di Paolo Lago
Nomadland (2020), di Chloé Zhao, mostra una significativa contrapposizione di spazi: da una parte c’è lo spazio libero, non incasellato da alcun tipo di controllo sociale; dall’altra, invece, c’è quello regolato dalle dinamiche della ripetitività quotidiana, disciplinato dalle pratiche del controllo e del lavoro. La sessantenne Fern (Frances McDormand), protagonista del film, dopo aver perso una occupazione stabile durante la “grande recessione” che dal 2006 ha colpito duramente gli Stati Uniti, alterna periodi di lavoro stagionale a momenti in cui percorre le lande del Nevada e degli stati dell’Ovest con il suo van riadattato a abitazione viaggiante.
Gli spazi della sedentarietà, sottoposti alle regole del controllo, sono fondamentalmente i luoghi di lavoro e gli interni domestici. All’inizio del film vediamo Fern che lavora da Amazon, in un enorme spazio in cui gli addetti sono impegnati a inscatolare gli oggetti che i clienti acquistano online. Il gigantesco capannone di Amazon può essere definito come un “non luogo”, secondo l’efficace espressione di Marc Augé: anche se l’analisi dello studioso francese è prevalentemente incentrata su spazi come autostrade, stazioni, aeroporti e supermercati, si potrebbe osservare che anche un luogo di lavoro come un capannone di Amazon assume connotazioni spaziali diverse rispetto a quelle prettamente moderne di una fabbrica di tipo tradizionale, con la sua catena di montaggio. Come osserva Augé, “se i non luoghi sono lo spazio della surmodernità, questa non può pretendere alle stesse ambizioni della modernità”1. Il termine “surmodernità” (calco del francese surmodernité) è stato coniato da Augé per indicare una fase storica di superamento della postmodernità, caratterizzata dalle dinamiche socio-economiche della contemporanea società globalizzata. Nella “surmodernità”, si potrebbe dire, cambiano anche gli spazi e le modalità del lavoro. Gli impiegati di Amazon sono costretti a trascorrere il proprio tempo lavorativo in uno spazio enorme, svolgendo lavori ripetitivi e usuranti (essendo spesso sottoposti a ritmi di lavoro massacranti, come è emerso da scioperi di protesta da parte dei lavoratori, svoltisi recentemente anche in Italia), non finalizzati alla costruzione di un oggetto-merce, come nella tradizionale catena di montaggio, bensì volti all’impacchettamento e alla spedizione di quegli stessi oggetti già costruiti. Si tratta di un lavoro di vendita realizzato come un lavoro di produzione. Lo stesso spazio del capannone è diverso rispetto a quello di una fabbrica tradizionale; esso stesso è all’insegna di quell’eccesso che, secondo Augé, caratterizza la “surmodernità”: eccesso di spazio, fagocitante e alienante, in cui i tradizionali parametri di orientamento vengono totalmente stravolti, sostituiti da indicazioni di movimento sovrapponibili e sostituibili ogni momento. In un tale spazio, il personaggio di Fern appare continuamente sottoposto a un processo di perdita: del sé, della propria esistenza e della propria personalità. Quest’ultima sembra essere totalmente riconquistata soltanto nei momenti in cui, in solitudine, guidando il suo van, solca i territori degli stati americani occidentali.
Un altro spazio in cui Fern lavora durante i suoi spostamenti è quello dei parchi turistici come addetta alle pulizie. Il parco è una tipologia di luogo che più si avvicina a quelli descritti da Augé, legati alla fruizione da parte dei turisti. Si tratta, fondamentalmente, di lembi di natura che vengono ‘inscatolati’, attrezzati e offerti al turista dietro pagamento: quella stessa natura inscatolata, in fin dei conti, non è poi troppo diversa dagli oggetti impacchettati di Amazon. Fern, anche in questi spazi, appare costretta, come se anche lei fosse stata inscatolata dalle dinamiche lavorative che regolano la società. I veri momenti di libertà, per la protagonista, sono rappresentati dal contatto genuino con la natura: nel parco minerario, quando si allontana dal gruppo dei turisti per passeggiare da sola, inquadrata dall’alto dalla macchina da presa come se facesse parte ella stessa della terra che la avvolge; oppure, anche nel momento in cui si getta nuda in un torrente di montagna liberando il proprio corpo in una sorta di unione con gli aspetti più fisici e corporei di quel territorio che sta percorrendo in lungo e in largo. Il territorio americano, in questo senso, è rappresentato in modo estremamente vitalistico e appare perciò molto diverso, ad esempio, dal paesaggio statunitense mostrato ne La ballata di Stroszek (Stroszek, 1976), di Werner Herzog, in cui le desolate e gelide praterie del Wisconsin sono la cornice ideale per la condizione di marginalità e di terribile solitudine che attanaglia il protagonista. Anche Fern è avvolta da una condizione di marginalità e solitudine (per certi versi, anche autoimposta), ma possiede una profonda forza interiore strettamente legata al territorio.
Un altro luogo sottoposto alle dinamiche del controllo e della sorveglianza, in Nomadland, è quello domestico. Fern rifiuta categoricamente di fermarsi sia nella casa della sorella che in quella di Dave, un attempato viaggiatore che, innamoratosi della donna, la invita a fermarsi con lui insieme ai figli e ai nipoti. La regista è davvero abile nel mostrare due spaccati di vita sedentaria tipicamente americana. Nei momenti della sosta presso la casa della sorella, Fern partecipa con lei e suo marito a una cena all’aperto con barbecue, insieme agli amici della coppia, nel giardino della loro elegante villetta. La macchina da presa la mostra poi in una camera da letto mentre il suo corpo sembra rifiutare la morbidezza accogliente di quello stesso letto. Il corpo di Fern sembra essere in sintonia solamente con gli spazi aperti e naturali, con le lande nomadiche che lei, nuovo “soggetto nomade” della contemporaneità (per utilizzare un’espressione di Rosi Braidotti2), percorre in modo molto fisico e ‘corporeo’. Lo spazio domestico è regolato da numerose regole e convenzioni alle quali Fern non accetta di sottostare: in primis, forse, quelle di un patriarcato familiare che continua a persistere nella contemporanea società occidentale. Perciò, non può fermarsi neppure nella casa che le offre Dave: un altro interno levigato e perfetto, accogliente e protettivo. È emblematico, infatti, che lei abbandonerà la casa al mattino molto presto, quando ancora tutti dormono, mentre sta per scatenarsi un forte temporale. Fern abbandona lo spazio domestico e familiare, caldo e accogliente, per mettersi alla guida e affrontare strade inospitali sulle quali si sta scatenando una pioggia incessante. A uno spazio caratterizzato da calore e accoglienza, nella quale vive la tipica famiglia felice americana, la donna preferisce la propria solitudine e la propria libertà, nonché lo spazio auto-organizzato allestito dagli altri viaggiatori in aree di sosta in mezzo a vastissime lande desertiche. Se – rifacendoci all’analisi offerta da Deleuze e Guattari in Mille Piani – quelli di Amazon e degli interni domestici possono essere considerati come spazi “striati”, sottoposti alle griglie del controllo, quelli desertici e nomadici sono dei veri e propri spazi “lisci”3 , caratterizzati dal movimento incessante dei nomadi (che, secondo gli studiosi, non è comunque per forza associato al movimento spaziale).
Come scrive Franco La Cecla in Mente locale, lo spazio “nostro”, oggi, è sempre meno “nostro”: “Dai marciapiedi alle strade, allo spazio dell’appartamento, al paesaggio urbano in generale, abbiamo a che fare con uno spazio rigido, predeterminato, con una serie di griglie, di incasellamenti e di canali dentro cui, bene o male, si svolge la nostra vita”4. La città moderna impone il passaggio da una concezione di spazio “come ambito manipolabile del proprio abitare a un’idea più astratta e generale di spazio, e quindi anche più impersonale e statica”5. L’unico domicilio ammesso è perciò quello della “residenza”, un domicilio regolarizzato e disciplinato, una vera e propria istituzione6. È a questa istituzione che si oppone Fern: lei e tutti gli altri ‘nomadi’ che vivono nei loro camper, nei loro furgoni e nelle loro automobili e che si ritrovano in spazi auto-organizzati. Infatti, come nota sempre La Cecla, il disciplinamento degli spazi ha prodotto negli ultimi anni delle migrazioni e degli spostamenti continui, volontari o forzati, la cui impronta “non è quella del muoversi dei nomadi ma del vagare di chi si è perduto”7. Ma questo perdersi, per Fern e gli altri ‘nomadi’, possiede una forte impronta costruttiva: spostandosi continuamente, essi si oppongono, in una silenziosa ribellione, al disciplinamento degli spazi, alle residenze, all’esproprio dello spazio che, nella contemporaneità, continua incessantemente ad avvenire. A fronte dello spazio quotidiano manipolato e disciplinato dal potere, essi creano lo spazio libero del loro immaginario, ‘sacro’, per certi aspetti, all’interno di un universo ‘desacralizzato’, un luogo fluttuante e corporeo, come i loro movimenti nomadici sul territorio. I viaggiatori nomadi costruiscono i loro campi come dei villaggi tradizionali antropologicamente connotati, all’interno dei quali lo spazio dell’abitare assume non solo connotazioni magico-sacrali ma anche politico-sociali. Essi organizzano il proprio spazio a loro piacimento, sfuggendo a ogni disciplina, secondo lo stesso sistema attuato, ai margini delle città contemporanee, dai tanto odiati campi Rom.
La sera, Fern e gli altri si ritrovano attorno al fuoco per parlare e per ascoltare le storie e i ricordi di ognuno: la parola che fluttua libera – come nei racconti orali di arcaiche popolazioni – appare allora quasi come un’appendice della libera estensione dei corpi dei viaggiatori, riuniti nella loro pratica di resistenza all’incasellamento sociale. Per mezzo della loro voce, dei loro corpi e del loro viaggio incessante, questi nomadi sradicati della contemporaneità inanellano una dopo l’altra diverse pratiche di resistenza ad ogni forma di disciplinamento sociale. Nomadland, in questo senso, ci offre la rappresentazione documentaristica e poetica di numerose pratiche sociali contemporanee che si oppongono alla massificazione crescente, tanti atti di coraggio che, lentamente, scalfiscono il rigido involucro dello spazio disciplinato che ci avvolge.