di Emilio Molinari (Ambientalista e storico attivista dei Movimenti per l’Acqua)
Sono passati 10 anni da quando gli italiani e le italiane, chiamati/e alle urne da uno straordinario movimento dal basso, dissero NO alle centrali nucleari nel nostro paese e, questa era la grande novità, che il servizio idrico in Italia doveva tornare pubblico, locale e non generare profitti.
Tornare pubblica…molti se lo saranno scordato e i giovani manco lo sanno, ma l’acqua dei rubinetti era pubblica e solo nel 1992 quando, accompagnata da delitti e misteri all’italiana, è iniziata la seconda repubblica con le privatizzazioni: dalla sanità ai servizi pubblici locali. Su questo la politica si è omologata e la stampa pure, diventando un muro che solo un movimento di cittadini e un referendum incrinarono.
Proprio così e, dietrologia per dietrologia, è in quel passaggio del 1992, cosi denso di avvenimenti, che al largo delle coste italiane navigava il Britannia, la nave dei regnanti inglesi, con a bordo i grandi potenti occidentali che discutevano del nostro paese e di come liquidarne il patrimonio pubblico…relatore, se ben ricordo, era un giovane Mario Draghi.
Già, quel Draghi che oggi è al governo con due tecnocrati a fianco e una agenzia finanziaria internazionale come Mac Kinsey (che fa parte della lobby idrica mondiale Water Resource), che gli supervisiona la madre di tutti i piani: il PNRR, piano nazionale di ripresa e resilienza.
Odio la parola resilienza.
Oggi celebriamo trent’anni di agonia della politica e la sua resa incondizionata. Compresi i 5 Stelle, che pur sembravano rappresentare una qualche contraddizione, clamorosamente e platealmente arresi su tutto.
Non cercherò luci ed ombre nel PNRR. Permettetemi di definirlo come il dispiegarsi di una restaurazione. Nulla è risparmiato: l’ambiente, l’occupazione e il lavoro, la giustizia, la corruzione negli appalti, la fiscalità, il dilagare del cemento….la Confindustria che parla come i padroni delle ferriere e la cultura della mercificazione del bene pubblico e comune che è l’asse della transizione ecologica.
Concetti nuovi: la “governance”, i partenariati pubblico/privati, l’aziendalizzazione – azienda idrica, azienda sanitaria, azienda scolastica…azienda Italia – diventano ideologia. Non siamo più cittadini/e, membri di una comunità, destinatari di diritti imprescrittibili, ma clienti di una azienda e di un mercato. L’aziendalismo, i managers, sono diventati la forma di governo sostitutivo della democrazia rappresentativa a tutti i livelli. I partiti spariscono, su questo sono omologati.
E’ questo che si legge nel PNRR a proposito di servizio idrico: una specie di soluzione finale del servizio pubblico e anche delle SPA in house. Al servizio idrico integrato vengono destinate delle briciole.
In un paese, che perde e spreca il 42% dell’acqua, si destinano 3,5 miliardi per reti idriche fognarie e depuratori chiamati “fabbriche verdi”. Però si pensa a 1000 nuovi invasi. Si va attingere acqua fin sotto i ghiacciai che stanno sparendo, la si imprigiona e la si privatizza.
E i finanziamenti vanno alle aziende, bypassando i comuni che non sono più considerati gestori, ad aziende in possesso di tecnologie integrate con la produzione energetica, il rifornimento all’agricoltura, i rifiuti, i termo-valorizzatori ecc… In una parola le mani di Enel, Eni, Snam, Terna, Veolia/Suez e A2A, Acea, Iren Hera, a governare la transizione ecologica complessiva: il passaggio all’idrogeno blu da metano, le rinnovabili, la mobilità elettrica, e domani l’idrogeno verde. Una transizione che ha fame di acqua, di terra e di energia elettrica.
Il referendum ignorato e la durezza dello scontro che si profila per il movimento, vanno letti alla luce di questo passaggio restaurativo post Covid, assieme alla quotazione in borsa dell’acqua in California che si mette alla testa della mobilità elettrica e dell’idrogeno, a Bolsonaro che mette in vendita gli acquiferi, allo scontro in Cile per la nuova Costituzione dopo che Pinochet aveva costituzionalizzato la vendita dell’acqua.
Qualcosa annulla la storia. Qualcosa di nuovo e contemporaneamente un ritorno all’indietro, a riproporre i combustibili fossili, le trivellazioni, il teleriscaldamento, le colate di cemento, le grandi opere inutili e dannose.
Una sconfitta del movimento? Non userei la parola sconfitta, non l’ho mai usata.
Il movimento dell’acqua c’è ancora e ha tenuto viva la fiammella di quella incredibile presa di coscienza popolare di dieci anni fa. Malgrado tutti i tentativi, non c’è stato un ulteriore ingresso di privati e, quando si riesce a raggiungere la gente comune, si scopre che l’idea che l’acqua possa finire nelle mani di multinazionali e società finanziarie trova sentimenti di ripulsa trasversali.
I movimenti altre volte hanno vinto da soli o con piccole forze politiche di opposizione. Negli anni 80 i movimenti fermarono il nucleare e in Lombardia, a Tavazzano e Bastida Pancarana, bloccarono ben due centrali a carbone.
Si può ancora, se si concentrano le forze su un obiettivo. Perciò tornare a parlare di acqua, della sua narrazione universalistica, del ridursi drammatico della sua disponibilità, della sua crisi che corre forse più veloce dei mutamenti climatici ai quali è profondamente intrecciata. Cercare di nuovo l’unità dei movimenti e tornare a parlare alla gente comune di queste nuova pandemia che è la crisi dell’acqua, dei suoi costi che ne vietano l’accesso ai poveri, delle malattie che ne derivano, la scoperta che siamo tutti indissolubilmente interdipendenti gli uni dagli altri.
Parlare di memoria. Ogni restaurazione ha bisogno di cancellare la memoria storica nelle nuove generazioni. La memoria del bene pubblico, in qualche modo, presente nel DNA di tutti, anche dei partiti fino all’inizio degli anni 90.
Ricostruire la memoria è la premessa per affrontare gli anni difficili che ci aspettano.
Il dominio sulla vita, perché di questo si tratta, non sempre è solo dittatoriale e poliziesco, ma si nutre della cancellazione della memoria delle comunità. Per questo torno spesso al passato e all’acqua come paradigma. Ricordare, fare memoria. Magari ricordare ai milanesi un lontano 1888, Milano e il suo sindaco Gaetano Negri che decise l’opera dell’acquedotto cittadino. Un uomo della Destra Storica, un colonnello dell’esercito italiano che colonizzò il Sud con le fucilazioni. Eppure pensate, nella sua relazione alla delibera istitutiva definisce l’acquedotto: “un’impresa pubblica che non può affidarsi a chi ne voglia fare motivo di lucro”.
Non parlo di socialisti o comunisti. Parlo di qualcosa che tutta la politica ha perso e per questo muore e si affida alla tecnocrazia. L’acqua è ignorata persino dall’ambientalismo e dalle politiche verdi tecnocratiche. Ignorata come ignorata è la mercificazione.
I Verdi italiani lamentano i limiti di Draghi e Cingolani perché “rallentano la conversione ecologica verso la mobilità elettrica e le rinnovabili. Facendo pagare un duro prezzo all’Italia in termini di competitività industriale sui mercati globali…”.
Competitività, mercati, questa è la gabbia. Ignorato il consumo di acqua nell’elettrificazione della mobilità, comprese biciclette e monopattini, nell’attività estrattiva del litio per le batterie, del disastro che si annuncia per questo in America Latina.
Ignorata nella produzione di idrogeno compreso quello verde da elettrolisi. Quanta acqua occorre?
Ignorata dal fanatismo digitale, quanta acqua occorre per un oggetto digitale? Uno smartphone necessita di tanta acqua quanto un kg di carne.
Acqua e territorio per il fotovoltaico e l’eolico: quanto spazio per pannelli solari o pale eoliche? e non è un problema estetico, ma materiale.
Acqua, per fare di Milano la città degli architetti e delle Olimpiadi, la pista di fondo con la neve artificiale in città.
Acqua, territorio ed energia in mano a coloro che hanno portato al disastro il pianeta, beni comuni da riportare alla democrazia, alla gestione dei cittadini e delle comunità. Parliamone in tanti, a costo di sembrare, di questi tempi, dei matti.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 47 di luglio-agosto 2021: “20 anni di lotta e di speranza“