È trascorso più di un anno da quando scrivevo delle violenze perpetuatesi a danno dei detenuti in tutta Italia durante il primo lockdown. Quello è stato un periodo di estrema incertezza, ansia e angoscia, in cui tutti gli Italiani e le Italiane facevano i conti con una chiusura immediata ed irrevocabile senza alcun termine d’uscita.
Il confinamento a casa, il distanziamento sociale erano entrambe pratiche che i nostri corpi in libertà non avevano sinora subìto e che hanno prodotto un aumento esponenziale di problematiche interconnesse alla salute mentale, con riverberi presenti ancora oggi.
Se i liberi cittadini affrontavano una sfida di tal tenore, dall’altro lato della barricata si innalzavano con ferri e fuochi le rivendicazioni di quelli che già conoscevano, e da ben donde, il confinamento coattivo tra quattro mura poichè frutto dell’esecuzione di una pena detentiva.
Una pena che a più riprese è stata definita ‘extrema ratio’, poiché collocata tra le pratiche obsolete e per nulla rieducative, per mutuare il concetto costituzionale di pena.
Nonostante ciò, i detenuti nelle nostre carceri nell’immediato pre-covid costituivano lo 0,1% della popolazione italiana. 60 mila detenuti che in quel dato contesto facevano i conti con ulteriori rinunce che si sommavano a quella più considerevole della libertà personale: nessun colloquio familiare, limitazione della promiscuità, della socialità tra detenuti.
Mentre l’ansia di dover affrontare eventuali focolai in carcere saliva, le voci di alcuni contagi da covid tra i detenuti cominciò a girare.
Nel momento in cui gli italiani cantavano ai balconi, esponevano cartelloni con su scritto “Andrà tutto bene”, nelle carceri si consolidava una consolidata idea: “faremo la fine dei topi”.
Le immagini degli ospedali al collasso, il numero ragguardevole di morti, la città di Bergamo invasa dai camion dell’esercito con centinaia di bare a seguito, di schermo in schermo, di cella in cella, di bocca in bocca.
È lecito domandarsi: cosa avresti fatto tu?
È lecito rispondere che, probabilmente, non saresti rimasto inerte pronto a farti ricoprire da un lenzuolo bianco ma, impugnando qualsivoglia oggetto in tuo possesso, avresti cominciato ad urlare, a battere, battere, battere sulle sbarre, finché le urla univoche di aiuto avessero raggiunto chi di competenza.
21 sono stati gli istituti coinvolti dalle proteste, contando 13 vittime e 200 feriti, dei momenti che si collocano tra uno dei punti più bassi della storia recente delle nostre carceri, sino all’altro ieri, quando il giornale Domani, a seguito delle 52 misure cautelari dipanate dalla Procura della Repubblica, ha pubblicato il video della mattanza operata dalla Polizia Penitenziaria nel carcere di Santa Maria Capua a Vetere risalente a ben 18 mesi fa.
I detenuti hanno messo in piedi azioni di protesta per puro istinto di sopravvivenza, con la consapevolezza di essere pressoché disarmati e in minoranza, mentre dall’altro capo cominciavano a disporsi agenti armati fino ai denti, organizzati a suon di messaggini su whatsapp, e pronti a “ripristinare la legalità violata” (cit. ex Guardasigilli Bonafede sui fatti di SMCV nell’ottobre 2020), mutuando un concetto retributivo violento, restituendo a questa insubordinazione “pan per focaccia”.
Agenti legittimati nelle loro azioni dalle proprie divise ed armi, ma soprattutto dalle gerarchie e dai capi, pronti a nascondere la merda sotto al tappeto per garantire a tutti un momento famelico ed attesissimo, quasi a convolare un’intera ‘carriera’ da Agente Penitenziario.
I detenuti sono stati costretti al rientro in cella a suon di calci, bastonate, schiaffi, spinte nelle trombe delle scale, sputi, “ispezioni anali” con manganello, attraversamento corridoio per “cappottone” adoperato da 100 agenti, pisciate addosso ed insulti. Una “neutralizzazione” obbligata, pronta alla ristabilizzazione immediata dell’ordine senza indulgere a clemenzialismi.
Una vera e propria vendetta privata, dissimulata, nascosta, sviata, facente parte di un sistema chiuso ed impenetrabile ormai permeato fino al midollo spinale del sistema penitenziario, le cui figure apicali e rappresentative tacciono o vengono messe in condizione di tacere.
Niente di diverso dalle associazioni mafiose per la quale vengono negate con roboanti comunicati qualsivoglia benefit penitenziario “attesa la pericolosità delle condotte”.
L’ordinanza ed il video hanno scatenato un vespaio indignato. ma diviso su due posizioni antitetiche. Da un lato l’indignazione per le violenze, il centro-sinistra e le associazioni civiche che elevano frasi di condanna, dall’altro, nel mero tentativo di ingolosire l’opinione pubblica contrapposta, lo schierarsi con il corpo di Polizia Penitenziaria, prendendo in prestito la similitudine – ormai diventata stantìa e piuttosto debole – della mela marcia in un meleto promettente.
La destra del Paese che come di consueto sta cavalcando l’onda dell’indifendibilità di Caino, reo di aver protestato in un’istituzione totale creata ad hoc per i “soggetti delinquenti”, contaminati e costipati in meno di 3 metri quadrati lordi, ma per esclusiva colpa propria, perché, in fondo, se sono in carcere, se la son cercata.
La ministra Cartabia è intervenuta nel dibattito, invece, citando le norme della Convenzione Europea dei Diritti Umani e della nostra Costituzione, parlando esplicitamente di “tradimento”. Bisogna tuttavia specificare che il clima da law and order politico fa da supporto a prassi e a legislazioni che sono tuttora connotate in senso autoritario, e che, allo stato, hanno riportato ad una rinnovata esaltazione della pena detentiva. Il contrasto con la Costituzione si ha già nel momento in cui la percentuale dei detenuti in attesa di giudizio rispetto al totale dei presenti negli istituti di prevenzione pena si attesta a numeri preoccupanti. La Costituzione è egualmente violata per sovraffollamento carcerario, per assenza di sostegno psicologico nel momento in cui si attestano 11 suicidi ogni 10.000 persone ed episodi preoccupanti di autolesionismo.
Lo stato sociale di diritto al quale la Ministra si richiama, dovrebbe farsi promotore – in questo momento – del minor numero possibile di norme penali e del minor numero possibile di persone penalmente perseguite che debba essere carcerizzato, cosa che, allo stato, è il più lontano possibile, in un “momento di esaltazione repressiva tanto irrazionale sul piano degli effetti, quanto deleteria sul piano dei diritti”[1].