L’intervista a Daniele Maffione, attivista e studioso di movimenti sociali, che ha curato per Derive e Approdi il libro Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global.
Come nasce Da Seattle a Genova. Cronistoria del movimento No Global e quali sono gli obiettivi che vuole ottenere?
L’obiettivo del libro è quello di cercare di dare un contributo alla ricostruzione del movimento no global nella sua capillarità ed estensione geografica. Nel libro abbiamo cercato di ricostruire una sorta di ponte temporale e andare dalle origini del movimento – quindi da Seattle – e arrivare fino a Genova, anche se poi sappiamo che questo movimento si è spinto ben oltre. Ci sono state una serie di tappe forzate che ne hanno segnato diverse caratteristiche e peculiarità in Italia. Noi abbiamo cercato, all’interno di questa narrazione, di raccontare l’esperienza di Napoli, e quindi ciò che precedette le narrazioni di Genova. Stiamo parlando delle contestazioni risalenti a marzo 2001 nelle quali si sperimentarono le strategie del dissenso da una parte e le strategie di repressione dall’altra.
Il libro si divide in cinque parti. La prima parte si sofferma su Napoli come incubazione del G8, sia dal punto di vista della piazza e della repressione, ma anche pensando a tutto quel tessuto e quel movimento che, come detto, va ben oltre ciò che è accaduto a Genova.
Per strutturare il lavoro che abbiamo svolto, avevamo necessità di dare voce a molte persone, diverse ed eterogenee tra loro, che rappresentassero la complessità di quel movimento. Nel libro si dà spazio sia al militante appartenente alle realtà dei centri sociali, ma anche al prete no global con una visione e una prospettiva ben differente, passando poi per esponenti del Movimento 5 Stelle, i quali hanno in parte ereditato il gergo “Anti globalizzazione” nella loro prima fase.
Per cercare di dare un’idea della variegatura dei linguaggi noi abbiamo scelto una stilistica piuttosto complessa. Nel primo caso, ad aprire il libro c’è un racconto narrativo inedito di Francesco Festa che serve a introdurre ciò che precedette Napoli, descrivendo quindi il clima dei mesi che precedettero quelle mobilitazioni che non furono solamente italiane. Colpirono Praga, Davos, Nizza e molti altri centri. Nel nostro caso è da citare Ventimiglia, nella quale venne impedito ai manifestanti italiani di andare dall’altra parte del confine (in Francia).
Nel racconto di Francesco Festa la strutturazione è fortemente articolata, in esso abbiamo le visioni di quattro diversi personaggi che si confrontano tra loro all’interno di questo alveo di movimento: un fotoreporter, un pastore del “vesuviano”, una giovane attivista e infine una ispettrice della Digos che vive il conflitto di avere all’interno della propria famiglia un giovanissimo attivista no global.
Nella sezione successiva abbiamo preferito concentrarci sulla cronistoria della rete no global, spiegandone anche la composizione, l’origine di classe, le pratiche, le azioni e quant’altro. C’è infine un fitto corredo di interviste che vanno a completare questa parte.
Le ultime due sezioni sono poi completate da una parte di documenti, e infine da un archivio fotografico a cui hanno contribuito Luciano Ferrara e altri vari vignettisti.
È importante un punto di vista che viene dal Sud di un movimento globale come questo. Questo perché il Sud storicamente è sempre stato un ponte tra le esperienze europee, le quali già vivevano negli anni ’90 una forte movimentazione, e un’area mediterranea che invece esploderà una decina d’anni più tardi. Voi vi siete concentrati tanto sulle esperienze politiche del Sud Italia, che ha poi dato un contributo importante al movimento no global in generale.
Nel libro due testimonianze ricostruiscono anche un po’ il tentativo che ci fu, a seguito del marzo napoletano, di costruire una “Rete del Sud ribelle”, la quale poi subirà una vera e propria inquisizione giudiziaria poi caduta nel nulla. Venne addirittura architettato un teorema, detto Teorema Ganzer (Generale dell’Arma dei Carabinieri), per perseguitare gli attivisti no global. Quell’inchiesta, prima di essere presentata ed accolta dal Tribunale di Cosenza – città nella quale esisteva un movimento molto forte e radicato – fece il giro di ben 23 procure (come racconta un magistrato all’interno dell’opera) raccogliendo il rifiuto nel voler estendere le ricerche delle indagini.
Quando la procura di Cosenza alla fine accolse l’intento di andare a fare un processo ad attivisti no global, tra cui ricordo Luca Casarini, uno dei vari leader del movimento e ispiratori della rete del Sud Ribelle che avevano sollecitato ad intraprendere questo percorso che avrebbe dovuto essere una sorta di spezzone meridionale di ciò che accadde a Genova. Dopo Genova partirono in effetti una serie di processi, tra cui questo, che fu molto interessante in quanto in esso si andò a cercare di costruire il teorema secondo il quale gli attivisti ispiratori di questa rete avrebbero costituito una associazione sovversiva volta a destabilizzare le istituzioni democratiche e l’ordine costituito, in particolare nella piazza genovese.
Però il libro dice anche molto altro, nel senso che l’aspetto repressivo l’abbiamo volutamente documentato, ricostruito attraverso i faldoni giudiziari. Addirittura prima della caserma Bolzaneto c’era stata la caserma Raniero a Napoli dove sono stati torturati ottantacinque manifestanti -massacrati di botte nella sala benessere locale- un episodio importante.
Noi, per esempio, fino a poco prima della manifestazione di Napoli dovevamo fronteggiare la Digos locale, ma nella piazza del 17 marzo 2001 ci siamo trovati a gestire l’ordine pubblico la celere di Padova, che si era allenata per vent’anni a spezzare le ossa agli ultras di mezza Italia. Come a dire che il messaggio che si stava lanciando nella piazza napoletana era “statevene a casa, perché se scendete in piazza le prendete”.
Tantissimi di quelli che vennero rastrellati -non solo in piazza, ma dopo in ospedale, e da lì alla caserma per subire umiliazioni, maltrattamenti, vessazioni – fecero scaturire un’inchiesta giudiziaria, che è stata però paradossale perché si è conclusa dodici anni dopo con un risultato controverso, nel senso che sono stati condannati funzionari di polizia di Stato, ma tutti i reati a loro contestati (in particolare l’abuso di potere) sono caduti in prescrizione.
Abbiamo però scelto volutamente di raccontare della bellezza, della potenza e della creatività di quel movimento perché ci sembrava più opportuno non cadere nel solito vortice violenza-non violenza, repressione-non repressione, bensì dire che le ragioni di quel movimento stanno ancora in piedi.
E infatti una delle cose che è stata spesso ripetuta in questi anni è “avevamo ragione noi”, io direi “abbiamo ragione noi”, tanto è vero che il movimento non finisce a Genova. Ed a proposito di questo, l’eredità di questo grande movimento, ma direi di questo fermento importante che c’era in Italia, in tutto il mondo, e soprattutto al sud (ricordiamo l’episodio di Scansano Jonico a pochi mesi da Genova, una delle più grandi lotte popolari che ha portato a casa una vittoria). Quest’eredità come si dipana negli anni successivi e chi la sta raccogliendo oggi?
Noi abbiamo volutamente titolato una delle sezioni del libro “Sud e anticapitalismo”, per documentare la carsicità del movimenti e dei conflitti sociali in questa parte del Paese, ma anche in tutti i sud del mondo. Per me il discorso dell’eredità viene anche da un rigoroso bilancio politico: sono convinto che i discorsi del capitalismo, del neoliberismo e della globalizzazione non si possano risolvere con una manifestazione -per quanto bella, partecipata, anche conflittuale- ma con la costruzione di un movimento che penetri ovunque e che soprattutto produca una cultura di massa antagonista, che è fondamentale.
Lo vediamo anche in questi giorni: c’è una riflessione che, a parer mio, è drammaticamente in dialogo con il discorso dell’eredità del movimento. Stiamo uscendo tutti quanti da un anno e mezzo di pandemia (stiamo uscendo, o ne stiamo rientrando); secondo le stime di Forbes i ricchi nel mondo sfiorano le tremila unità: ci sono quindi tremila super ricchi nel mondo, e addirittura si stima che rispetto all’anno scorso siano trecento in più. Questa cosa avviene perché l’ecommerce si è sviluppato all’inverosimile, si vendono monete come il bitcoin, quindi si entra in qualche modo in circuiti della finanziarizzazione dell’economia. E il grosso dello sfruttamento viene comunque dai profitti derivanti dal lavoro, dalla mercificazione dei corpi, dalla devastazione ambientale.
Quel movimento aveva ragione, ma sembra un paradosso che oggi -che le ingiustizie sono così palesi- ci ritroviamo Mario Draghi, che è uno uomo dai poteri forti, al vertice di questo paese senza un movimento di massa che ne contesti l’autorità. Secondo me, in quel movimento, c’erano delle ragioni che in qualche modo dovremmo comprendere che non hanno fatto in tempo a sedimentare una vera e propria cultura antagonista, ma ha sedimentato dei processi -che secondo me sono carsici- e si esplicano nelle lotte.
Mi viene in mente un compagno, Eduardo Sorge, a cui io tengo a dare la mia solidarietà: è uno dei portavoce del sindacato Si Cobas, portavoce del Movimento dei Disoccupati 7 novembre, ed è stato perseguitato dagli inquirenti per associazione a delinquere. Questa cosa va detta perché Eddi per esempio è andato a Piacenza, a Novara, quindi sappiamo quanto anche lì ci sia la logica del manganello che non possiamo accettare: i manganelli si possono spezzare, le idee non si possono e non si devono piegare.