Dopo lo spettacolo teatrale “20 ANNI- Cronache di inizio millennio dal G8 di Genova”, tenutosi a Sherwood Festival, abbiamo intervistato l’autore e interprete dell’opera, Alessio Di Modica, che ci ha parlato del tour “Partigiani della memoria”, ma soprattutto dell’eredità politica e culturale del movimento che si rappresentò in forma moltitudinaria in quelle giornate del luglio di 20 anni fa.
È davvero un onore essere qui con Alessio Di Modica; ci hai fatto emozionare, ricordare, anche un po’ arrabbiare (ovviamente non tu, ma i tanti messaggi contenuti in questo spettacolo). Io partirei dalla fine, da quella bellissima frase di Dino Frisullo, che ci parla dell’eredità che si lascia: vent’anni è il titolo dello spettacolo, vent’anni sono tanti ma sono anche pochi: qual è l’eredità di Genova 2001 e come possiamo coltivarla?
Alessio Di Modica: Sicuramente è l’entusiasmo di quegli anni, perché era forse dagli anni ’70 che non c’era un movimento così grande, così forte, e soprattutto la voglia di dialogare con le diversità. Ad un certo punto c’era questa cosa che ci si incontrava nei tavoli di lavoro non chiedendo “da dove vieni”, ma “che pezzo di strada possiamo fare insieme.
Era la cosa più bella: potersi incontrare su un treno, a una manifestazione, ma non solo. Si pensi anche alle riunioni dei social forum: persone che venivano da mondi completamente diversi, litigare come pazzi alle riunioni però poi decidere un’iniziativa a cui si riusciva ad andare tutti insieme, ognuno con la propria diversità. Penso che la cosa che è venuta a mancare negli ultimi anni sia proprio questa: le diversità che dialogano; questa è l’eredità che ci ha lasciato Genova, ma che non riusciamo ancora ad apprendere in pieno.
Lo spettacolo si divide in due grandi parti: la parte del viaggio e la parte della manifestazione. In queste due parti emergono i tanti volti, quelle componenti -come dicevi tu- che dialogavano, il passaggio che facevi sui social forum, i centri sociali, la rete Lilliput. È un po’ questa l’anima di un movimento di massa, il più importante (quantomeno degli ultimi decenni). Dal punto di vista teatrale, qual è per te il significato di questi due momenti, del viaggio e della manifestazione, e questi pezzi di storie di vita vissuta -la tua vita, il tuo ricordo- come si intrecciano agli altri?
A.D.M. Innanzitutto dal punto di vista personale è dare sfogo alla moltitudine che vive dentro di me, dar sfogo a tutte queste vocine che vivono nella memoria, tutte queste persone incontrate.
La differenza è che nella prima parte si vuole descrivere questo movimento, quelle migliaia di persone che insieme si sono incontrate non solo per andare a Genova, ma per animare la lotta politica e culturale di quegli anni. Nella seconda parte siamo diventati tutti uguali: le suore erano “pericolose” quanto i boy-scout, quanto i ragazzi dei centri sociali che provavano simbolicamente a sfondare la zona rossa, e c’è stata la mattanza che non ha fatto distinzioni tra nessuno.
Il motivo per cui nella prima parte si vuole raccontare questa diversità è come poi invece agli occhi del potere questa diversità non c’è stata perché c’era un obiettivo preciso, quello di massacrare il movimento: in quel caso e in quel momento fisicamente, dopo Genova anche culturalmente e politicamente.
Ci sono tante cose che mi hanno colpito di questo spettacolo, e ce n’è una verso la fine quando voi -in maniera anche abbastanza fortunosa perché un vostro compagno doveva lavorare- scampate di fatto alla mattanza della scuola Diaz. Secondo te, che cos’ha segnato nell’immaginario collettivo una cosa del genere? Ci sono stati film, documentari, ma che cos’ha suscitato?
A.D.M. Secondo me quello che è successo alla scuola Diaz non è diventato un fenomeno di massa come invece meriterebbe di essere, in realtà si dovrebbe lavorare molto di più sull’immaginario collettivo. A volte nel raccontare quel momento si è rischiato di farlo passare come un momento isolato di poche mele marce che hanno voluto fare quello. Invece quello che è successo alla scuola Diaz dovrebbe essere patrimonio collettivo in termini di memoria, capire che lì, in quel momento, lo Stato ha fatto una scelta ben precisa e ha agito in un certo modo.
In un certo senso potrebbe essere al pari dell’occupazione delle terre nel primo dopoguerra in cui lo Stato si è schierato dalla parte sbagliata. Capita nella storia ed è il momento di dirlo: secondo me quello che è successo alla Diaz non ha raggiunto quella potenza comunicativa che deve arrivare di più, senza pensare che sia un caso isolato di un gruppo di poliziotti, ma che è stato un volere dall’alto.
Tra l’altro nella gestione dell’ordine pubblico di Genova, di cui si è parlato tantissimo negli ultimi anni, rimane qualcosa di molto amaro: ci sono figure che all’epoca ricoprivano ruoli importanti nella polizia nella gestione della piazza di quei giorni che poi hanno fatto carriera. È un fenomeno molto italiano, anche se di fatto Genova ha una dimensione molto internazionale. Questa è una cosa che nel tuo spettacolo emerge in più punti, il fatto che non sia solo lo Stato italiano, ma sono quei “potenti della terra” che allora come oggi hanno voce in capitolo su come togliere il diritto costituzionale -come avete detto più volte- a manifestare ai cittadini e alle cittadine.
A.D.M. Ma lì è quando poi la finanza, le multinazionali, il capitale intervengono e hanno più potere degli Stati in un Paese. Quindi quello che sta avvenendo in questi ultimi anni è questo, che si è dato troppo potere alle multinazionali, che poi riescono ad intervenire nello Stato imponendo un’idea di economia -che poi non è più economia, ma è finanza, legata alle banche, ai traffici e alle guerre- e questo è quello che poi porta questi Stati a trattare come Stati che di democratico hanno poco.
Nel vostro viaggio verso Genova racconti tante figure, e anche tante lotte. Voi venite dalla Sicilia, un territorio ancora oggi martoriato; venite da Augusta, una terra che ha purtroppo dei trascorsi molto drammatici rispetto all’estrattivismo, rispetto alla foga con la quale a volte il capitale si fionda sui territori. Emerge però uno spaccato genuino, di consapevolezza, ed emerge il fatto che le tante persone che vanno a Genova non solamente vogliono contrastare il G8, i potenti della terra, ma portano là le loro lotte.
A.D.M. Le loro lotte che diventano poi proposte programmatiche; è importante specificare che tutto il controvertice era fatto per elaborare delle proposte complete su temi che siccome poi non sono stati affrontati in tempo sono diventati emergenze. Cito dallo spettacolo: dalla riduzione della plastica, alla sanità pubblica e alla gestione dei rifiuti, cose che oggi sono emergenze. Senza parlare dei flussi migratori, delle minoranze, della libertà di stampa, quindi in realtà la cosa importante di quel momento e di tutti i controvertici che venivano fatti è che si elaborarono delle proposte concrete da tutti i sud del mondo.
Una realtà come Augusta ha delle cose specifiche -perché quello che è stato fatto dalle multinazionali del petrolio nel nostro contesto non è diverso da quello che viene fatto a Marghera, da quello che è stato fatto a Minamata in Giappone, da quello che viene fatto oggi in Nigeria- ovvero le multinazionali arrivano, sradicano il rapporto col territorio, con l’appartenenza e con la storia per poter devastare senza alcun tipo di disturbo. Da noi il primo impianto fu fatto su una zona archeologica proprio per evitare che in futuro ci potesse essere un altro tipo di sviluppo legato all’interesse storico-archeologico.
C’è una narrazione che è passata molte volte rispetto al movimento di Genova, quella di un movimento “sconfitto”, o comunque della fine dei movimenti, ma è anche vero che negli ultimi vent’anni sono state fatte tante cose; basti pensare a tutti i movimenti climatici di massa o tutte le lotte sulla questione femminile e femminista. Genova è stata una rottura perché ha portato un linguaggio nuovo, ha portato per la prima volta in piazza in termini anticapitalisti i dell’ambientalismo, dell’antirazzismo e li ha politicizzati; quindi da questo punto di vista è stato uno spartiacque, probabilmente l’era dei controvertici è finita, ma dei movimenti no. Cosa ne pensi?
A.D.M. Io non ci credo nella sconfitta, proprio per quello che stavi dicendo: poi tante persone si sono inabissate nei propri territori e nei propri linguaggi, e costringere i territori a rapportarsi con certe cose; ricordiamoci che dopo quel momento nacquero ad esempio le esperienze delle banche etiche, quindi in realtà qualcosa viene fatto, è cambiato in questo caso specifico il rapporto con l’idea di inquinamento e dello sfruttamento del territorio.
Da noi, per esempio, prima era quasi un tabù parlarne perché c’era il ricatto occupazionale (non che oggi sia cambiata questa cosa), ma si riesce a dire molto più facilmente che le multinazionali del petrolio hanno portato morte. Tant’è che loro son furbe e oggi fanno il green washing e cultural washing agendo in maniera scientifica come hanno agito cinquant’anni fa. Dall’altra parte quel movimento ha lasciato in eredità questo, il fatto che non sia più un tabù e che si parli di più di queste cose rispetto a prima. Anche del Kurdistan per esempio: non se ne parlava prima, oggi se ne parla molto di più.
Un’ultima domanda, parliamo di teatro. Voi avete avuto il coraggio di portare sui palcoscenici di movimento (ma non solo) i vent’anni di Genova, parlando di una cosa che comunque rimane scomoda, una storia contesa. Mi viene in mente una domanda -forse banale- sul ruolo culturale e politico del teatro, ma vorrei insistere su questa cosa: quant’è importante in questo momento politicizzare la cultura?
A.D.M. È molto importante, ma bisogna politicizzarla in maniera molto profonda, perché in realtà la crisi economica che vive il teatro non è altro che lo specchio di una crisi culturale che vive da più di vent’anni. Il teatro ha smesso di parlare con le persone, quindi se si prendono certi temi spesso non avviene perché i temi si vivono, si sentono, ma perché c’è un bando al Ministero: se il teatro non ha il rapporto con le persone perde la cosa fondamentale per cui è nato, ovvero comunicare con la gente. Se il teatro non ha questo, non ha ragione di essere.
Invece il problema oggi di un certo tipo di teatro è proprio questo, che hanno creato delle zone rosse culturali al di fuori delle quali non ci si può muovere. Quindi poter trattare questo tema non perché c’è il ventennale ma anche per ricordare chi vent’anni fa stava dall’altra parte della barricata: un teatro fatto di memoria e di immaginario collettivo è fondamentale; nel caso specifico di Genova a causa dell’attacco massmediatico che ha subìto il movimento e l’immaginario collettivo creatosi rispetto a quello che era il movimento di Genova.
Quindi io, da artista teatrante ma soprattutto da cuntista -tecnica di narrazione tradizionale che si basa sull’immaginario collettivo- sento l’importanza di raccontare e creare quell’immaginario collettivo che non è mai stato fatto su Genova, quindi non come un tema, ma come qualcosa che possa aprire dei processi e creare comunità.
Immagine di copertina: Barbara Pigatto (Sherwood Foto)