«Sono 10 anni che faccio manifestazioni per la Palestina a Padova, da piccolina andavo con mio papà a quelle che organizzava lui, ma una piazza come quella di oggi non l’avevo mai vista, così ricca di giovani e di persone così diverse da quelle che ero solita vedere». Sono le parole di Silvia Gharaba, una giovane padovana di origini palestinesi, una delle tante seconde o terze generazioni che hanno animato la piazza in sostegno al popolo palestinese che ancora una volta sta pagando a caro prezzo la violenza perpetua di un progetto coloniale iniziato oltre un secolo fa e coronato dal sionismo 73 anni fa.
Il caso ha voluto che le manifestazioni odierne coincidessero con il settantatreesimo anniversario della Nakba (sciagura), quell’evento storico che ha ucciso migliaia di palestinesi e ha sbattuto fuori dalle proprie case e dalle proprie terre un intero popolo, rendendolo profugo. Ancora oggi ciò rappresenta una delle ingiustizie irrisolte più grandi dell’umanità.
Le parole di Silvia descrivono un dato reale nella composizione di piazza, che balza agli occhi senza doverci neppure porre troppa attenzioni. Tantissimi giovani – di origine araba, italiana, ma non solo – e soprattutto tantissime ragazze che fanno incessantemente cori e prendono parola al microfono parlando di fronte a centinaia di persone come se fosse la cosa più naturale del mondo. Sono lontani i tempi di “Palestina libera, Palestina rossa”, oggi, nonostante la mancanza di una leadership palestinese forte, i giovani hanno le idee chiare.
Ma il dato politico della giornata è un altro: la piazza di oggi, a Padova come in tantissime altre città, assomiglia molto di più a quelle che lo scorso giugno solidarizzavano con Black Lives Matter che alle tipiche piazze internazionaliste che siamo abituati a vedere. Non a caso gli slogan maggiormente utilizzati sui cartelli sono “I can’t breathe since 1948” e “Palestinian Lives Matter”, che richiamano immediatamente all’immaginario d’oltreoceano.
«Questa è la goccia che ha fatto traboccare il vaso» ci dice sempre Silvia «i media parlano di guerra civile, ma ignorano il fatto che le proteste degli arabi stanno avvenendo nelle città che una volta erano palestinesi e ora sono israeliane. Non sono le solite immagini che abbiamo visto in questi anni da Gaza, questi scontri hanno fatto il giro del mondo, hanno causato un sostegno imprevisto e Israele ha di fatto perso il controllo della narrazione, perché su twitter per la prima volta l’hashtag #IsraelTerrorist è andato in trend topic». Gli scontri di Sheikh Jarrah, quartiere Gerusalemme est dove i coloni sono arrivati per sgomberare i palestinesi dalle proprie case, hanno poco a che vedere con la “guerra di religione” tanto in voga nella narrazione mediatica occidentale. Ci parlano di gentrificazione, razzismo, di un rapporto di potere che agisce nell’intimità delle persone e che arriva a toccare perfino l’habitat domestico.
«Non siamo qua per una bandiera, per una nazione o uno Stato» dice un’altra giovane ragazza al microfono, «siamo in piazza per il diritto alla terra, che è qualcosa che viene negato con sistematica violenza e arroganza a milioni di persone». Miriam Mazouzi, vicentina di origine marocchina tra le organizzatrici della manifestazione si rifà a Vittorio Arrigoni: «sono una libera cittadina e non appartengo a nessuna associazione o gruppo organizzato; sono marocchina, sono italiana, ma non credo non serva essere né l’una né l’altra per protestare affinché si possa “restare umani”. Non è una questione religiosa o etnica, ma la motivazione che sta spingendo questa piazza e tante altre è quella di schierarsi in difesa dei più deboli e degli oppressi».
La piazza si conclude con un free style intonato da un giovanissimo ragazzo arabo e con le prime note della sempreverde Bella Ciao cantate al microfono tra gli applausi unanimi della folla. Perché la resistenza cambia i sui volti e le sue voci, ma in fondo mira sempre alla stessa cosa: libertà dagli oppressori!