalità di insediamento nel territorio da parte di Senhuile mostra come il fallimento del progetto di sviluppo si erga anche sulla reiterazione, racchiusa in quelle narrative, di un’incomprensione quasi ontologica dell’altro e della sua territorialità.
Per dar conto di tale alterità, l’ultimo capitolo cambia punto di vista e tenta di cogliere da una prospettiva emica l’“economia morale” propria al mondo pastorale Peul, le implicazioni dell’investimento Senhuile-Senethanol e le forme di resistenza che esso incontra. Adotta inoltre un approccio incentrato sulle narrazioni come unità di analisi, dando spazio a quelle che sono state definite come narrative di giustizia ambientale[27],secondo le quali i soggetti che spesso subiscono e incorporano le diverse forme dell’ingiustizia ambientale presentano la loro esperienza e definiscono in modalità differente le problematiche al centro del conflitto[28]. È il metodo etnografico a servire quale principale strumento di indagine, unito all’analisi delle distorsioni dei processi di governance adibiti alla gestione della territorializzazione dell’investimento. L’inchiesta etnografica e l’osservazione partecipata miravano ad interrogare i significati che le persone danno agli eventi che li coinvolgono, inserendoli in un orizzonte di senso, permettendo inoltre di indagare le modalità attraverso cui esse affrontano e si relazionano al potere, costruendo traduzioni politiche dei problemi sociali. Le interviste raccolte permettono così di mettere a fuoco, contestandola, la gerarchia delle forme di vita e la loro negazione ontologica al cuore dello sviluppo capitalista.
[2] K. Deininger, D. Byerlee, Rising Global Interestin Farmland, Agriculture and Rural Development, The World Bank, Washington, D.C. 2011.
[3] Si veda M. Edelman, C. Oya, S.M. Borras jr., Global Land Grabs: historical processes, theoretical and methodological implications and current trajectories, «Third World Quarterly», 34(9), 2013, pp. 1517-1531.
[4] W. Anseeuw, M. Boche, T. Breu, M. Giger, J. Lay, P. Messerlyi, K. Nolte, Transnational land deals for agriculture in the Global South, Analytical report base don the Land Matrix database, CDE/CIRAD/GIG, Bern/Montpellier/Hamburg 2012.
[6] D. Haraway, A.L. Tsing, Reflections on the Plantationocene: A Conversationwith Donna Haraway & Anna Tsing, «Edge Effects» [on line]
[11] Si veda M. Davis, Il pianeta degli slum, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 25-50.
[15] D. Harvey, Breve storia del neoliberismo, il Saggiatore, Milano 2007.
[17] J.W. Moore, Ecologia-mondo e crisi del capitalismo. La fine della natura a buon mercato, cit.
[18] Dichiarazione di F.S., villaggio di Y., aprile 2015.
[19] T. Li, Land’send: capitalist relation son an indigenous frontier, Duke University Press, Durham 2014.
[24] Si veda L. Pellizzoni, Ontological Politics in a Disposable World: The New Mastery of Nature, Routledge, Abingdon 2015, capitolo 2.
[25] Si veda S. Barca, Forces of reproduction. Notes for a counter-hegemonic Anthropocene, Cambridge University Press, Cambridge 2020, pp. 1-12.