“In questo mondo l’incuria regna sovrana.” Così comincia il libro “Manifesto della cura” scritto a più mani dal “Care Collective” nato nel 2017 a Londra.
Viviamo, infatti, in un mondo dominato dall’incuria, perché l’incuria rende e – al contrario – la cura costa. Soldi, risorse, tempo, fatica e spazio.
Si tratta di un libro implicitamente (e anche esplicitamente in certi punti) anticapitalista perché già nelle prime pagine ci viene descritto un panorama chiaro, i cui vari elementi compaiono davanti a noi distinti contro l’orizzonte: lì a sinistra ecco quindi una enorme fabbrica che avvelena fiumi e terreno, mentre a destra si staglia un ospedale malconcio, dove mancano respiratori e attrezzature, poi, un po’ più in fondo, un grumo di persone senza documenti, schiacciate contro la rete di un confine costruito da qualcun altro. E più si segue la descrizione di questa incuria dilagante più ci si rende conto che ad ogni livello ne siamo coinvoltə: dai rapporti di vicinato alla politica istituzionale. Il paradosso che ci troviamo ad affrontare è che chi davvero dipende dai servizi di cura su più livelli sono i più ricchi, mentre ai poveri è richiesta una costante dimostrazione di autonomia e indipendenza, perché si sa che nella vita se sei povero è perché non ti sei impegnato abbastanza.
Contrapporre quindi al mercato neoliberale un’economia della cura basata sul benessere delle persone e non sul profitto è parlare di redistribuzione e di bisogni, di giustizia sociale e di disvelamento dei ruoli imposti dalla razzializzazione e dal patriarcato.
Il “Manifesto della cura” è quindi necessariamente un libro femminista perché apre alla necessità di un dibattito sui nostri ruoli e sui nostri privilegi. Dopo aver descritto una tragica situazione semi-apocalittica indica un’ipotesi di salvataggio, e questa ipotesi non è timida, ma estremamente rivoluzionaria e per questo difficilissima da applicare (l’avete mai vista voi una rivoluzione semplice?).
La cura scardina tutto: instaurare dei legami di cura significa uscire dal bozzolo della famiglia tradizionale per sperimentare altri tipi di relazioni, ammettere la necessità della cura reciproca significa sfatare quel mito dell’autonomia autoimposto che ci fa pensare di dover necessariamente diventare superuomini virili e indipendenti a tutti i costi, prenderci cura di chi ha una necessità e fare in modo che tuttə abbiano la stessa possibilità di scelta sulla propria vita è fare il mondo un po’ più giusto, riconoscere che la cura può essere un peso e comprendere le criticità dei legami di codipendenza deve portarci ad un comune senso di comunità, a cui è necessariamente legata la nostra sopravvivenza e prosperità.
Partire dalla cura “come principio organizzatore delle nostra società” significa riconoscere l’altrə come un possibile destinatario di cura, e contemporaneamente come un possibile “datorə di cura”. Riconoscere che il lavoro di cura, appaltato alle donne per secoli, sottopagato e predestinato a chi “è buono solo per quello” perché stranierə o non abbastanza istruitə, nascosto come polvere sotto il grande tappeto della produzione di profitto, è un lavoro essenziale, che andrebbe equamente distribuito e sostenuto, che andrebbe finanziato e incrementato, che andrebbe pagato adeguatamente e chi lo fa dovrebbe essere supportato anche dal punto di vista psicologico. Questo sarebbe forse il minimo, la base da cui partire.
Il “Manifesto della cura” è sicuramente un libro pratico, che cita esempi concreti di costruzione di comunità di cura con risvolti reali sul territorio e sulle persone. È un libro che parla di beni comuni e di spazi di autogestione, parla di partecipazione democratica e di decisionalità assembleare, perché riconosce nei legami relazionali l’unica soluzione alla solitudine dell’incuria. Sapersi accanto e legatə, riconoscersi interdipendentə e prendersi cura della comunità.
Il “Manifesto della cura” è sicuramente un libro teorico, nella proposta di rivoluzione globale a livello economico e politico: non esistono ancora stati, partiti e forze politiche che si muovono verso l’abbandono dello stato sociale neoliberale in favore di uno stato della cura, tantomeno che possano avere in testa un’idea di cura universale tanto ampia come quella descritta nel libro. Ma in aiuto ai sogni delineati dagli autori e dalle autrici arrivano i movimenti sociali, che tra esperienze passate e attuali, influenzate e, a volte, accelerate dalla pandemia di Coronavirus, mostrano la via.
Aiuta, forse, questo libro, ad inquadrare quel vasto mondo che è “il volontariato” e a muoversi verso una sua “politicizzazione” che possa quindi portare sempre più persone a rivendicare programmi elettorali e progetti concreti basati sulla politica della cura piuttosto che su quella del profitto. Lo schiacciamento del terzo settore sotto il peso della pandemia è stato evidente in questo anno e mezzo, la reazione purtroppo non è stata egualmente commisurata. In molti casi le associazioni e le realtà organizzate dal basso hanno tolto le castagne dal fuoco a comuni e istituzioni governative, prendendosi in carico persone che altrimenti sarebbero state in carico ai servizi sociali. E se spesso questo lavoro è basato principalmente sul “buon cuore” è necessario riconoscere che ha bisogno di finanziamenti e strutture di comunità su cui basarsi.
Dice Naomi Klein del “Manifesto della cura”: “è un brillante invito a trasformare la nostra economia e la nostra società, una mappa per capire come uscire fuori da crisi che si affastellano le une sulle altre e dare forma ad un nuovo tessuto sociale. L’etica della cura universale è l’antidoto alla spirale di incuria che il sistema attuale mostra di avere per le persone e il pianeta. Gli autori e le autrici ci dicono che la cura non è un bene: è una pratica, un valore fondamentale e un principio organizzativo sulla base del quale possono e devono sorgere nuove politiche”.
Ci prendiamo cura delle persone, degli spazi comuni e dell’ambiente attorno a noi solo se riusciamo a riconoscerci come parte di un tutto, connesso da relazioni di interdipendenza e responsabilità. All’interno di questo Manifesto si prova a delineare un modo per farlo, e che ognunə possa metterci del suo.
Dalla lettura di questo libro e dall’analisi della situazione attuale nascono per i movimenti sociali una miriade di dibattiti e di questioni, dalla rete di associazioni padovane “All You Can Care – Prendiamoci cura dei nostri quartieri” è nata quindi l’idea di un incontro che metta a valore le tematiche citate e le azioni svolte in questo anno di pandemia. Ne parleremo il 29 giugno all’interno di Sherwood Festival con Marie Moïse che ha tradotto in italiano il “Manifesto” e con Jennifer Guerra che ne ha scritto la postfazione.