di Daniele Maffione (studioso di classe operaia e movimenti sociali)
Secondo la rivista statunitense Forbes, nel 2021 i multi-miliardari nel Mondo sono divenuti 2755. Una cifra record se si considera che, rispetto al 2020, i super-ricchi risultano essere aumentati di 660 unità. Il segreto del loro successo è rappresentato da Ipo (offerte pubbliche iniziali per il lancio di nuove società sul mercato), ascese di criptovalute, scalate a holding finanziarie. Nel grande Risiko mondiale di questi potenti, accanto alle ben consolidate rendite provenienti dall’estrazione di profitti e rendite derivanti dallo sfruttamento del lavoro, dalle risorse geologiche e dall’industria bellica, la pandemia da Covid-19 è stata un’enorme opportunità. Grazie ad essa, infatti, le piattaforme di e-commerce hanno subito un notevole incremento: si pensi a Netflix, Amazon, Deliveroo, Uber, che hanno offerto “servizi” in cambio di una feroce schiavizzazione del lavoro salariato. Oppure sono state introdotte app sempre più sofisticate, che consentono di acquisire con precisione chirurgica i nostri dati sensibili a fini commerciali, utilizzando la dipendenza dalla tecnologia tascabile. Questi super-ricchi influenzano governi, decidono dove innescare guerre o colpi di stato e determinano il flusso di denaro sugli assetti di mercato, presidiando in forze tutti i settori strategici dell’economia mondiale. È grazie all’insieme di questi elementi che l’86% dei Paperon de’ Paperoni è più ricco di un anno fa.
Tutto ciò avviene a discapito dei 7 miliardi e mezzo di esseri umani attualmente viventi sul pianeta, di cui circa 1 miliardo è stato gettato nella povertà estrema. There is no alternative, direbbe Margaret Thatcher. Eppure, nei primi anni del nuovo Millennio si affermò in tutto il Mondo, in modo pressoché simultaneo, un movimento di massa composto da milioni di persone che prese di mira la globalizzazione e le leve del capitalismo. Le origini di quella contestazione presero avvio nel 1999 a Seattle contro il vertice del WTO e si susseguirono in crescendo per circa tre anni in tutto il globo. Milioni di persone presero a contestare istituzioni politiche e finanziarie dei super-ricchi del pianeta. Si mise in pratica un nuovo modo di manifestare, contraddistinto da una mobilitazione reticolare capace di aggregare esperienze molto diverse fra loro per orientamento ideologico e pratiche di lotta, ma comunemente aggregate da un’opposizione al nuovo ordine mondiale fondato sul neoliberismo sfrenato e sulle diseguaglianze sociali. Quel movimento, che in Italia assunse la denominazione di “no global” – in seguito alla manifestazione di Napoli del marzo 2001 contro il Global Forum OCSE – culminò nelle giornate di mobilitazione contro il G8 di Genova del luglio successivo.
A vent’anni di distanza da quegli eventi, si è fatta largo l’esigenza di interrogarsi sul come sia stata spezzata la cinghia di trasmissione fra conflitto e consenso. A partire da questo interrogativo, ho curato la redazione di un libro: “Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global”, edito da DeriveApprodi, che intende contribuire a colmare un vuoto di conoscenza su quella stagione di lotta, che è stata raccontata in modo distorto dalla parte dei cosiddetti vincitori. I vinti sono stati descritti come “black bloc”, terroristi e sfascia-vetrine. È vero che sono state prodotte numerose memorie o testimonianze, individuali o collettive, sull’argomento, che hanno tentato di dimostrare il portato politico-sociale del movimento no global. Ma, viste nell’insieme, queste opere appaiono datate, episodiche e risultano essere lontane da una ricostruzione precisa della cornice storica in cui avvennero i fatti.
Questa dispersività non ha aiutato la comprensione di ciò che avvenne, né ha favorito un adeguato bilancio politico dell’esperienza no global in Italia, ineguagliata per dimensioni e radicalità. Non sono state prese in esame circostanze reali, istanze soggettive, peculiarità che hanno portato a una partecipazione di massa inedita nella contestazione al neoliberismo. Così come non sono state indagate a fondo le esperienze di democrazia diretta, né è stata compiuta una doverosa analisi delle ragioni che portarono alla sconfitta di quel movimento. Infatti, questa vacatio non ha tramandato alle nuove generazioni una consapevolezza critica di quella esperienza di lotta.
Dopo due decenni, che ci consentono di aver maturato il giusto distacco emotivo da quelle vicende, è giunto il tempo di dare avvio a un nuovo tipo di studi e riflessioni collettive, posate su un metodo di indagine differente. Il movimento no global ebbe una radicalità e una capillarità molto importanti. Non fece in tempo a elaborare una propria letteratura, una propria musica o una vera e propria contro-cultura rispetto a quella dominante. Tuttavia, riuscì a mettere a fuoco alcuni temi – la finanziarizzazione dell’economia, lo sfruttamento del lavoro, la devastazione ambientale, il cambiamento climatico, le discriminazioni etniche e di genere, l’utilizzo delle nuove tecnologie come forma di controllo di massa – che dialogano con le ingiustizie del presente. In quel movimento, il paradigma del conflitto fra capitale e lavoro non venne affrontato con i crismi tradizionali delle lotte operaie del passato, ma riuscì a denunciare nuove tipologie di sfruttamento del lavoro da cui i sindacati erano (sono) estranei. Così come i no global riuscirono a intuire che i tagli inferti al sistema sanitario e alla spesa sociale, in favore dell’alta finanza e dell’industria bellica, avrebbero prodotto nuove ingiustizie sociali e una crescente disparità fra ricchezza e povertà estrema. Attraverso un sorprendente utilizzo del web e di pratiche di azione diretta, quell’esperienza fu capace, almeno fino al G8 di Genova, di ribaltare la narrazione del potere mettendo in pratica una forma di egemonia culturale su interi settori della società, rimasti fino a quel momento subalterni alle decisioni delle classi dirigenti.
Per dare avvio a questa nuova tipologia di studi collettivi, ho scelto di prendere in esame l’esperienza napoletana e meridionale della Rete No Global, che segnò il punto d’inizio focale di questo movimento in Italia e che, sotto molteplici aspetti, risultò essere un vero e proprio laboratorio, tanto per le strategie del dissenso quanto per quelle della repressione. La storia di questa particolarissima esperienza è rimasta finora in ombra o abbandonata a ricordi sfilacciati. In questo lavoro, per la prima volta, si pongono sotto la giusta luce pregi e difetti del movimento, ricostruiti con uno sguardo critico, ma unitario. Quella che, sulle prime, potrebbe apparire come un’opera incentrata su un’esperienza locale, è in realtà la ricostruzione storiografica di un’intricata vicenda che ha avuto una proiezione nazionale e internazionale e ha favorito la costituzione dei social forum.
Grazie alla raccolta di decine di testimonianze, scatti fotografici, documenti, lettere e un racconto, è emersa una narrazione corale che restituisce un’immagine efficace di cosa fu quell’aggregazione nata dal basso che segnò la partecipazione di centinaia di migliaia di persone – fra cui moltissimi giovani – alla contestazione del G8 di Genova. Come sappiamo, il 20 luglio del 2001, nel mentre avvenivano mobilitazioni imponenti, il braccio armato del capitale, costituito dalle forze dell’ordine, mise in atto una vera e propria strategia eversiva, che portò allo scoppio di incidenti e a brutalità poliziesche che sospesero lo stato di diritto. In quel contesto, Carlo Giuliani perse la vita, stappatagli via da un colpo di proiettile esploso dalla mano di un carabiniere.
Affinché non venga tramandata la memoria dei vincitori, è giusto recuperare una riflessione critica e un modo di agire collettivo contro il capitalismo. Bisogna rifuggire da impostazioni nostalgiche o reducistiche e tentare di stimolare soprattutto nelle nuove generazioni un nuovo tipo di studi che spingano all’azione diretta contro i meccanismi del potere. Perché la memoria è cultura. La cultura è sovversione dell’esistente.
Photo credits: DeriveApprodi
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 47 di luglio-agosto 2021: “20 anni di lotta e di speranza“