di Luca Martinelli (Altreconomia)
“Gli utili in eccesso derivanti dalla fornitura dei servizi sono quasi interamente distribuiti tra gli azionisti delle società private sotto forma di profitti e dividendi. Questa pratica ha un impatto negativo sugli investimenti in manutenzione e sull’estensione dei servizi per quei cittadini non serviti o scarsamente serviti”. Sono parole del professor Pedro Arrojo-Agudo, emerito di Analisi economica all’Università di Saragozza e vincitore nel 2003 del Goldman Environmental Prize (il “Nobel” per l’ambiente). Dal novembre del 2020 è Relatore speciale delle Nazioni Unite per il diritto umano all’acqua e ai servizi igienici e queste frasi le ha pronunciate poche mesi dopo, quand’è stato intervistato da Duccio Facchini, direttore di Altreconomia, nel febbraio del 2021. L’analisi di Arrojo-Agudo non suona affatto nuova a quanti hanno preso parte alla campagna referendaria “2 sì per l’acqua bene comune”, prima nella primavera del 2010 (raccolta firme) e poi in quella successiva, nella vera e propria campagna elettorale, quella verso il voto.
Solo che oggi posizioni come la sua riescono a far breccia anche in ambienti mainstream. Lo stesso Arrojo-Agudo, intervistato dal bravo giornalista Emanuele Bompan per Green&Bleu (Gruppo GEDI) il 5 giugno 2021 – in occasione della Giornata mondiale dell’Ambiente – ha risposto alla domanda “ancora oggi però si fa pressione per investimenti da parte del settore privato” in questo modo: “Si tratta di investire invece fondi pubblici. L’acqua e i servizi sanitari sono la chiave di volta della sanità, senza questo servizio di base si rischiano malattie gravi ed elevati costi sanitari. Ma questo intervento risiede in mano al pubblico. Esiste evidenza che gli investimenti privati nel settore idrico non hanno funzionato, lo aveva chiaramente mostrato anche il mio predecessore Léo Heller, nell’ultimo report Onu sull’acqua”.
Ripetiamocelo: esiste evidenza che gli investimenti privati nel settore idrico non hanno funzionato. Lo afferma il Relatore speciale della Nazioni Unite per il diritto speciale all’Acqua, non il nostro Forum italiano dei movimenti per l’acqua. Eppure, o forse proprio per questo, nel corso del 2020 si è arrivati a superare ogni confine nella finanziarizzazione dell’acqua, andando quotare il bene a Wall Street: a dicembre dello scorso anno CME, azienda USA specializzato nello scambio di future (contratti a termine) e strumenti derivati, ha inaugurato The Nasdaq Veles California Water Index futures. L’acqua è una commodity.
Dispiace, anche in questo caso, dover constatare che quando dieci anni fa durante le migliaia di iniziative e confronti in tutta Italia per la nostra meravigliosa campagna referendaria denunciavamo non la privatizzazione ma la finanziarizzazione del servizio idrico integrato venivamo sbeffeggiati da buona parte dell’arco costituzionale (cioè dai rappresentanti di quasi tutti i partiti oggi rappresentanti in Parlamento. C’era chi, addirittura, si permetteva di affermare che fossero pubbliche le società quotate in Borsa ma in cui l’azionista di riferimento con il cinquanta per cento più azione era ancora pubblico (o un insieme di soggetti pubblici). Insieme all’amico Luca Faenzi nel 2010 e nel 2011 abbiamo coordinato le attività di comunicazione e di relazione con gli organi della stampa. E se ricordo ancora oggi la sera del 13 giugno 2011, i suoi occhi spiritati mentre in diretta al Tg3 gridava a Bianca Berlinguer in studio che “avevamo vinto noi” e non Pierluigi Bersani, è perché solo lui sa la difficoltà di far breccia con questi temi, di far sì che i colleghi giornalisti si prendessero la responsabilità di affrontare la “complessità” che il disposto combinato (per usare un lemma che poi sarebbe diventato famoso) dei due quesiti referendari poneva. So bene, però, che la qualità del lavoro della stampa è – se possibile – peggiorato da allora, al pari di quello della classe politica. Se devo provare a leggere ciò che è stato il 2011 in un fatto recente della storia economica del nostro Paese, non posso che pensare all’affaire Autostrade, iniziato con il crollo del Ponte Morandi nell’agosto del 2018 solo perché l’Irpinia resta la terra del Terremoto del 1980 e un viadotto che collassa sull’A16 (nel 2013) fa meno rumore nonostante i 40 morti.
Le autostrade sono, al pari degli acquedotti, degli impianti di fognatura e dei depuratori, dei monopoli naturali: come non ha senso che esistano due reti a servizio di una città, così non ha senso che ci siano due autostrade a collegare due città (come dimostra il fallimento della BreBeMi, la Brescia-Bergamo-Milano parallela all’A4). In Italia, alla fine degli anni Novanta, le autostrade sono state privatizzate. Tra i gestori, il principale si chiama Autostrade per l’Italia e fino al giugno del 2021 era controllata da Atlantia, holding della famiglia Benetton. Siccome il Ponte Morandi era gestito da una concessionaria della famiglia Benetton, la finta soluzione a una “crisi di sistema” è stato l’allontanamento della famiglia Benetton dall’azionariato di questa concessionaria, con l’ingresso di Cassa depositi e prestiti insieme ad alcuni fondi d’investimento. Qualcuno, anche nella maggioranza di governo (M5S) ha salutato questa operazione come un successo, parlando addirittura del ritorno dello Stato in Autostrade. Cassa depositi e prestiti, però, non è un soggetto pubblico, perché è una società per azioni, un soggetto di diritto privato il cui capitale è partecipato anche da fondazione bancarie, come sa bene chi segue le attività di Attac e legge il Granello di Sabbia (o ha avuto in mano a suo tempo il libro che ho scritto a quattro mani con Antonio Tricarico, La posta in gioco, uscito per Altreconomia).
Photo Credits: “La Madia te li porta via!” – Parco del Valentino, Torino 11 giugno 2016 – Comitato acqua pubblica Torino
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 47 di luglio-agosto 2021: “20 anni di lotta e di speranza“