«Va ben tut, anca a mi me fa pena quele pore bestie, ma no gavé altro da pensar in sto momento?». La questione ci è stata posta in termini simili da alcune persone che conosciamo e da altre che non conosciamo tramite commenti sui social. Premesso che di cose ne stiamo facendo anche parecchie altre, dalle mobilitazioni su vari temi alle diverse attività di mutualismo, vale la pena di provare a spiegare e di contestualizzare nel Trentino di oggi la campagna #stopcasteller per capirne le implicazioni e l’importanza.
Contrariamente all’animalismo «apolitico» (quando non esplicitamente reazionario e neofascista), noi non parliamo di «poveri animali da salvare», noi parliamo degli orsi rinchiusi al Casteller come di individui che con le loro azioni, con la loro resistenza, hanno saputo sollevare il tema gestione del territorio e dei modelli di sviluppo in Trentino. E questo riguarda il destino di tutte le forme di vita che abitano questa terra. La questione del «come rapportarsi alla presenza dell’orso» è infatti qualcosa di dirimente, una cartina di tornasole dei paradigmi di sviluppo, delle politiche di gestione del territorio e dei modelli antropologici che si intendono perseguire.
Il naturalista ledrense Graziano Daldoss (citato in questo interessante saggio di Amedeo Policante) scriveva negli anni Ottanta:
«Quando percorriamo un bosco abitato dall’orso tutti i fruscii ci suggestionano, tutte le ombre ci rendono cauti e guardinghi. La paura e la curiosità di trovarci di fronte lo yeti delle nostre montagne, rende ogni sensazione più penetrante. Un’orma, un graffio, gli escrementi […] diventano preziosi come fossili d’epoca al limite tra due ere: l’era in cui dominavano gli animali e l’era dei boschi rinsecchiti, ove gli animali non si incontrano più».
Quando la Provincia Autonoma di Trento nel 1999 ha deciso di reintrodurre l’orso in Trentino con il progetto Life Ursus ha scelto, consapevolmente o meno, di creare le condizioni per vivere i boschi secondo l’approccio descritto da Daldoss.
Si è scelto in sostanza un modello di gestione del territorio e quindi un modello di turismo e di sviluppo. Il problema è che di questa scelta non si sono tratte le logiche conseguenze, ovvero non la si è spiegata agli e alle abitanti umani e umane di questa provincia e non sono stati messi in atto quegli accorgimenti tecnici atti a garantire una migliore convivenza tra loro e l’orso (attività informativa a tappeto sui comportamenti raccomandati in caso di incontro, cassonetti dei rifiuti adeguati, passaggi faunistici per permettere di superare le infrastrutture umane, misure a tutela delle attività zootecniche in quota, ecc.).
Insomma fin dall’inizio si è scelto di godere dei vantaggi dati della presenza dell’orso (turismo e visibilità mediatica), cercando però di scaricare sui plantigradi stessi, sotto forma di incarcerazioni e uccisioni, gli «inconvenienti» della stessa. Infatti già all’epoca della gestione Dellai si è scelto di etichettare come «problematica» e rinchiudere al Casteller l’orsa DJ3 (incarcerata per 10 anni e infine mandata in esilio in un parco zoo tedesco lo scorso 26 aprile) mentre alcuni anni dopo, durante l’amministrazione Rossi, a rimetterci la vita a causa di un sovraddosaggio di sonnifero fu l’orsa Daniza.
Chiedere oggi la liberazione dei detenuti del Casteller significa dunque non solo contestare la giunta leghista che quella scelta politica del 1999 la vuole stralciare in toto, ma anche riprendere in mano, con coerenza e con uno sguardo volto al futuro, tutta un’idea di gestione del territorio, del turismo, delle attività economiche nel loro complesso.
E qui occorre analizzare la storia di questa terra per capire cosa occorre fare. Il concetto stesso di «Trentino» nasce da tre momenti «alti» del riformismo locale: le amministrazioni liberali di Trento guidate da Paolo Oss Mazzurana a fine XIX secolo, la prima amministrazione regionale guidata da Tullio Odorizzi e il sorgere del ruolo della Provincia Autonoma sotto la guida di Bruno Kessler. In tutti e tre questi momenti le classi dirigenti hanno saputo immaginare e realizzare (almeno in parte) un paradigma pluridecennale di sviluppo per l’intero territorio trentino, fissandone in tal modo l’identità.
Non erano certo degli anticapitalisti, ma neppure dei semplici propagandisti e passacarte del capitale. Facevano «riforme dall’alto», in maniera spesso paternalista o con scelte a volte discutibili sopratutto rispetto alle sensibilità di oggi, ma non si limitavano ad «amministrare»: credevano invece dovesse essere la politica e non «il mercato» a progettare il futuro di questa terra.
Questa tradizione trentina di «riforme dall’alto» si è interrotta per due motivi: da un lato una maggiore subalternità della politica al capitale, dall’altro perché la società è profondamente cambiata, ovvero alla politica erano venuti meno quegli addentellati associazionistici, sindacali e partitici che le consentivano di «gestire» la società. Il montare del «malcontento» ha spinto le classi dirigenti del centro-sinistra via via sempre più sulla difensiva e quindi a politiche sempre più incoerenti e reazionarie, sino al trionfo leghista del 2018.
I leghisti hanno illuso un’ampia fetta di popolazione, comprendente sia sfruttatori che sfruttati, di poter tornare ad un modello economico e sociale che è sostanzialmente quello degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso: niente immigrati, niente orso, niente pericolosi corsi di «gender» nelle scuole ma piuttosto impianti da sci, fabbrichette e punti nascita in tutte le valli. Una vera e propria utopia restauratrice dell’uomo bianco eterosessuale, padrone assoluto della propria attività, dei propri boschi e della propria famiglia.
In soli due anni e mezzo possiamo vedere a cosa abbia portato tutto ciò. I punti nascita di valle? Il 12 novembre 2020 la Provincia ha comunicato la «sospensione» delle attività di quello di Cles e Cavalese.
Gli impianti sciistici? L’insostenibilità economica ed ambientale di un modello di turismo che sta in piedi solo nella misura in cui viaggia sui grandi numeri è evidente già da anni, ma è divenuta lampante in questa «non-stagione invernale» caratterizzata dalla seconda ondata della pandemia da Covid-19.
L’unico vero «successo» di questa giunta è stato l’essere riusciti a fomentare i conflitti interni alla società trentina. La loro azione di governo è consistita sopratutto nell’indicare dei nemici da colpire. In questo senso possiamo vedere come complementari l’approccio leghista alla presenza dei migranti e quello alla presenza dell’orso. In entrambi i casi si è deciso che su questi temi occorreva spaccare la società, rendere impossibile la convivenza, ghettizzare, rinchiudere, discriminare.
Da un lato si sono varate norme discriminatorie palesemente incostituzionali, come quelle sull’assegnazione degli alloggi popolari, si sono tagliati i fondi per i corsi di italiano, si sono arrivati a rifiutare i fondi UE all’integrazione, si è tenuta la gente in strada pur di non aprire ai senzatetto la struttura dell’ex caserma Fersina. Dall’altro si è fatto il possibile per stralciare tutti quei progetti che avrebbero potuto andare nella direzione di consentire una coesistenza tra umani ed orsi, come quello del radiocollare Gps in grado di dissuadere i plantigradi dall’avvicinarsi ai centri abitati.
Come i migranti devono essere tenuti ai margini della società così gli orsi devono essere «problematici», altrimenti i politicanti leghisti rischiano di tornare a fare quello che facevano prima di posare il sedere sulle loro ben remunerate poltrone: cioè i «fenomeni» da bar o da tastiera.
Se il paradigma di sviluppo trentino tracciato in epoca dellaiana era in crisi già da prima dell’avvento leghista (e la traiettoria di Life Ursus lo dimostra appieno), l’amministrazione Fugatti ha dato prova di non riuscire ad immaginare un futuro che non sia uguale ad un passato ormai remoto. Ma attenzione a non sottovalutare i leghisti. Senza dubbio hanno una classe dirigente di conclamata incapacità amministrativa, ma hanno altresì la forza di una narrazione coerente, capace di ricollegare la dimensione antropologica alle scelte economiche. Una narrazione padronale e conservatrice che fa della guerra all’orso un dato identitario centrale, capace di saldare un blocco sociale attorno all’idea che l’individuo, maschio bianco e proprietario, sia signore assoluto dell’ambiente e di tutte le forme di vita che lo abitano.
Se non si prende la cosa sul serio, se non si contrappone narrazione a narrazione, modello antropologico a modello antropologico, paradigma di sviluppo a paradigma di sviluppo, si finisce per continuare a subire l’iniziativa delle forze reazionarie.
Di qui il cuore del nostro dissenso rispetto ai vertici del centro-sinistra trentino, che ci paiono attardarsi su quello che si può definire «massimalismo tecnocratico sviluppista» fuori tempo massimo (si veda come pongono la questione TAV). Ovvero continuano a parlare di (discutibili) «grandi progetti» calati dal grande capitale senza neppure cercare di elaborare una visione di ampio respiro, che tenga conto della complessità della realtà trentina e della necessità di ri-definire l’identità e le basi materiali di questa terra.
Per farlo non basta «amministrare», magari «adattandosi alle necessità del mercato». Occorre elaborare un paradigma complessivo di economia, di società, di rapporti tra le diverse specie animali e di esse con l’ecosistema tutto. Per farlo occorre agire a più livelli, ciascuno e ciascuna con le proprie competenze e con i propri metodi, ma sempre con la consapevolezza che occorre tenere insieme realizzazioni concrete, narrazione e cambio complessivo di mentalità.
Per quanto ci riguarda partiamo da un presupposto: la questione ambientale non è «un» problema, è «il» problema del nostro tempo. A chi non ci crede consigliamo la lettura di Spillover di David Quammen e quindi riflettere sul legame tra pandemie, devastazione dei territori, sfruttamento e violenza sugli animali non umani.
Nel secolo scorso uno dei più grandi meriti del riformismo trentino fu quello di contribuire a costruire la convivenza tra i popoli della nostra regione dopo due guerre mondiali. Il compito delle forze progressive di questo secolo è costruire la convivenza sul nostro territorio tra animali umani e non umani e tra animali umani ed ecosistema nel suo ambiente.
Se non ci si pone questi problemi e ci si ostina a continuare con modelli di sviluppo superati il futuro si prospetta grigio anche per gli umani che popolano le vallate trentine. Pensiamo al turismo ad esempio. Pensate sia davvero possibile continuare a puntare sulla massificazione, sulla cementificazione, sulla costruzione di impianti sciistici?
Già nel 2015 in un convegno SAT a Moena si parlava della necessità di un «cambio di rotta» rispetto alla monocultura dello sci, e non solo per ragioni ambientali, ma sopratutto per la crisi strutturale di quel modello di turismo. Nel dicembre 2020 un documento del CAI è tornato sul tema invitando a sospendere la costruzione di nuovi impianti e a puntare sulla diversificazione e la trasformazione dell’offerta turistica «artigianato, agricoltura, frequentazione delle aree protette e forme di ospitalità diffusa».
In quest’ottica la presenza dell’orso sulle montagne trentine risulterebbe un elemento utile alla trasformazione dell’offerta turistica nella chiave della diversificazione, della responsabilità e della maggiore sostenibilità ecologica. Del resto le parole di Daldoss riportate all’inizio di questo scritto spiegano al meglio il «valore aggiunto» costituito dalla presenza dell’orso in una zona montana. Non a caso essa non sembra disturbare affatto i turisti, ma piuttosto una parte dei residenti.
Abbiamo già detto come la «percezione» in merito alla pericolosità dei plantigradi sia frutto di cattiva gestione e di deliberato sabotaggio di tutte quelle misure che potevano rendere meno problematica la convivenza. Viene quasi il sospetto che la guerra all’orso sia parte della più generale guerra alla differenziazione dell’offerta turistica, alla ricerca di nuove modalità di fare impresa. Di certo ad oggi la monocultura turistica sta in piedi non solo a prezzo di veri e propri crimini ambientali (si veda l’innevamento delle piste che a metà novembre si stagliavano bianche sui fianchi ancora verdi delle montagne), ma anche a spese dei e delle contribuenti trentini e trentine. Senza continue immissioni di denaro pubblico tutto il sistema sarebbe fallito da un pezzo, ma quanto si può andare avanti ancora? Si è visto che cosa è successo in quest’anno di pandemia. Costruire altri impianti, sparare più neve, cementificare sempre di più le montagne serve solo a ritardare l’inevitabile. È l’illusione di poter continuare a vivere «come si è sempre fatto» che sta mettendo in crisi l’economia delle valli trentine, non l’orso.
Occorre quindi guardare in faccia alla realtà e affrontare la necessità di un radicale cambio di paradigma economico e sociale. Lo si può fare in diversi modi, noi abbiamo scelto di farlo nel modo che ci è più congeniale: partendo da un conflitto, da una lotta reale. Quella al fianco di tre orsi rinchiusi in una gabbia e delle decine di altri ancora liberi nei boschi, ma già nel mirino di future catture e uccisioni. Lo abbiamo fatto con lo slogan «smontiamo la gabbia». Lo scopo è da un lato quello di rendere inservibile quel meccanismo repressivo che offre una finta soluzione al tema del rapporto tra animali umani e non umani, dall’altro cercare di affermare una nuova mentalità.
L’affermarsi di un diverso paradigma economico e sociale ha senza dubbio bisogno di scelte concrete e praticabili (per forza di cose graduali), ma queste funzionano solo se si attuano all’interno di un processo di cambiamento della cultura e del modo di vivere che parta dalla società stessa. Il fallimento di Life Ursus sta lì a dimostrare come le «riforme dall’alto» possano produrre disastri se non si tiene conto di questo.
La storia non ripassa i piatti, non arriverà più nessun grande leader a «salvare il Trentino», semplicemente perché sono venute meno quelle condizioni e quegli aggregati sociali da cui esso poteva emergere. La nuova fase di cambiamento che definirà l’identità e le basi materiali della società trentina può nascere solo dal basso, da un insieme di lotte e riflessioni che porti al sorgere di quello che Gramsci chiamava un intellettuale collettivo, cioè dall’intelligenza condivisa delle soggettività oppresse in lotta per la propria emancipazione.
Per questo sentiamo l’esigenza di allargare il quadro, di intersecare tutte quelle persone e collettività che non accettano di essere ingabbiati all’interno di un modello di sviluppo fallimentare e putrescente. Non per sommare semplicemente le lotte di diversi comitati locali, ma per provare a tracciare insieme progetti e prospettive per il futuro del Trentino, per identificare gli elementi centrali di un cambio di paradigma complessivo.
La gabbia del Casteller, simbolo di modello economico e sociale reazionario e fallimentare, imprigiona il Trentino del futuro. Occorre uscirne insieme.