Simona Savini per Greenpeace lo spiega molto chiaramentte.
«Nel nostro Paese, il Ministero delle Politiche agricole e quello della Salute stanno da tempo lavorando a un sistema di certificazione su base volontaria del “benessere animale”, basato sulla classificazione “ClassyFarm”. Alla fine di questo processo sarà probabilmente istituita una nuova etichetta di “benessere animale”, applicata ai prodotti alimentari di origine animale e ottenuta secondo i criteri stabiliti dai due ministeri. Tutto bene quindi? Purtroppo no, perché, a giudicare dalle informazioni – poche e frammentarie – rese note finora dai ministeri competenti, i criteri scelti sono assolutamente insufficienti a garantire un reale miglioramento del benessere animale. Le nuove etichette rischiano così di essere fuorvianti, illudendo le persone di poter acquistare prodotti più rispettosi del benessere animale, e penalizzanti per gli allevatori virtuosi, già impegnati in una vera transizione dei sistemi di allevamento, i cui prodotti verrebbero equiparati a quelli provenienti dagli allevamenti intensivi»: così l’intervento diffuso da Greenpeace.
«Basti pensare, ad esempio, che secondo i criteri previsti attualmente, per ottenere la certificazione di “benessere animale” basterebbe allevare un suino di 170 kg in poco più di un metro quadrato di spazio (il minimo stabilito dalla legge), o che tra le misure ammissibili rientrerebbero anche interventi come la costruzione di biodigestori per i liquami zootecnici. Una misura, quest’ultima, che non solo non ha nulla a che vedere con il benessere animale, ma che spesso richiede contesti con densità molto elevate, in cui il benessere animale e la sostenibilità difficilmente possono essere garantiti».
«Gli allevamenti intensivi, con elevate densità di animali costretti a vivere in spazi ristretti, rappresentano inoltre un ulteriore fattore di rischio per il diffondersi di agenti patogeni come i coronavirus o i virus dell’influenza, come dimostrano le notizie arrivate poche settimane fa dalla Polonia, colpita da un’epidemia di influenza aviaria che ha imposto la soppressione di milioni di animali ed esposto i lavoratori del settore a rischi sanitari oltre che economici – prosegue l’associazione ambientalista – Per queste ragioni Greenpeace e diverse altre associazioni chiedono da tempo di adottare criteri più ambiziosi, che portino a una certificazione con diversi livelli progressivi di benessere animale, al chiuso e all’aperto, per incoraggiare gli allevatori a migliorare gradualmente i metodi di allevamento puntando ad una progressiva riduzione delle densità animali e al superamento dei metodi di allevamento intensivi, a partire dall’uso di gabbie. Una minore densità animale, in particolare, è una condizione utile per migliorare sia la sostenibilità dei sistemi zootecnici, sia il benessere degli animali allevati. Per mettere gli allevatori nelle condizioni di realizzare questa transizione serve però una comunicazione chiara e trasparente in etichetta affinché i consumatori possano conoscere il metodo di allevamento utilizzato e il livello di benessere animale raggiunto, con una classificazione di tipologia simile a quella già in uso per le uova».
«Una simile etichetta per la carne è impiegata da tempo su base volontaria nei supermercati tedeschi, e pochi giorni fa una delle principali catene del Paese, ALDI, si è impegnata a eliminare gradualmente dai suoi scaffali di carne fresca i prodotti appartenenti alle due categorie più basse del benessere animale, con l’obiettivo di offrire ai clienti solo prodotti con i due standard più elevati entro il 2030. Una spinta decisiva per indurre le istituzioni politiche ad andare nella stessa direzione, disegnando lo schema normativo che permetta la transizione della zootecnia verso modelli non intensivi. Del resto, una strada del genere è perfettamente in linea con l’indirizzo intrapreso dalle istituzioni europee dopo la risoluzione adottata a larghissima maggioranza dal Parlamento europeo e accolta dalla Commissione Ue lo scorso 30 giugno, in cui si stabilisce il divieto dell’uso delle gabbie negli allevamenti entro il 2027. Si tratta di una decisione presa in risposta a 1,4 milioni di firme poste in calce all’iniziativa dei cittadini europei “End the Cage Age”, segno ulteriore del fatto che la società civile è pronta per il cambiamento e, anzi, lo chiede a gran voce».
«In questo quadro l’Italia rischia di rimanere indietro: quale momento migliore invece per la politica italiana per fornire una risposta in linea con la scienza e adeguata anche alle aspettative dei cittadini?».