di Francesco Festa
Brian D’Aquino, Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora, Meltemi, Milano, 2021, pp. 275, € 24,00
What a joyful news, miss Mattie,
I feel like me heart gwine burs
Jamaica people colonizin
Englan in reverse.What a islan! What a people!
Man an woman, old an young
Jus a pack dem bag an baggage
An tun history upside dung!
Sono le prime strofe di una lunga poesia della poetessa giamaicana Louise Bennett, Colonization in Reverse 1. O precisamente, di una profezia avveratasi. Fra le righe, con sarcasmo, Bennett denuda l’ipocrisia della cultura borghese inglese, infarcita di identità cristallizzata e tradizioni inventate2. Chiediamoci con lei: colonizzazione inversa? Hic Rhodus, hic salta! Così è stato.
Il 22 giugno 1948, nella SS Empire Windrush, un tempo nave militare tedesca, stipati l’uno sull’altro, vi sono quattrocentonovantadue giamaicani. Attraccando al porto di Tilbury in Inghilterra, quella nave funge da punto d’innesto di un processo inarrestabile. Dopo pochi anni si stimano attorno ai centosessantamila i giamaicani i residenti in Gran Bretagna.
Londra diviene il primo approdo della diaspora umana, dalle terre del disfatto Impero coloniale. I giamaicani s’insediano a Brixton, Finsbury Park e Notting Hill, portandosi dietro i costumi dominanti della piccola isola caraibica, come la cultura dei Sound System, che ha fatto la sua apparizione nei primissimi anni Cinquanta nei ghetti di Kingston. Camion sui cui cassoni sono caricati un generatore di corrente, dei giradischi ed enormi altoparlanti, per organizzare degli street party. Il primo Sound System anglo-caraibico viene allestito nel 1955 da Duke Vin, il “Duke Vin the Tickler’s” attivo a Ladbroke Grove nell’area di Notting Hill. Negli stessi anni, “inna Kingston style”, si diffondono anche i blues party illegali, in cui si ascolta e balla musica diffusa dalle casse di un grammofono casalingo e si consumano alcol, cannabis e curry di capra. Dei numerosi Sound System, germogliati dall’esempio di Duke Vin, negli anni Sessanta, si diffonde un altro genere giamaicano, lo ska, poi il rocksteady, l’early reggae, e via via in una lunga eterogenesi di stili e generi.
Ormai Londra – e con essa il Vecchio continente, dell’ammuffita borghesia capitalista – diviene teatro di incontenibile trasformazione, a partire dalle culture della diaspora. È un processo di rinnovamento dello spazio metropolitano e di ridefinizione delle identità sociali, destinato a scardinare tanto la tradizione quanto i paradigmi della modernità capitalistica. Dopotutto, il capitalismo di per sé non inventa nulla, né tanto meno la sua cultura, che parassitariamente cattura talenti ed estorce valore dai rapporti sociali. Parimenti accade nello spazio metropolitano, che è vissuto, attraversato, striato e raccontato, secondo Homi Bhabha, da coloro che si muovono verso il centro dalla periferia. È la marginalità a essere centrale negli spazi e nei territori del capitalismo.
Il punto di vista della marginalità è il metodo di lavoro che in controluce si coglie fra le pagine di Black Noise. Tecnologie della diaspora sonora di Brian D’Aquino. Corredato di un’ampia bibliografia anglofona, questo libro è un osservatorio straordinario della condizione moderna degli spazi metropolitani occidentali, cioè – per dirla con Iain Chambers – di quella composizione sociale “multiforme, eterotopica, diasporica”, che è materia umana di periferia, eppure è il cuore pulsante della modernità capitalistica.
Questo volume è l’esito di ricerche condotte fra i ghetti di Kingston e i quartieri popolari londinesi. Come una danza oscillante fra periferia e centro, esso si muove all’interno di un insieme di miti della società moderna; fra cui vi sono i rumori e/o i suoni. Apparentemente arcaici, essi fungono invece da matrice delle sonorità riprodotte nelle società occidentali. Metodologicamente, D’Aquino cammina con destrezza lungo il confine fra studi sociologici, antropologici e semiologici. Un confine, in realtà, già battuto dallo stesso Chambers, nella prima metà degli Ottanta, con Ritmi urbani. Pop musica e cultura di massa: un testo avanguardia degli studi culturali e musicali. Sia in questo che in Black Noise si coglie l’eco della critica di Barthes ai comportamenti e ai linguaggi di massa nella società moderna, in cui vengono decostruiti miti e significati, ricostruendo invece il senso del rapporto di forza che li sostiene.
Le ricerche di D’Aquino così dischiudono un ventaglio di osservazioni e di linguaggi, colti in presa diretta (come un “ricercatore scalzo” o un “osservatore partecipante”), tipico metodo di chi anziché osservare, ascoltare e annotare, preferisce sporcarsi le mani, indossare i panni, adoperare gli stessi strumenti. Difatti, egli è un attivista dei movimenti di resistenza sonora legati ai Sound System.
La ricerca si muove, dunque, nella diaspora fra le due sponde dell’“Atlantico nero”, focalizzandosi su un determinato registro musicale, mentre si situa in un luogo di predilezione, i ghetti giamaicani che, secondo l’autore, rappresentano “uno dei più influenti laboratori sonori della modernità”. Ecco l’ambivalenza della modernità disvelata attraverso il black noise ed è questo, uno fra i tanti pregi del suo lavoro, ossia l’aver tradotto il suono in parole.
A Kingston la musica non si spegne mai. Complici le alte temperature, le basse frequenze fuoriescono dalle finestre senza vetri di bar, case e barber shops; risuonano dai minibus che viaggiano a porte aperte, facendo sfoggio di impianti hi-fi autoassemblati e fuori misura. In questo costante rumore di fondo spazio e territorio, identità locale e globale, tecnologie del suono e corpi in movimento, economia formale e sotterranea trovano una sintesi dinamica. Tuttavia, il black noise della dancehall non produce necessariamente pace sociale. Al contrario, come rumore in lontananza, funge spesso da catalizzatore per le tensioni materiali che strutturano lo spazio sociale della città. Nonostante la risonanza globale, a Kingston quello della dancehall rimane ancora il suono della vita nel ghetto; il motore di un’economia costantemente in bilico tra legale e illegale; la colonna sonora per le dance moves ipersessualizzate e scandalose.
Davvero potente questo passo, e la sua scrittura. Le pagine di Black Noise hanno infatti una scrittura a tratti colloquiali e a tratti adoperante un linguaggio proprio delle dance hall (“equalizzazione, bilanciamento, preamplificazione”). La cifra di questa scrittura versatile è la capacità di trascinare il lettore nella materialità delle contraddizioni sociali, a suon di dub e reggae, mantenendo sullo sfondo una polifonia di spunti. Ad esempio: la storia del suono nella stagione futuristica della prima metà del Novecento; la nascita del reggae nei ghetti di Kingston, con i richiami alle radici diasporiche africane, incarnate nell’imperatore etiope Haile Selassie (noto come Jah); la moltiplicazione dei generi, a partire dal reggae alla mercificazione degli stessi, così come la lotta per un’ecologia acustica (eco al “progetto ecologico” teorizzato da Felix Guattari); la produzione, in una tensione costituente fra potere e sapere, di soggettività radicali che rivendichino la Diasporic citizenship; i conflitti urbani come processi di liberazione dai dispositivi di cattura e dalle politiche di sorveglianza, soprattutto nelle forme dei controlli del rumore e del suono.
C’è poi un concetto assai prensile della modernità nella gestione dello spazio e del territorio, vale a dire il concetto della tecnologia. Come scrive Tiziana Terranova, sulla scorta di alcune riflessioni di Paul Gilroy, “il black noise è il prodotto o emanazione di un’arte nera del suono, ingegneria della frequenza e della vibrazione, laboratorio tecnologico e performativo, archivio sonoro sotterraneo, strategia di fuga dal ghetto-prigione, resistenza elettropolitica che si propaga dalla Giamaica al resto del mondo.” D’altronde, cadrebbe in un grosso inganno chi pensa che il black noise e la musica caraibica siano un retaggio passato, una tradizione primitivistica, prodotto di una cultura bassa e popolare delle rotte afro-americane. Invece questi suoni sono i “rumori del futuro”, ci avverte l’autore. Effettivamente, nell’ascoltare le musiche delle società occidentali, se ne percepisce propriamente la radice in quelle rotte atlantiche; così come la finanza della city londinese ha le proprie radici nell’estrazione di risorse, manodopera e terre nel Sud del mondo. “È il capitalismo, bellezza”, com’ebbe a dire Michael Moore.
D’Aquino opera un intreccio fra il concetto di tecnologia (“futuristica visione”) e quello di tradizione. Detto altrimenti, compie un’analisi della differenza culturale come scarto tra cultura alta e cultura bassa o popolare. Qui, si sente il debito verso Stuart Hall e, indirettamente, verso Gramsci. Entrambi autori che hanno indagato il campo dell’ideologia e della cultura, abbandonando le semplificazioni tanto del marxismo classico quanto del riduzionismo e dell’economicismo, andando oltre cioè quel preciso orientamento teorico che tende a leggere i fondamenti economici della società come l’unica struttura determinante, e leggendo invece gli sviluppi ideologici con un’analisi ben più complessa e differenziata. Hall rileggendo Althusser si chiede chi, dopo Marx e Lenin, abbia veramente esplorato “la teoria dell’efficacia specifica delle sovrastrutture” e “anche di altre strutture, politiche, ideologiche, dei costumi, delle abitudini o delle tradizioni”; seccamente risponde: “ne conosco uno solo: Gramsci”. Dunque, è l’approccio gramsciano che consente di inquadrare i movimenti diasporici e la cultura che portano dietro, in grado di plasmare gli spazi metropolitani quanto le condotte collettive delle società capitalistiche. In altre parole, di dar vita a quella colonizzazione inversa.
Black Noise è un lavoro prezioso all’interno dell’archivio dei cultural studies e dei postcolonial studies. Prezioso perché è un’eccellente sintesi dei lavori decennali curati dal “Centro Studi Postcoloniali e di Genere” e dal “Technoculture Research Unit” dell’Orientale di Napoli, cui siamo ampiamente debitori per gli studi sull’intersezione fra razza, genere, sesso. E D’Aquino, lungo quest’intersezione, innesta lo studio del legame fra “suono, tecnologia, razza e potere”.
È un volume da ascoltare, Black Noise. Il che potrebbe sembrare un ossimoro. Ma, leggendo le pagine più evocative, sembra di ascoltarne i suoni e i rumori neri che riecheggiano interpellando la nostra identità e minando le nostre certezze.
Non in ultimo, Black Noise appare come un bellissimo ricordo di Lidia Curti (fondatrice del “Centro Studi Postcoloniali e di Genere”), del suo sguardo molteplice, eretico, appassionato verso le differenze, nel ricercarne i chiaroscuri e le ricchezze. Un’opera che, per dirla con Deleuze, ha agito da “effetto ottico” per illuminare il “gioco più profondo di differenza e ripetizione alla base delle identità”, per scegliere su quale due termini puntare e per scegliere da che parte stare.