«Glosse a La Q di Qomplotto», di Giuliano Santoro (più recensioni, interviste e calendario aggiornato delle presentazioni)

Poster La Q di Qomplotto

[Questo nuovo speciale su La Q di Qomplotto è imperniato su un testo di Giuliano Santoro ricavato dai suoi appunti di lettura. Riflessioni che non potevano trovare spazio nella recensione poi uscita sul manifesto.
A seguire segnaliamo nuove recensioni, tutte molto angolate e idiosincratiche.
Segnaliamo anche un’intervista rilasciata da WM1 in inglese, nell’ambito di un interessante progetto di ricerca anglo-nordamericano su cospirazionismo e gamification.
Infine, il calendario aggiornato delle presentazioni del libro.
A proposito, Claudio Madella ci ha regalato un nuovo poster, vedi didascalia dell’immagine di testa.
Per quanto riguarda l’audioserie La Q di Podqast, invece, ci siamo presi una pausa necessaria a preparare le ultime puntate, una delle quali sarà (forse) registrata dal vivo di fronte a un pubblico. Le prime sette puntate sono qui.
Buone letture e buoni ascolti. WM]

di Giuliano Santoro *

Mentre leggevo La Q di Qomplotto annotavo a margine le cose che si intersecavano coi macrotemi di cui mi sono occupato in questi anni: la reazione che assume alcuni dei tratti della rivoluzione; il modo in cui le destre utilizzano la cultura nazionalpopolare per rafforzare la loro egemonia, soprattutto in relazione alla mutazione digitale e all’esplosione del lavoro nell’arco dell’intera esistenza…

Più che di un testo organico si tratta di un file zippato di idee, link e ipotesi di lavoro. Forse soltanto la discussione e la sperimentazione collettiva sono in grado di capire se vale la pena decomprimerlo, di isolare e sviluppare alcune tracce.

Prima abbiamo imparato che far saltare la disciplina della grande fabbrica non è stato sufficiente per liberarci dallo sfruttamento (anni Settanta).

Poi abbiamo dovuto prendere atto che la pur imprescindibile disseminazione capillare di esperienze di autogoverno, autoproduzione e comunicazione indipendente non ha prodotto automaticamente organizzazione politica (anni Novanta).

Adesso si tratta di ragionare attorno al fatto che il potenziale accesso alle informazioni e alla comunicazione orizzontale telematica della stragrande parte della cittadinanza non genera necessariamente maggiore consapevolezza collettiva (Anni Dieci del secolo successivo).

In altre parole, questo accenno di discorso ha a che fare col modo in cui tre nessi che si rincorrono ogni due decadi – il lavoro diffuso, la creazione di istituzioni altre e la condivisione di conoscenza – vengono addomesticati e triturati in relazioni gerarchiche.

1. Parliamo di noi

Dobbiamo smetterla di fare raccontare ad altri la nostra storia, seppure per una forma di narcisismo («Parlano di me, sono proprio io»). L’interessante proliferare di archivi digitali dei movimenti è un segnale di controtendenza. Dunque, anche qui, parliamo di noi. Ma diciamo subito che non possiamo svelare tutto: What we do is secret, diceva il poeta.

Il libro di Wu Ming 1 assume i tratti dell’oggetto conturbante, l’autore si mette in discussione ad ogni pagina ma costringe a mettere in discussione anche il punto di vista del lettore. Allora diciamo subito che le sottoculture hanno i tratti della cospirazione, come se i loro adepti fossero parte di una trama oscura da proteggere, come se fossero gli unici a tramandarsi una storia, difendere spazi, diffidare di infiltrati (accusati di volta in volta di essere svenduti e/o modaioli). Per motivi generazionali o puramente stilistici, gli aderenti a una sottocultura costruiscono un sistema di simboli visibile a tutti ma in fondo solo a loro comprensibile: pillola rossa e sei dentro, pillola blu e sei fuori secondo il bivio da culto gnostico di Matrix.

Composizione poster La Q di Qomplotto

Composizione poster La Q di Qomplotto

Nei movimenti degli anni Novanta circolava uno slogan, credo provenisse dal 1977 bolognese: «Cospirare vuol dire respirare insieme». Una delle più importanti operazioni controculturali italiane prende il nome di The Great Complotto, dal quale peraltro vengono fuori alcuni futuri membri del Luther Blissett Project, una delle forme più avanzate di commistione tra avanguardia artistica pratica sottoculturale ed esperimento politico.

Non abbiamo ragionato abbastanza della relazione rischiosa, non lineare ma evidente tra sottoculture e controculture da una parte e movimenti sociali. La definisco rischiosa perché una politica senza culture underground è asfittica e priva autonomia di linguaggio, pronta a farsi ingoiare dal teatrino mainstream. Al tempo stesso, senza l’orizzonte di una prospettiva politica le sottoculture possono ridursi a fenomeno generazionale, ghetto esistenziale, al massimo a serbatoio di politiche culturali alla mercé di imprenditori del settore. Come è evidente, l’equilibrio tra le due sfere è delicatissimo, forse irraggiungibile. Ma ogni tanto questa tensione si ritaglia momenti di grazia.

Luther Blissett

Luther Blissett

Fatto sta che Wu Ming 1 per parlare di Qomplotti ha bisogno di fare un bilancio dell’esperienza del Luther Blissett Project. Scrive: «Le fantasie di complotto le avevamo studiate, le avevamo smontate e ne avevamo inventate. Per lanciare il LBP avevamo saccheggiato testi esoterici e cospirazionisti, riadattando termini e frasi adeguando al nostro scopo quegli stratagemmi retorici. In fondo, cos’era il nostro piano se non un complotto sui generis?». Quelle messe in giro dal LBP non erano fake news ma «storie complesse pensate per essere abitate».

In un testo scritto per il primo numero di Jacobin Italia, quello che con una dichiarazione programmatica radicale e senza sconti innanzitutto per noi stessi aveva annunciato di voler indagare cosa significasse «vivere in un paese senza sinistra», avevo tracciato un ritratto dell’ultimo ventennio di rivoluzioni passive a partire dall’orgia durante la quale giornalista Paolo Brosio aveva letteralmente «visto la Madonna» e prendendo le mosse dalla sveltina consumata dietro un divano della casa della prima edizione del Grande fratello con la quale il maschio alfa né di destra né di sinistra Pietro Taricone aveva sedotto gli italiani. Avevo riproposto il concetto di «doppio agghiacciante», per riadattare quanto Paolo Virno ha espresso a proposito del rapporto tra forme di vita nel postfordismo e nuovo fascismo.

Il nuovo fascismo, scrive Virno, deforma caratteristiche comuni come «l’intellettualità di massa, le spinte autonomistiche e destatalizzanti, le “singolarità qualunque”, i cittadini smaliziati della società dello spettacolo». Allo stesso modo, forse possiamo dire che il cospirazionismo è il doppio agghiacciante delle narrazioni che noi abbiamo costruito, dentro e oltre il postmoderno, dalla fine del Novecento.

Pensiamo ad esempio al movimento cosiddetto No Global: al suo interno risuonavano diversi leitmotiv cospirazionisti. L’idea che la globalizzazione fosse il nuovo ordine mondiale destinato a distruggere le culture e le identità – tipica di certa nuova destra e adesso riproposto paro paro nel libro di Giorgia Meloni – circolava anche in quel grande contenitore. Così come i tre capitoli del documentario Zeitgeist (che lancia prima di altri su scala relativamente grande il fantomatico tema del signoraggio e del complotto delle Banche centrali e sostiene tesi complottiste sull’attentato dell’11 settembre) si diffonde nel contesto culturale del movimento anti-globalizzazione, quanto meno cerca di porsi in relazione con quell’universo. Come orientarsi?

Una delle discriminanti si intravede in uno degli elementi della mappa genetica del complottismo isolato da Wu Ming 1, al quale giustamente riconosce centralità nella ricostruzione dell’evoluzione storica del fenomeno. Si tratta della costante del rifiuto della modernità: «Il mondo cambia e io non so come interpretarlo». La grande paura della Rivoluzione francese, della nuova era che andava inaugurando, generò l’antisemitismo e poi i Protocolli dei Savi di Sion, che sono la matrice di ogni racconto cospirazionista. (Gratta gratta e dietro ogni complotto spunteranno gli ebrei, intesi come esponenti per antonomasia di una cultura globale ante litteram e meticcia.

Proprio negli anni del movimento globale, tuttavia, le culture critiche postcoloniali ci hanno insegnato che non si tratta di percorrere una linea del tempo lineare, di limitarsi a decidere se bisogna andare avanti o indietro, ma che criticare la modernità significa costruire l’altermodernità, non illudersi di tornare a un mitico passato. Allo stesso modo, chi oggi rimpiange l’età aurea mai esistita degli stati nazione contro la globalizzazione fuori controllo, ricade spesso in schemi complottardi.

Questa forma di rottamazione dell’intelligenza collettiva ha ampiamente travalicato i confini politici tradizionali. Capita di ritrovarsela anche in contesti sedicenti di sinistra. Qualche anno fa mi sono imbattuto una presentazione di un saggio sulla finanza del vicepresidente emerito della Corte costituzionale Paolo Maddalena, cui era invitato tale Luciano Barra Caracciolo. Si tratta di un magistrato del Consiglio di stato già consulente di Berlusconi e sottosegretario agli affari europei nel governo M5S-Lega. Oggi si presenta come antiliberista, ma è quello che oggi chiameremmo – con un eufemismo – sovranista. Barra Caracciolo spiegava il dominio della finanza con un mix di autori trasversale e sincretistico (persino i poveri Marx e Gramsci). Ma il suo ragionamento sfocia nel cospirazionismo quando sventola la famigerata Hazard Circular, una lettera inviata da un banchiere inglese a un banchiere di New York nella quale si pianificava il progetto della finanza globale per dominare il mondo. Il documento risalirebbe al 1862, nel bel mezzo della guerra di secessione.

Facendo una breve ricerca ho scoperto che si tratta di un caposaldo del cospirazionismo, una storiella inventata che risale alla lotta degli schiavisti contro gli abolizionisti, un modo per rimpiangere le care vecchie fattorie coi campi di cotone e gli zii tom che sono state spazzate via dal liberalismo. Il vero archetipo del feticcio di una supposta economia reale vs speculazione finanziaria. Ovviamente nessuno in sala o al tavolo dei relatori – tra i quali stimati intellettuali di sinistra – si alzò per dissentire. Probabilmente più per negligenza che per inettitudine.

Verdigliun

Verdigliun

Oltre alla nostalgia for an age that never existed – col corollario del rimpianto per il caro vecchio stato nazionale, dove entrambi i termini, sia stato che nazione, sono feticci – La Q di qomplotto individua un altro fattore scatenante le narrazioni complottiste: è la fascinazione esoterica che scaturisce dal riflusso, dal ritorno al privato, dalla cultura del narcisismo, dal fatto che qualcuno decida che se non è possibile cambiare il mondo allora bisogna cambiare sé stessi. È così che il desiderio diventa consumo, la cura di sé diventa body building, Deleuze e Guattari diventano Verdiglione, la liberazione diventa libertinaggio (e/o liberismo), la critica della scienza diventa la cura Di Bella e così via. Questo calderone riproduce una forma di new age e genera l’antiscientismo piccolo-borghese che è facile individuare in certe correnti antivacciniste.

2. Helter skelter

Una volta appurato che questa storia ci riguarda molto più di quanto crediamo, non possiamo procedere senza riconoscere gli Stati uniti come terra di incubazione del complottismo postmoderno: dal maccartismo a Qanon. Tracciando il genoma del cospirazionismo Wu Ming 1 fa riferimento allo schema millenarista fondativo degli Stati uniti: lo sbarco dei padri pellegrini. Mi pare che nel corso del Novecento gli Usa siano stati il laboratorio di Wuhan delle più attuali forme di fondamentalismo reazionario.

Alcuni hanno notato come Ronald Reagan nel bel mezzo della controrivoluzione neoliberista citasse spesso il tema dell’Apocalisse nei suoi discorsi. Nel pieno degli anni Ottanta, quando la guerra contro l’Impero del male era quasi vinta e l’ottimismo edonista era la cifra dominante, il presidente-attore utilizzava quella matrice oscura e spaventosa, parlava del fatto che ci sarebbe stata una catastrofe e che pochi eletti ne sarebbero usciti per costruire un mondo nuovo. Solo in pochi sono in grado di riconoscere la vera trama delle cose che accadono e solo questi pochi si salveranno. Da questa narrazione esoterica al cospirazionismo il passo è brevissimo.

Locandina Wild Wild Country

Locandina Wild Wild Country

Da alcuni anni l’industria culturale statunitense sembra essersi accorta di questa specificità: in forme diverse le narrazioni seriali hanno affrontato il tema delle sette nate dopo la fine del movimento per i diritti civili degli anni sessanta. Non si limitarono a occuparne lo spazio ma ne ripresero temi e forme di vita. Mi riferisco a Wild Wild Country (la serie documentaria su una tranquilla provincia Wasp colonizzata dal settlement del novello padre pellegrino new age Osho), a Charles Manson (che peraltro assume un ruolo non indifferente in C’era una volta a Hollywood di Quentin Tarantino), alla serie sul massacro di Waco ai danni dei seguaci di David Koresh, al reverendo Jim Jones, attorno al quale stanno lavorando da tempo gli autori di Breaking Bad.

Nella gran parte di questi casi i santoni di turno compiono un atto costituente per eccellenza, impossibile da interpretare senza ricorrere alle categorie del politico: fondano una città. Il caso del reverendo Jones è particolarmente significativo, me ne occupai anche su uno degli ultimi numeri della rivista Letteraria. La storia della setta che culmina nel più esteso fenomeno di suicidio di massa dell’epoca contemporanea e che almeno ai suoi inizi ha flirtato con il radicalismo è stata negli Usa nel corso degli anni al centro di una vera e propria ossessione narrativa. Su Jonestown sono stati scritti saggi, memoir, centinaia di inchieste. Eppure continua a perturbare, a stuzzicare l’inconscio collettivo nel profondo.

Il passaggio successivo, appuntato anni fa nel quaderno dei libri da scrivere, è stato: possiamo applicare nel contesto italiano questo schema? Se la crisi del movimento statunitense e il fallimento della ricerca di un altrove costituito dalle comuni hippies hanno prodotto la forma-setta, che cosa è successo nel nostro paese, negli anni del riflusso in cui si svolge la storia de Il Pendolo di Foucault?

La risposta che mi sono dato è: il santone che raccoglie le tensioni e le contraddizioni di quella fase, che fonda una città, è Vincenzo Muccioli. Il quale ha un passato da medium e organizzatore di sedute spiritiche, poi trova il modo di esercitare il suo carisma costruendo relazioni gerarchiche e al tempo stesso comunitarie con i tossicodipendenti, viene utilizzato in una fase di passaggio politico – nonostante evidenti problemi di natura etica e penale – come uomo-simbolo della lotta al male. Il successo e il dibattito suscitato dalla serie Sanpa, in qualche modo, conferma la necessità di mettere mano a quel rimosso.

Testata serie Sanpa

Testata serie Sanpa

3. Capitale e linguaggio

Virno dice che il moderno fascismo è il nostro doppio agghiacciante anche perché, come i movimenti contemporanei, «ha la sua radice nella distruzione della sfera lavorativa in quanto ambito privilegiato della socializzazione e luogo di acquisizione dell’identità politica».

È nota ormai la corrispondenza diretta tra la fine del fordismo e la fine degli accordi di Bretton Woods: mentre la grande fabbrica perdeva la sua centralità in luogo di una produzione estesa a tutta la vita e sparsa lungo tutto il pianeta, l’emissione di moneta non era più vincolata alle riserve auree. Era libera di scorrazzare per le strade telematiche della speculazione finanziaria. I futures erano un modo di mettere le mani sul futuro. L’economista Christian Marazzi ha spiegato come la svolta linguistica della produzione cui ha corrisposto la svolta finanziaria dell’economia abbia generato meccanismi finanziari basati sulla comunicazione. Mentre il dollaro veniva sganciato dal rapporto con l’oro, la comunicazione diventava un processo autoriferito.

Non si tratta di rivendicare una qualche distinzione tra reale e virtuale, sappiamo bene quanto queste sfere siano intrecciate e come il linguaggio e la comunicazione abbiamo effetti immediatamente concreti, performativi. Si tratta piuttosto di riconoscere che anche i fenomeni politici vivono quasi esclusivamente dentro la sfera egoriferita ed autoreferenziale della comunicazione e dello spettacolo. Fratelli d’Italia vola nei sondaggi ma non ha una persona da candidare a sindaco della capitale del paese. Se ne trovano anche alla sinistra della sinistra: quelli che ripescano feticci novecenteschi e rinfacciano chi cerca di stare coi piedi dentro la contemporaneità del postmodernismo sono i veri adepti del pensiero debole e della comunicazione prima di tutto, a ben vedere devoti alla forma di vita neoliberali e neotelevisive.

Parlando di finanza, Marazzi dice che «l’efficacia del linguaggio performativo dipende dalla legittimità di chi lo enuncia, dipende insomma dal potere e dalla forma giuridica di chi parla». La crisi economica è crisi di legittimità degli attori istituzionali, la loro incapacità di indirizzare i processi finanziari, orientare i flussi borsistici. Ma se anche in politica si scatena un processo di de-legittimazione tale per cui un anonimo Q – per di più forse col l’intenzione di prendere per il Qulo i complottisti – è in grado di innescare un processo planetario, allora abbiamo la dimensione della crisi che si estende alla politica. Marazzi ricorda che John Maynard Keynes, uno che di crisi se ne intendeva, chiamava convenzione «l’opinione che in un determinato periodo ha la meglio sulla molteplicità delle opinioni e che, in quanto ‘eletta’ dalla comunità, diventa opinione pubblica». E poi si domanda: «Quale è e come si impone storicamente il modello di interpretazione dei “fatti”?»

4. Ognuno risponde a un Qanon

Siamo arrivati al rapporto con il linguaggio della politica e col dibattito pubblico in Italia. Anzi, col linguaggio in generale. Leggendo La Q di Qomplotto ci si rende conto che il modo in cui si diffondono i complotti, il linguaggio che li veicola e il contesto che li accoglie, non riguarda soltanto il cospirazionismo in senso stretto. L’oggetto dell’analisi di Wu Ming 1 è un modo per raccontare il contesto, riguarda più in generale il modo in cui si struttura oggi l’arena e il confronto delle idee.

Locandina X Files

Locandina X Files

Wu Ming 1 cita Michael Barkun e il suo saggio A Culture Of Conspiracy non dicendosi convinto di una categorizzazione dei diversi modelli di complotto. A me pare rilevante però che Barkun individui il momento di passaggio, il divenire pop del cospirazionismo (la definizione è mia), al momento del debutto della serie televisiva X Files, uscita per la prima volta nel 1993, l’anno dell’insediamento di Bill Clinton, dell’entrata in vigore del Trattato di Maastricht e dello scioglimento della Dc.

Quella serie segna una svolta, in due sensi. Perché la galassia di narrazioni cospirazioniste entrano ufficialmente a far parte della cultura pop. E soprattutto perché sotto il grande cappello della congiura del silenzio attorno allo sbarco degli alieni (sono tra di noi!) si vanno componendo tutte le altre storie cospirazioniste che da anni popolano l’immaginario dell’americano medio allergico all’invadenza dello stato e spaventato del mondo circostante. Dopo X Files, il complottismo smette di essere una sola grande narrazione coerente ma diventa un collage di narrazioni. Secondo un processo con l’ingresso delle masse in quanto tali nella sfera digitale si diffonde in maniera esponenziale. Se con Bernard Manin parliamo di democrazia del pubblico, e della comunicazione che prende il posto dell’organizzazione, allora dobbiamo capire a che tipo di pubblico ci riferiamo.

Con la fine della televisione generalista i media digitali inseguano la sommatoria delle tante nicchie di audience; allo stesso modo la nuova politica sembra riuscire a federare diverse congetture senza essere costretta a farne una sintesi coerente. Allo stesso modo in cui le piattaforme digitali costruiscono diversi canali e assecondano le differenze che costituiscono la platea degli utenti, il politico che lucra sul complottismo – o che ne usa i frame – moltiplica le sue parole d’ordine mettendo insieme concetti che provengono da diverse culture politiche e sensibilità. Si dirà che in politica le contraddizioni sono destinate a venire al pettine. Ma un’altra caratteristica tipica della piattaforma digitale per eccellenza, Facebook, mostra come le nicchie di audience difficilmente interagiscano tra loro, si scontrino. Puoi sostenere il Venezuela chavista ed apparire in una bolla come terzomondista e in un’altra come nazionalista con una riverniciata di socialista.

È ormai noto che il social network di Zuckerberg tende a restringere il campo delle nostre relazioni attorno alle affinità più strette: l’algoritmo seleziona le interazioni e ci sottopone solamente gli aggiornamenti di chi è considerato più consono alle nostre caratteristiche. È in questo modo che il cospirazionismo costruisce narrazioni on demand, plasmate sull’attività in rete del singolo (e atomizzato) consumatore. Ognuno è libero di credere alla sua versione di fatti, di ricombinare i frammenti di tweet, meme e post in modo che il suo convincimento ne esca rafforzato. Ci si informa per avere più frecce all’arco della propria idea pregressa, non per mettersi in crisi.

È in questo modo che la bolla si allarga, perché siamo tutti al lavoro per Qanon, ognuno di noi ha un Qanon che gli indica una direzione vaga eppure rassicurante e lo invita a mettersi alla ricerca della verità destinata a pochi eletti. Do your own research. Ed è in questo modo che, giusto per avere un riferimento, il partito che negli ultimi dieci anni ha conquistato la maggioranza del paese, il Movimento 5 Stelle, è riuscito a rastrellare voti sia a destra che a sinistra. Il giochetto è finito quando hanno capito che per sopravvivere dovevano per forza stare al governo, ma questa è un’altra storia.

Il cerchio si chiude con la mutazione di Facebook, non solo del suo algoritmo ma anche della sua ideologia, della sua dichiarazione programmatica. Nella prima fase di Facebook, Mark Zuckerberg annunciava – e la cosa incredibile era che questo intento ai più non pareva manco così assurdo – di voler portare pace e concordia nel mondo: tutti saremmo diventati amici nel Villaggio globale digitale, a furia di scambiarci messaggini e condividere meme! Nel 2017, dopo che il mito di Facebook e della rete come macchina in grado di diffondere intelligenza e armonia era stato incrinato dalla vittoria alle elezioni presidenziali statunitensi di Donald Trump, da Menlo Park hanno corretto il tiro. Così, come ha spiegato Antonio Casilli, hanno divulgato un manifesto nel quale si immagina una società fatta di tante piccole comunità (le bolle) che si mettono in relazione grazie alla infrastruttura Facebook. Il social network non garantisce che tutti siamo più buoni, ha smesso di promettere cose del genere. Ma consente di chiudersi in comunità per proteggersi dai cattivi. Ergo, da un micragnoso ottimismo digitale, dall’uso strumentale di retoriche liberal sulla open society e l’accesso ai saperi, siamo passati ad una evidente prospettiva libertariana di destra.

Dunque: c’è il comunitarismo di cui parlavamo all’inizio a proposito delle sette (ricostruisco «popoli», ma dall’alto), c’è il feticcio del confine e della perimetrazione delle relazioni sociali (quel genere di cose di cui ci hanno insegnato a diffidare il movimento delle donne e i migranti, per intenderci), c’è la svolta sfacciatamente reazionaria e sempre più commerciale delle piattaforme digitali. È un’ottima rappresentazione di come funziona il potere oggi: invenzione arbitraria di confini che vengono fatti passare per naturali, produzione di ghetti e imposizione di gerarchie. Il tutto per ritagliare spazi colonizzabili dal mercato, al fine di favorire lo sfruttamento. Sembra quasi un complotto!

* Giuliano Santoro lavora al manifesto, è redattore di Jacobin Italia ed è autore di diversi libri tra cui Al palo della morte. Storia di un omicidio in una periferia meticcia (Alegre, 2015).

Nuove recensioni e interviste

■ Su Psychiatry On Line densa recensione de La Q di Qomplotto a firma di Michele Ancona.

«Una lucida e densa storicizzazione di fatti contemporanei e dei nuclei sintomatici che da secoli attraversano il mondo occidentale. In molti punti si ha la sensazione di soffocare, di esserci dentro e di non sapere più come uscirne. Un libro che prende a schiaffi il lettore mettendolo davanti a una realtà in cui anche il corpo è ridotto a un fantasma […] La proposta di Wu Ming 1, in sintesi, è quella di una riappropriazione del corpo attraverso una rivoluzione sistemica che non passi per il social media ma per le piazze, che rimetta al centro il desiderio e non il godimento, che liberi i corpi da un sistema di produzione masturbatorio, narcotico e preconfezionato e assolutamente compatibile con la nascita dei vari totalitarismi.»

■ Su Global Project una recensione travestita da finta recensione travestita da altro ancora svela il complotto de La Q di Qomplotto. Si intitola «Manoscritto trovato in zona Dozza». Il riferimento è ambiguo: si tratta del carcere di Bologna, che è appunto nella parte di periferia bolognese nota come «la Dozza», oppure di Dozza, il borgo appenninico dove ha il proprio quartier generale l’Associazione Italiana Studi Tolkieniani? Forse la risposta si trova tra i solchi di un album di Roberto Vecchioni, un album che a un certo punto compare nel libro…

«Iniziamo la nostra disamina ricordando che da mesi oramai il collettivo Wu Ming rilascia interviste e scrive analisi in cui afferma che i primi messaggi apparsi in rete a firma “Q” siano da attribuire a Qualcuno che si è ispirato al celebre romanzo del 1999 ed alle scorribande del collettivo Luther Blissett. Queste dichiarazioni sono servite naturalmente per preparare il campo e per iniziare a “mostrare la sutura”, come dicono loro. Ma tutto questo non è stato fatto in maniera troppo esplicita perché, per loro stessa ammissione, ad un certo punto Q è stato sottratto ai suoi creatori ed ha preso tutt’altra direzione. Andando ad elementi più specifici abbiamo contato ben 66 pagine, tutte multiple di 6, in cui le iniziali delle prime tre parole con cui si inizia il primo paragrafo sono SSN, ovvero: Siamo Stati Noi. Questo è un sistema di comunicazione in codice piuttosto comune nei testi antichi che sicuramente sono stati letti dall’autore per scrivere La Q di Qomplotto

■ Su Civiltà Laica Alessandro Chiometti aka AlexJC recensisce La Q di Qomplotto e pone un paio di questioni sulle quali WM1 risponderà qui in calce, con calma, tempo al tempo, prima leggete la recensione (e tutto il resto che vi proponiamo qui). WM1 farà una riflessione anche sul titolo scelto da Alex per il proprio post.

«Abbiamo particolarmente apprezzato: la genesi di come è stato possibile arrivare a questo, dalle fantasie di complotto sui Beatles e Paul is Dead alla fluororazione delle acque potabili e di come l’inettitudine degli stessi democratici (il famoso scandalo delle mail di Clinton) abbia aiutato; la chiamata in causa di Umberto Eco e il suo Pendolo di Focault che nella “sintesi” proposta ci è piaciuto da impazzire e ora quel tomo ci guarda da sotto la polvere raccolta in libreria in molti anni ghignando sommessamente ogni giorno che gli passiamo davanti ci ricorda quanto siamo sciocchi a non leggerlo; riteniamo infine straordinaria la ricostruzione “onirica” della “linea del sangue” al di qua e di là dell’Atlantico, dal Beato Simonino di Trento fino a Bibbiano passando per presunti satanisti sempre scagionati, spesso dopo tante sofferenze e mesi di carcere ingiustificato come è successo a Bologna per Marco Dimitri e i “Bambini di Satana”.»

■ Una densa intervista in due puntate su La Q di Qomplotto inaugura il podcast di un nuovo progetto, Conspiracy Games and Counter Games, «a research & intervention project about conspiracism in a gamified capitalist world», a cura di Aris Komporozos-Athanasiou, A. T. Kingsmith e Max Haiven.

L’intervista si intitola «The Q in Qonspiracy: Narrative, Games and Other Conspiracies» e si può ascoltare qui.

Calendario aggiornato delle presentazioni, giugno 2021

La Q di Qomplotto - copertina

La Q di Qomplotto - copertina

Venerdì 4 giugno
SIENA
h. 18, Corte dei Miracoli
via Roma 56
con l’autore dialogheranno
Maria Cristina Addis, Rossella Borri, Alberto Prunetti
e Tommaso Sbriccoli.
ATTENZIONE: POSTI ESAURITI.

Venerdì 11 giugno
REGGIO EMILIA
h. 18, Casa Bettola
via Martiri della Bettola 6
Per prenotazioni: 3316403513
Dettagli a seguire.

Giovedì 17 giugno
BOLOGNA
h. 18:30, Giardino del Guasto
via del Guasto 1
Presentazione congiunta de La Q di Qomplotto
e di Favole del reincanto di Stefania Consigliere
Partecipa l’antropologa Cristina Zavaroni.
A cura della libreria Modo Infoshop.
Non è necessario prenotare.

Domenica 20 giugno
ROMA
Festival Contrattacco
SCuP!, via della Stazione Tuscolana 84.
Programma completo del festival a seguire.

Mercoledì 23 giugno
PISOGNE (BS)
h 20.30, Piazza Vescovo Corna Pellegrini
Nell’ambito del Festival Terre dell’Ovest
(sistema interbibliotecario Brescia Ovest)
Organizzato con Libreria Puntoacapo / spazio STORiE.
Per prenotare: p.toacapo@gmail.com

Mercoledì 30 giugno
CESENA
h. 20, Magazzino Parallelo
via Genova 70.

Tra le date già fissate e quelle “orbitanti” il calendario è purtroppo già chiuso. A luglio Wu Ming 1 “staccherà” completamente. Sarà necessario recuperare le energie, dopo la collettiva tirata finale per La grande ondata del ’78. Il lavoro sui due libri non ha praticamente avuto soluzione di continuità. A luglio e agosto niente presentazioni né alcun altro impegno pubblico. Il piccolo tour riprenderà a settembre e finirà a metà ottobre.

Per ora è tutto. Da qui al prossimo speciale, aggiornamenti sul nostro canale Telegram, qui.

La Q di Qomplotto è in libreria ed è anche ordinabile dal sito delle Edizioni Alegre.

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