Il terzo e ultimo dibattito dello Sherwood Festival dedicato ai vent’anni da Genova è titolato “Genova 20 anni dopo: una storiografia contesa”; se n’è discusso con Gabriele Proglio (Docente UniTo e autore del libro “I fatti di Genova. Una storia orale del G8) e Marco Philopat (editore). Ha moderato Davide Drago (globalproject.info e Open Memory Centro Studi e Documentazione Sherwood)
Parliamo dunque di storiografia, ricordando nello specifico la grande manifestazione del 21 luglio 2001 che, nonostante tutto ciò che accadde nella giornata precedente, scelse di tornare in piazza a Genova; il tutto senza però esimerci dal narrare ciò che accadde la notte tra il 21 e il 22 alla scuola media Diaz e a Bolzaneto.
In questo ultimo mese abbiamo sentito le tante narrazioni dei media mainstream, le sentenze della magistratura; una narrazione quindi che ci mette nuovamente di fronte ai “danneggiamenti” che sono stati fatti a Genova, mettendo al centro il solito parallelismo buoni e cattiva. Ingiustizia, ancora una volta, è stata fatta.
In Italia ad ogni ricorrenza ci troviamo a fronteggiarci con avvenimenti passati non ancora storicizzati, perché facenti parte della storia recente; sono però eventi che hanno prodotto e tuttora producono tante testimonianze e racconti.
Nel libro curato da Gabriele Proglio, “I fatti di Genova. Una storia orale del G8” abbondano i sopracitati racconti, una tradizione orale che evoca immagini ben precise. E a proposito di oralità, la domanda che gli viene posta è: “Qual è secondo te una delle parole chiave che più descrive le giornate di Genova, non utilizzata in questo periodo dai media?”.
Gabriele: “Parto dall’immagine del 20 luglio: scontri, l’uccisione di Carlo Giuliani, le televisioni che raccontano il tutto andando a puntare il dito contro i manifestanti e l’appello di Dini che va in onda dicendo a tutti di non andare a Genova l’indomani. Parlava dunque alle persone che potevano potenzialmente andare. Ricordo che quella sera, dopo le assemblee, i pianti, gli abbracci, i dialoghi, la domanda era: domani ci saranno in piazza delle persone? E sì, centinaia di persone decisero di andare, nonostante tutto. O forse proprio per quello che è successo. Quel momento, quel tentativo di esserci a tutti i costi -non raccontato dai media- si chiama resistenza, che è a parer mio la parola chiave mai citata nell’ultimo mese.
Il libro di Gabriele Proglio è incentrato su un racconto che prende le distanze da due tipi di narrazione: il vittimismo e il reducismo. Il lavoro che è stato fatto è quello di recuperare le memorie e di raccontare le esperienze di Genova in maniera eterogenea; un tentativo di spostare lo sguardo sul dopo: Genova non è la fine.
Le sentenze riguardanti Genova -l’abbiamo visto in questi giorni- hanno riproposto l’ennesimo copione dei buoni (le forze dell’ordine) che hanno difeso gli 8 della zona rossa dai cattivi (i manifestanti); un copione già scritto.
Il parere di Marco Philopat, il secondo ospite del dibattito, sulla narrazione degli ultimi vent’anni è inequivocabile: “Insopportabile”. Oltre alla parola resistenza, nel tentativo di arrivare alla costruzione di una memoria condivisa, manca la parola conflitto; il conflitto che il movimento dei centri sociali era riuscito a porre come questione centrale.
“Dopo la pandemia, sono emersi argomenti dei quali noi parlavamo già vent’anni fa” ci racconta Marco Philopat “e che sono emersi proprio grazie al conflitto, partito pochi anni prima di Genova, nello specifico con Seattle 1999. La memoria è uno strumento che se non si trasforma in azione nel presente, non vale molto; le dinamiche di conflitto di quei tre anni sono interessanti, ma non riescono mai a venire a galla. Per quanto riguarda l’argomento toccato prima -i buoni e i cattivi- il momento chiave di Genova, all’interno del quale dovremmo ricercare errori e buone idee, è stato quello delle tante riunioni che l’hanno preceduta, perché lì è emersa la posizione del movimento: con ancora un piede negli anni ’70 e allo stesso tempo troppo avanzato per quel momento storico”.
Interviene il moderatore Davide Drago, sottolineando l’importanza della memoria e portando l’attenzione al neonato centro studi e documentazione di Radio Sherwood “Open memory”, che funge da strumento per la trasmissione di quella memoria viva, che continua a camminare dagli anni ’70 in poi.
Secondo Davide “è importante interrogarsi sul passato, ma è ancora più importante fare qualcosa per continuare a lottare”.
Segue una domanda rivolta a Gabriele: “Nel tuo libro, i fatti di Genova lasciano spazio ad un racconto: un racconto che inizia con la partenza dal proprio territorio, prosegue con la narrazione delle tre giornate clou -che hanno una potenza infinita- e termina col manifestante che ritorna verso casa, e non ci torna da sconfitto. Perché la scelta di usare lo strumento della storia orale, e quanto è utile per raccontare l’esperienza di Genova?”.
Gabriele Proglio affronta la questione con una risposta metodologica, ma che è anche pratica, politica, e legata al concetto di conflitto. Si pensi a quanto sia possibile oggi fare una storia del G8: possiamo utilizzare giornali, documenti di polizia, delle istituzioni, video, trasmissioni radio, ecc. Tutte queste voci, però, hanno prodotto fonti che vanno in una direzione specifica. Poniamo l’accento sul ricordo dei mesi che precedettero Genova: già da febbraio le maggiori testate nazionali iniziarono a costruire il conflitto, parlando della Celere, della presenza dei militati, della zona rossa, dei radar, e di tutto quel che sarebbe potuto accadere. Anche cose di per sé pazzesche, come la notizia che bin Laden avrebbe attentato ai magistrati, che però fecero crescere il livello di attenzione. Dunque, lavorare su questo tipo di fonti equivarrebbe a riprodurre la stessa storia dei media. “Con le fonti orali, d’altra parte, c’è la possibilità di ricostruire la storia dal basso” afferma Proglio, “la fonte storica si costruisce dialogando con l’altra persona”.
Il dopo Genova è stato raccontato come la fine dei movimenti, e anche di una generazione. Ma le storie personali continuano: si prenda, ad esempio, il movimento No TAV, la cui prima bandiera è apparsa proprio a Genova, o le svariate storie dei tanti che dopo quel 21 luglio hanno iniziato a fare militanza: tutte le 80 persone intervistate nel libro “I fatti di Genova. Una storia orale del G8” raccontano il dopo come una continuazione.
Un altro aspetto fondamentale da considerare è il dialogo tra due aspetti: la battaglia e la moltitudine presente a Genova, raccontati molto bene da Marco Philopat in un reading. Ma come, esattamente, comunicano?
Ci racconta Philopat: “Il movimento si è portato sulle spalle centinaia e centinaia di ragazzini scatenati, non militanti, ma attratti dalle tematiche portate a Genova. Poi c’è stato il fattore media, il quanto se ne siano interessati ha portato alle assemblee moltissima gente. Nonostante tutto quel che è successo, nonostante Carlo, i fatti della scuola Diaz, le giornate successive a Genova eravamo tutti emozionati, pensando che le nostre tematiche fossero diventante ancora più forti. Questo, almeno, fino all’11 settembre”.
A questo punto Davide Drago pone una domanda a Gabriele Proglio che nasce dalla riflessione sulla storia orale, la stessa che ci aiuta a comprendere la complessità di quei giorni: “Quant’è importante raccontare quei giorni alle nuove generazioni, anche tramite un libro?”
L’importanza è di certo inequivocabile, ma non nel senso di consegnare l’eredità di quelle lotte, altrimenti si rischia di sfociare nel pericoloso passaggio “chi è stato a Genova deve insegnare in che modo tornare in piazza”. Il conflitto c’è stato, basti pensare all’Onda, Non Una di Meno, Black Lives Matter, una serie di mobilitazioni dal basso.
Secondo Gabriele “non bisogna lasciare Genova come insegnamento. È però importante uscire dalla traccia, come hanno fatto tutte le diverse soggettività che nonostante i vari vertici (G7, G8, ecc.) e nonostante i mezzi della globalizzazione, hanno costruite tante cose. Quello che forse è mancato è stato far vedere che Genova non è la fine, che le persone hanno continuato anche se in modo diverso (associazionismo, centri sociali, alcuni attraverso la musica): queste modalità sono l’elemento fondamentale di continuità”.
A proposito dei movimenti e della cultura perpetuata in questi anni, si esprime Marco Philopat ricordando che AgenziaX, per esempio, lavora sulle culture underground credendo fortemente che siano le esperienze personali che possono far crescere e portare alla militanza. Ed è chi, in qualche modo, ha continuato a raccontare questi vent’anni di storia con il punk, la cosiddetta “controcultura” italiana.
In conclusione, quel che ci lasciano i racconti e le storie di Genova è l’immagine di un campo di battaglia; è importante far parlare i protagonisti per smontare le false accuse. La storiografia diventerà sempre più terreno di scontro man mano che si andrà avanti, e i tribunali continueranno a non fare il loro lavoro: è quindi fondamentale continuare a lottare per un mondo diverso, e a raccontare le lotte che portiamo avanti quotidianamente.