Paolo Persichetti, ricercatore storico ed ex militante delle Brigate Rosse, lo scorso 8 giugno ha subito una perquisizione casalinga.
Dopo aver lasciato i figli a scuola è stato fermato da una pattuglia della Digos di Roma e scortato nella sua abitazione dove ad attenderlo c’erano altri agenti appartenenti a tre diversi servizi della polizia di Stato: Direzione centrale della Polizia di Prevenzione, Digos e Polizia postale.
Un tale dispiegamento di forze era dovuto alla esecuzione di un mandato di perquisizione con contestuale sequestro di telefoni cellulari e ogni altro tipo di materiale informatico, con particolare attenzione per il rinvenimento delle conversazioni in chat e caselle di posta elettronica e scambio e diffusione di file, nonché di ogni altro tipo di materiale.
Un’operazione legata ad un’inchiesta della Procura di Roma, le cui ipotesi di reato sono l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo e il favoreggiamento. L’inchiesta si fonda su un’informativa della Digos del 9 febbraio scorso e riguarda la divulgazione di materiale riservato “acquisito e/o elaborato dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro”. Proprio il caso Moro torna al centro di un’altra inchiesta della procura di Roma.
La Procura vuole individuare i canali attraverso i quali sarebbe entrato in possesso del materiale riservato e “i circuiti attraverso i quali detto materiale è venuto nella disponibilità di terze persone presso le quali la polizia giudiziaria ne ha accertato la disponibilità”.
Persichetti ha commentato l’operazione di polizia sottolineando come la libera ricerca storica è ormai divenuta un reato. Soprattutto è singolare come non risultino effettuate perquisizioni in casa di quei giornalisti “confidenti” della Commissione sul Caso Moro.
Secondo la procura dal dicembre del 2015 sarebbe attiva in questo paese un’organizzazione sovversiva di cui, nonostante i molti anni trascorsi, non si conoscono ancora il nome, i programmi, i testi e proclami pubblici e soprattutto le azioni concrete.
Nei giorni in cui i PM datano l’inizio dei reati, la commissione parlamentare presieduta da Giuseppe Fioroni discuteva ed emendava la bozza finale della relazione che chiudeva il primo anno di lavori, approvata appena due giorni dopo, il 10 dicembre. Copie di quella bozza finale erano pervenute in tutte le redazioni giornalistiche d’Italia e Persichetti riuscì ad averne una copia, per conto di un quotidiano con il quale collaborava.
Sono stati utilizzati il favoreggiamento (378 cp) e l’immancabile 270 bis, l’associazione sovversiva con finalità di terrorismo per utilizzare strumenti di indagine invasiva. Il tutto nasce, quindi, dal fatto che Persichetti sia entrato in possesso della relazione della Commissiona parlamentare sul Caso Moro.
Secondo Persichetti «quello che è chiaro fin da subito è invece l’attacco senza precedenti alla libertà della ricerca storica, alla possibilità di fare storia sugli anni 70, di considerare quel periodo ormai vecchio di 50 anni non un tabù, intoccabile e indicibile se non nella versione quirinalizia declamata in queste ultime settimane, ma materia da approcciare senza complessi e preconcetti con i molteplici strumenti e discipline delle scienze sociali, non certo penali e forensi. Mi sono state sottratte le tonnellate di appunti schemi, note e materiali con i quali stavo preparando diversi libri e progetti. Ho dovuto rinunciare in queste ore a un libro che dovevo consegnare nel corso dell’estate, perché i capitoli sono stati sequestrati. Forse qualcuno ha pensato di ammutolirmi relegandomi alla morte civile, aggiunge parlando di intimidazione gravissima che deve allertare tutti in questo Paese, in modo particolare chi lavora nella ricerca, chi si occupa e ama la storia. Oggi è accaduto a me, domani potrà accadere ad altri se non si organizza una risposta civile ferma, forte e indignata».
Se a maneggiare e studiare quei documenti fosse stato un altro ricercatore, magari con fedina penale immacolata e non legato da vicende personali a quel periodo storico, la reazione della Procura sarebbe stata uguale? Molto probabilmente, anzi sicuramente, la reazione sarebbe stata opposta.
C’è una tendenza a chiudere nel peggiore dei modi quel capitolo sugli anni Settanta, a volerlo derubricare come “un momento buio del nostro Paese”. Quello di cui, invece, abbiamo bisogno è di aprire una riflessione su quegli anni, che passi dai ricordi, dalla memoria e dall’analisi documentaristica.
Per storicizzare realmente gli anni Settanta c’è quindi bisogno di studiare le fonti e non di aprire inchieste giudiziarie perché queste non vengano utilizzate dagli storici. C’è bisogno di dare alla memoria un respiro ampio e non di adagiarsi su comode narrazioni, funzionali al potere costituito. Per queste ragioni la perquisizione subita da Persichetti è un atto che assomiglia a un’intimidazione più che a un’inchiesta. E di questo davvero non ne abbiamo bisogno.