Neve, ghiaccio, freddo, buio.
Nella notte i partigiani camminano circospetti, distanziati. Bisogna stare attenti a non scivolare, farsi forza, continuare a marciare.
Siamo fuori dal rastrellamento?
Avanti, cammina, manca poco
Marzo ha il fiato grosso, si appoggia al suo bastone e arranca cercando di restare accanto a Bisagno. Virgola e Leone sono più avanti. La vecchia ferita alla gamba, quella di Guadalajara, è tornata a fargli male. Capita sempre quando cammina molto, soprattutto se fa freddo come ora.
Da quanto siamo in marcia? Sembra un secolo. Da ieri notte.
Tre giorni fa, il 18 gennaio 1945, lui e Bisagno sono arrivati al comando della brigata Coduri. In quanto comandante e commissario di divisione portavano un ordine chiaro: snellire la formazione e spostarsi. Stavolta Virgola e Leone, il comandante e il commissario della Coduri, non hanno potuto evitare di ubbidire.
Neppure loro possono pensare di tener duro come sempre, non quell’inverno. Gli alleati non sono arrivati, la guerra non è finita. Anzi il generale inglese Alexander ha detto che con l’inverno la loro avanzata si fermava lì, quindi i partigiani dovevano sospendere l’attività e tornare alle proprie case.
E lo ha pure detto per radio, così anche tedeschi e fascisti han potuto sentirlo, razza di coglione! Comodo lui che stava al sicuro, ma i partigiani mica ci possono tornare a casa. Possono disperdersi, nascondersi nelle buche, praticamente tane da animali, oppure provare a mescolarsi tra la popolazione, magari in città o nei cantieri del servizio del lavoro tedesco, la TODT, che ha bisogno di manodopera e non fa troppe storie sui documenti.
Lo stanno facendo in tutta l’Italia occupata, in tutta la Zona, in tutta la Cichero.
In montagna non possono restarci, non in così tanti almeno. In tutta la VI Zona all’inizio dell’inverno c’erano circa di 4.500 partigiani, più di 2.000 facevano parte della divisione Cichero e tra questi 650 della brigata Coduri. Impossibile trovare da mangiare per tutti, la popolazione stremata non poteva farsi carico di così tanta gente in inverno. Una relazione del comando della VI Zona del 24 dicembre 1944 lo aveva messo nero su bianco «Non si può più, almeno per ora, contare sull’appoggio morale e materiale delle popolazioni».
Per di più il nemico non è restato certo con le mani in mano. Tedeschi e fascisti hanno iniziato un nuovo ciclo di rastrellamenti. Più ridotti. Più rapidi. Più pericolosi. Colonne snelle, bene armate e addestrate che risalgono le valli da diverse direzioni e te li trovi addosso in un attimo. Proprio la Coduri ne ha avuto un assaggio negli ultimi tre giorni di dicembre. Due colonne, una di alpini della Monte Rosa e una di tedeschi provenienti da due lati per prenderli in trappola. Un disastro, 9 partigiani caduti, 34 catturati, 4 civili fucilati. Tra loro anche Don Bobbio, il parroco di Valletti. Avrebbe potuto unirsi ai partigiani che erano riusciti ad aprirsi un varco e a mettersi in salvo, Virgola e Leone hanno provato a convincerlo, ma lui ha scelto di restare con i suoi parrocchiani. Forse confidava nella sua tonaca, o forse nel suo Dio. I fascisti, dopo aver bruciato mezzo paese, lo hanno arrestato e tenuto legato ad un palo all’aperto tutta la notte, poi lo hanno portato a Chiavari e fucilato due giorni dopo. Prima che lo mettessero al muro ha detto al plotone d’esecuzione «Io sono a posto con la mia coscienza, ma pregherò per voi».
Dopo quell’esperienza Virgola ha dovuto accettare gli ordini portati da Bisagno e Marzo. La sua formazione stava in un punto troppo esposto, utilissimo finché sei tu che attacchi, ma pericoloso quando sei braccato. E quindi 45 giorni di licenza a chiunque li volesse e gli altri pronti a trasferirsi a Nord-est, nel territorio della brigata Berto, comandata proprio da Banfi, l’ex-ufficiale monarchico che Virgola e Leone non avevano mai sopportato. Un brutto colpo per loro che nel rastrellamento d’agosto se la erano cavata alla grande e sognavano di essere riconosciuti dal comando di Zona come divisione a parte.
Ma prima che iniziasse il trasferimento, la sera del 20 gennaio, hanno saputo delle colonne tedesche e fasciste in marcia contro di loro. Un altro rastrellamento. Bisagno, Marzo, Virgola e Leone hanno improvvisato così su due piedi un piano di sganciamento.
«Passiamo da Maissana, poi saliamo sul Monte Pu, di lì andiamo verso Iscioli, poi per Chiesa Nuova e di li arriviamo a Prato sopra la Croce».
«Distaccamenti distanziati sullo stesso percorso, con pattuglie sui lati»
«Sta bene, andiamo!».
La marcia sulla neve, al buio e al freddo è stata lenta. Non tutti i distaccamenti sono riusciti a sganciarsi. In lontananza si sentiva sparare, a tratti arrivavano grida disperate. Quelli che non ce l’hanno fatta a passare prima che il cerchio si chiudesse combattevano la loro ultima battaglia.
Quando è sorta l’alba hanno dovuto nascondersi nei dintorni di Iscioli, tra i pini, gli unici che nei boschi spogli danno qualche copertura. Così, fermi, immobili, senza mangiare, senza farsi sentire, al freddo. Col buio hanno ripreso la marcia.
Prima dell’alba riescono a raggiungere Prato sopra la Croce. In salvo. E finalmente ci sono delle case sicure, ci si può scaldare, mangiare, qualcuno piange.
Sono rimasti circa in duecento. Meno di un terzo di quanti erano pochi giorni prima. E gli altri? La maggioranza si è sbandata e nascosta, ma capire chi si è salvato e chi no non è facile in quelle condizioni. La Coduri si sistema nella nuova zona assegnata e con il passar dei giorni si appurano le perdite reali: 20 caduti, 40 prigionieri.
Nei giorni successivi al rastrellamento contro la Coduri i nazisti cercano di annientare il resto della Cichero mandandogli addosso truppe che sembrano letteralmente uscite dall’inferno.
Nel cielo terso invernale le colonne di fumo si alzano dai villaggi e dalle baite bruciate. Torme di fuggiaschi, civili e partigiani percorrono le valli sconvolti portano notizie terribili.
«Sono diavoli… ammazzano tutti, tutti….»
«Ma chi? Tedeschi? Fascisti?»
«No… hanno le divise con le insegne tedesche, ma non sono tedeschi… hanno facce brutte, strane… sono diavoli…»
«Sono i mongoli… a novembre hanno disperso quelli di Giustizia e Libertà…»
«…Sono peggio persino delle SS e delle Brigate Nere… violentano anche le bambine…»
In quei giorni Bisagno è convalescente. Mentre stava tornando da Prato sopra la Croce al comando di divisione uno dei muli dei partigiani che lo accompagnavano si è imbizzarrito. Lui ha provato a trattenerlo, ma è scivolato sul ghiaccio ed è finito in un burrone. Lo ha salvato una roccia sporgente che ne ha fermato la caduta ma gli ha provocato un profondo taglio in una gamba. I compagni hanno bloccato il sangue con lacci emostatici improvvisati e lo hanno trasportato in una casa isolata, dove un medico lo ha ricucito prescrivendogli venti giorni di immobilità.
Con il comandante immobilizzato il suo posto è preso dal suo vice Scrivia (Aurelio Ferrando), un altro ex-ufficiale dell’esercito che Bisagno conosce fin dalle scuole superiori. È lui che assieme a Marzo raggiunge il 30 gennaio 1945 la brigata Jori impegnata in combattimento.
Croce, l’ex-carabiniere che la comanda, sa il fatto suo. Poco prima di Connio è riuscito a sbarrare il passo ad una colonna nemica di circa 1500 effettivi partita da Alpe e intenzionata a rastrellare il paese di Carrega e i suoi dintorni, dove si trova la baita in cui è alloggiato il comando della VI Zona partigiana.
Arrivati a ridosso della linea del fuoco, Marzo tira fuori il binocolo e osserva il nemico. Quello che vede lo fa transalire. Sembra l’esercito di Attila l’unno, ma con la svastica cucita sulla divisa e dotato di mitragliatrici tedesche. Passa il binocolo ad un partigiano che lo accompagna, un russo scappato dalla prigionia tedesca.
«Sai chi sono quelli tovarisch ?»
«Da tovarisch, quelli Turkestani… brutta gente, traditori… arruolati in Armata Rossa ma passati con fascisti tedeschi… se Ghepeù prende loro tutti kaputt… »
Un attimo dopo lo scontro si riaccende violentissimo. Marzo, Scrivia e il loro seguito si ritrovano assieme a Croce alla testa di un distaccamento circondato dal nemico su tre lati. Per loro fortuna stanno combattendo in un bosco e i mongoli non riescono a capire quanti partigiani hanno di fronte né dove siano attestati di preciso.
«Urlate! Fate più casino che potete! Devono crederci un esercito!» Ordina Croce.
Urlano e sparano tutti, da una parte e dall’altra.
Le armi automatiche sputano piombo, dagli alberi volano schegge di legno, in una babele di grida, implorazioni, rantoli nelle lingue di mezzo mondo, vista la varietà dei combattenti di entrambe le parti.
«Sieg Heil!»
«Avanti Cichero! Viva l’Italia!»
«Gesù… Gesù salvami…»
«Allah hu Akbar!»
«Hurrà Stalin!»
«Mein Got…»
«Mamma…»
La mente di Marzo ha smesso di registrare i fatti in maniera logica, ora tutto è solo un turbine di fotogrammi confusi. Le raffiche del Thompson di Scrivia illuminano la penombra della sera che scende. I colpi nemici staccano un ramo vicino alla sua testa. La fiammata del fucile di un mongolo davanti a lui. Il suo dito sul grilletto, una raffica breve con la machine pistol presa ai tedeschi, un gemito e il mongolo che cade. Il compagno russo al suo fianco che tira bombe a mano «Hurrà Stalin!». Altre raffiche e spari tutto intorno. La voce di Croce «Avanti Cichero!».
Il tempo e lo spazio si confondono, in un unico incubo che non ha più un contesto preciso. «Allah hu Akbar!». Le stesse grida dei mori di Franco. Sono sulle montagne di casa o sul Jarama, in Spagna? «Angreifen!». Ordini secchi in tedesco. Sono di nuovo in Friuli, nel 1917, sottotenente dei bersaglieri, tiro contro gli austroungarici che dilagano, subito dopo Caporetto.
Dove sono? In quale delle tante guerre che ho fatto?
Qualcosa spara da dietro un tronco contro di lui e poi con un balzo nell’oscurità si butta dietro un altro tronco, sempre più vicino… Il caricatore è vuoto, deve cambiarlo… Marzo sente le membra pesanti, lentissime, come negli incubi…
«Marzo! Marzo! Commissario!». Scrivia lo scuote per le spalle.
«S-si sono qui…». Gli spari sono cessati, c’è un silenzio innaturale. Gli è successo di nuovo… come a Guadalajara…. La sua testa, l’anima direbbe Don Gigetto, ha lasciato il suo corpo in mezzo al combattimento. Nel buio a pochi passi da lui c’è qualcosa riverso a terra, un raggio di luna passa tra i rami e si riflette sul metallo di un mitra tedesco di quelli nuovi, con il caricatore curvo, ancora stretto tra le mani del cadavere.
«E quello?», «Un mongolo che hai colpito quando ti era ormai addosso».
Anche con la testa assente ha continuano a sparare per riflesso condizionato, per questo è ancora vivo e intero. «Andiamo, Croce dice che dobbiamo sganciarci…».
Si ritirano, ma di fatto hanno mandato all’aria il rastrellamento nemico, infatti anche tedeschi, fascisti e mongoli tornano alle proprie basi. Ne hanno avuto abbastanza. Il morale dei partigiani è buono. Si alza ancora di più quando il giorno dopo dal comando di Zona arrivano i rifornimenti. Armi arrivate dal cielo, mitragliatrici leggere inglesi Bren, mitra Sten, munizioni, alcuni mortai e persino qualche mitra Thompson americano. E poi sigarette, cibo e scarponi, scarponi nuovi per tutti! Una manna.
Già una manna… ma non sarà gratis, pensa Marzo. Queste cose hanno un prezzo.
Lo hanno avuto anche le armi sovietiche in Spagna. All’epoca disprezzava le lamentele degli anarchici.
«Perché a noi le armi sovietiche non arrivano?»
«Perché il compagno Stalin dovrebbe armare chi gli dà del dittatore e del reazionario? Se volete le armi fatevele nelle fabbriche a Barcellona che controllate invece che ridurre l’orario di lavoro o perdere tempo in assemblee inutili».
Ora per i partigiani arrivavano le armi e i soldi dagli anglo-americani e dal governo di Roma. Marzo sa che Rolando, il commissario di Zona, è partito alla fine di dicembre e ha attraversato la linea del fronte proprio per cercare di spiegare la loro situazione a chi comanda nell’Italia liberata. È tornato con un nuovo lancio di armi e con i soldi per comprare scarponi e cibo. Questi aiuti vogliono dire che gli alleati hanno di nuovo bisogno della resistenza italiana, ma anche che i partiti che la guidano, e tra loro il PCI, sono stati giudicati abbastanza «affidabili» dagli anglo-americani.
E si diventa «affidabili» solo pagando un prezzo politico. Rolando ci dirà alla prima riunione di partito di quale prezzo di tratta. Ma non è il momento di pensare a queste cose. Ci sono attacchi nemici in direzione di Bogli e Montoggio. Ogni giorno fanno puntate nel nostro territorio da direzioni diverse cercando di annientare le nostre formazioni e terrorizzare la popolazione. Dobbiamo fermare i mongoli e i loro padroni nazisti o quando finirà la guerra su queste montagne non ci sarà più nessuno vivo.
Nella serata del 1° febbraio arriva al comando di Zona la notizia che una forte colonna nemica, composta soprattutto da Mongoli, cioè dalla divisione Turkestan dell’esercito nazista, si sta preparando a muovere da Nord-Est, lungo il corso del torrente Bòrbera.
Tre brigate della Cichero, la Jori, l’Oreste e l’Arzani, vengono incaricate di fermarli. Nella penombra dell’alba gelata del 2 febbraio 1945 i distaccamenti partigiani si radunano con le armi in spalla. Qualcuno impreca, qualcun altro dà un ultimo controllo alle armi o fuma le nuove sigarette americane, in molti tremano di freddo.
Ego te absolvo a peccatis tuis
Non c’è tempo per le confessioni. I cappellani presenti fanno il segno della croce ed assolvono in gruppo tutti quanti, cattolici e non.
In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen.
Avanti muoversi!
Qualcuno inizia a cantare piano
«Fischia il vento, infuria la bufera
scarpe rotte.
Eppur bisogna andar».
In un attimo cantano tutti, comunisti e non.
«A conquistare la rossa primavera
dove sorge il Sol dell’Avvenir»
La Jori si apposta nei dintorni del paese di Cantalupo, restano nascosti lasciando passare il nemico; l’Oreste e l’Arzani invece gli sbarrano la strada più a valle. Quando lo scontro divampa la Jori esce dal bosco e attacca la colonna nazifascista alle spalle. Presi dal fuoco incrociato i mongoli e i tedeschi vengono messi in rotta. Alcuni riescono a rifugiarsi tra le case di Cantalupo, ma li si ritrovano accerchiati e costretti alla resa.
I rapporti partigiani parleranno di ben 179 morti nemici, cifre forse gonfiate, o forse no, visto che di certo sono stati catturati 38 soldati della Turkestan e 6 ufficiali tedeschi.
È la fine del regno del terrore dei Mongoli nella VI Zona. Ora tutti e tutte, combattenti e civili, esigono vendetta per le atrocità subite per mano loro. Il 10 febbraio il comando della Cichero emana un proclama in cui si dice:
«Il nemico sta rientrando ora nelle sue basi con lo smacco subito ed un duro bagaglio di saccheggi, mentre il pianto delle mamme a cui sono state violate le figlie lo segue come una maledizione. Giusta rappresaglia, 37 mercenari mongoli al servizio dei tedeschi e fatti prigionieri dall’Oreste sono stati fucilati».
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Note
Sull’andamento dei rastrellamenti nella VI Zona ligure i testi consultati sono:
Giorgio Gimelli Cronache militari della Resistenza in Liguria (Genova: Cassa di Risparmio di Genova e Imperia, 1985. Vol. 2.
Sandro Antonini. Io, Bisagno… il partigiano Aldo Gastaldi. Chiavari (GE): Internòs, 2017.
Vi è anche un rapporto redatto dal vice-commissario della “Coduri” scansionato e disponibile online
Sulla situazione complessiva della resistenza italiana vale sempre la pena di consultare il fondamentale libro di Santo Peli La resistenza in Italia. Storia e critica. Torino: Einaudi, 2004.
Sulla figura di Don Bobbio si può leggere la sua scheda biografica sul sito della biblioteca di Bologna (città di cui era originario)