Un mese fa iniziava lo sciopero generale in Colombia. Un mese consecutivo di blocchi stradali, di proteste, di assemblee popolari e di ollas comunes, di spazi liberati come il Portal Resistencia a Bogotá, e di oceaniche e pacifiche manifestazioni in tutto il paese attaccate con la violenza delle armi dai reparti antisommossa della polizia e da gruppi paramilitari sobillati dai politici di destra, come l’ex presidente Uribe.
Un mese che ha prodotto un saldo inaccettabile in termini di vite umane ma che alla comunità internazionale sembra interessare poco. Secondo l’ultimo report di Campaña Defender la libertad, fino al 28 maggio sono morte ufficialmente 59 persone a causa dell’agire violento e premeditato delle forze armate, della polizia, della famigerata ESMAD, dell’esercito e di civili armati. E poi migliaia di denunce di violenze di ogni tipo: 866 persone ferite dalla violenza poliziesca di cui 51 agli occhi, 2152 persone arrestate arbitrariamente, 1192 denunce di abuso di potere e 87 persone vittime di violenza di genere. A rendere più terribile il quadro già drammatico, l’ombra di un passato mai completamente superato: 346 persone sono tutt’ora date per scomparse e la denuncia della Comisión Intereclesial de Justicia y Paz della probabile presenza di fosse comuni e di torture nei confronti dei manifestanti nella regione di Cali, uno degli epicentri del “paro” e della conseguente repressione.
Lo aveva detto recentemente l’analista politico urugayano Raúl Zibechi, che nella fase cominciata l’anno scorso con la pandemia il panorama avrebbe visto governi che sarebbero diventati sempre più autoritari che, di fronte alla decadenza del sistema capitalista e all’evidenza della disuguaglianza, della povertà, della distruzione, delle ingiustizie che genera, hanno un solo modo per mantenersi al potere, ovvero attraverso l’uso premeditato, consapevole e disumano della violenza. Solo così infatti il sistema capitalista può continuare a garantire privilegi e ricchezze ai “los de arriba”.
La Colombia, considerata dalla comunità internazionale la democrazia più stabile del continente, sta vivendo in realtà una fase caratterizzata da un uso politico della violenza come strumento di controllo della popolazione. Con l’elezione a presidente di Ivan Duque, è tornato al potere l’uribismo, con la conseguenza che il processo di pace ha subito una brusca frenata, lasciando il posto alla repressione e all’assassinio calcolato di ex guerriglieri e leader contadini, indigeni e sociali per il controllo dei territori lasciati sguarniti dalla guerriglia. Una strategia che ha provocato oltre 1600 omicidi e massacri continui tra la popolazione (solo quest’anno sono già 40 i massacri con 149 vittime, fonte Indepaz).
A questa situazione generale si è aggiunta la crisi economica e sociale provocata dalla pandemia. A un anno dall’entrata del paese in questa fase, la povertà si è impadronita della vita di milioni di persone: secondo il DANE (Departamento Administrativo Nacional de Estadística) nel 2020 la percentuale di povertà è passata dal 35,7% dell’anno precedente al 42,7% facendo entrare in questa condizione oltre tre milioni e seicento mila colombiani. Altri dati che indicano la condizione drammatica che vive la popolazione sono i cinque milioni e seicento mila sfollati interni e la disoccupazione giovanile: su undici milioni di persone tra i 14 e i 28 anni, tre milioni (il 27%) non sono né occupati né vanno a scuola.
Il dilagare della povertà è forse il motivo per cui, a distanza di un mese e con una repressione da far invidia a una dittatura militare, milioni di colombiani continuano a scendere in piazza, a sfidare le turbe di repressori in divisa e a rischiare ogni giorno la vita. Senza alcuna possibilità né speranza per il futuro, i giovani e tutte le minoranze discriminate e ai margini della società hanno perso perfino la paura e poco o nulla hanno da perdere. Non è un caso infatti che uno degli epicentri del paro sia proprio Cali, la terza città per importanza e per popolazione della Colombia, dove si concentrano molte delle minoranze su descritte, ci sono forti disuguaglianze economiche, è sede di migliaia di “sfollati” ed è considerata una delle aree dell’intero Paese nella quale la violenza armata è più alta.
In questo mese di paro si è parlato molto, e giustamente, della durissima repressione subita dalla popolazione in lotta ma poco dei risultati che questa lotta è riuscita ad ottenere: partita come una protesta contro l’iniqua riforma tributaria, con il passare dei giorni si è trasformata in una lotta contro il sistema che produce povertà, violenza e disuguaglianza tanto che, ottenuto il ritiro della riforma tributaria, i manifestanti sono riusciti ad ottenere le dimissioni del ministro delle Finanze Carrasquilla, responsabile della riforma tributaria, il ritiro del progetto di riforma della sanità, e le dimissioni della cancelliera Claudia Blum e del Commissario alla Pace Miguel Ceballos. Infine, anche la Copa América ha deciso di spostare le fasi finali che si sarebbero dovute tenere nel Paese a giugno in Argentina dopo le fortissime proteste degli hinchas di numerose squadre colombiane, scese in strada al fianco dei manifestanti per non permettere che la Copa fosse utilizzata come “arma di distrazione” dai tragici avvenimenti in corso.
I risultati finora ottenuti fanno tremare l’esecutivo: una recente inchiesta ha stimato che la disapprovazione verso il presidente Ivan Duque è al 76% a causa della mala gestione della pandemia e soprattutto della efferata repressione messa in atto in questo ultimo mese. Nonostante la disponibilità al dialogo data al Comité Nacional del Paro, il presidente non ha nessuna intenzione di accettare di porre fine alle violenze per intraprendere questa strada, anzi, con il passare dei giorni abbiamo assistito a una escalation di violenza nei confronti dei manifestanti e non solo, come nella giornata del 26 maggio quando oltre 200 persone sono state ferite nella sola Bogotá. Giorno dopo giorno sono infatti aumentate le denunce di violenze subite da parte dei giornalisti, come anche dalle brigate mediche di soccorso, sempre di più sotto tiro. L’inasprimento della repressione non avviene solo nelle strade con la violenza fisica, ma anche con una strategia di criminalizzazione dei manifestanti accusati di essere dei vandali distruttori, quando in realtà sono gli infiltrati nelle manifestazioni a provocare danni, come dimostrano i numerosi video in rete dove si vedono uomini in abiti civili addestrati dalle forze armate a incendiare strutture, a causare danni e a sparare contro le persone.
Contro questa escalation di violenza nei confronti del popolo colombiano è intervenuto pochi giorni fa anche il premio Nobel Adolfo Pérez Esquivel il quale non ha avuto paura a definire gli eventi in corso in Colombia un principio di genocidio: «c’è una responsabilità del governo, si sta superando il limite dopodiché dovremo parlare di genocidio in Colombia; questi sono crimini contro l’umanità che non si prescrivono nel tempo».
Dopo un mese di proteste la Colombia che resiste sembra essere più forte di tutto, nonostante le numerose e inaccettabili perdite. Sostenere i manifestanti anche con iniziative di solidarietà, augurarsi che riescano a far cadere il governo di Duque è la sola speranza che qualcosa davvero possa cambiare nel paese: perché il problema non sono solo le riforme inique a cui opporsi, ma un intero sistema di comando fondato sulla violenza, l’odio, la discriminazione, la disuguaglianza. Contro tutto questo ogni giorno da un mese a questa parte scendono nelle strade milioni di colombiani.
Foto di copertina Medios Libres Cali