Sabato 17 luglio si è tenuto a Sherwood Festival il dibattito “Sindemia0202 – Alla ricerca di un nuovo concetto di salute collettiva”, che aveva come obiettivo quello di discutere attorno ai materiali prodotti nel corso del convegno online dello scorso 28 marzo. Ospiti della serata sono stati i rappresentati delle tre realtà che avevano promosso il convegno di marzo, ponendosi il problema di dotarci di strumenti teorici in grado di attivare un nuovo terreno di lotta e organizzazione a partire dalle molteplici problematiche che la sindemia porta con sé e dall’intersezionalità intrinseca nel concetto di salute: Teo Molin (Caracol Olol Jackson Vicenza), Lavinia Boggia e Luca Negrogno (Assemblea per la salute del territorio Bologna) e Michele Borra (Non sta andando tutto bene Brescia).
Nel primo giro di interventi Teo Molin ha spiegato perché il tema della salute e quello della sanità non coincidano, partendo proprio dall’esempio della sua città: «non si può parlare di salute collettiva, se non si affronta il problema che Vicenza è la quarta città più inquinata d’Europa per quanto riguarda il Pm 2.5». In generale, il concetto di salute è subordinato alla qualità dell’ambiente in cui si vive e ad altri determinanti di carattere economico e sociale.
L’esperienza di Caracol a Vicenza è nata per sopperire a una carenza del sistema sanitario in senso stretto, visto che in Veneto 700.000 persone ogni anno sono costrette a rinunciare a visite specialistiche per problemi di reddito. «Nel corso del tempo» spiega Teo «abbiamo capito che non è sufficiente un ambulatorio popolare per garantire il diritto alla salute e ci siamo resi conto che è l’intera progettualità del Caracol che contribuisce all’affermazione di questo diritto: la scuola popolare, l’attività sindacale di Adl Cobas, l’emporio solidale».
Negli ultimi anni, il tema della salute è spesso associato a quello della rigenerazione urbana: «io ho partecipato a molti convegni istituzionali in cui si parla di rigenerazione urbana, salute e qualità della vita, ma mancano alcune cose essenziali: non si può parlare di rigenerazione se non si parla di bonifiche, di porre fine alla cementificazione, di mettere fine all’attuale sistema economico. Ed è da queste mancanze che passa il nostro ruolo nella costruzione di un nuovo concetto di salute collettiva e comunitaria».
Michele Borra, nel presentare il percorso bresciano di Non sta andando tutto bene, ha raccontato come la rete – che ha unito attiviste/i, personale sanitario e cittadine/i – è partita dalla critica radicale all’approccio emergenziale che ha sempre avuto la direzione sanitaria lombarda, in particolare nei luoghi che sono stati epicentro della pandemia, in particolare nella prima ondata. Oltre alla questione sanitaria in senso stretto, le varie realtà della rete si sono dovute confrontare con una situazione sociale esplosiva, nella quale molti settori produttivi hanno iniziato a scioperare perché hanno continuato a lavorare incessantemente anche durante le fasi di picco di contagi, ospedalizzazioni e mortalità, senza alcuna prevenzione e sicurezza.
«La pandemia ha mostrato il nervo scoperto di un modello sanitario privatizzato e aziendalizzato, in particolare in Lombardia, ma ha anche messo in rete – a livello territoriale e non solo – realtà che hanno elaborato discorsi e iniziative di critica a questo modello, scoprendo insieme un altro modo di ragionare attorno alla sanità e alla salute, che parte dal concetto di prevenzione, solidarietà e cura collettiva» dice Michele. Il percorso Sindemia0202 prova a coprire un altro vulnus che questa pandemia ha fatto scoprire: «come realtà e movimenti sociali una cassetta degli attrezzi su questi temi non ce l’abbiamo ancora e alcune cose ci hanno colto alla sprovvista, ma questo virus ci ha dimostrato come proprio dalla questione della sanità e della salute si può costruire un’agenda politica, perché sono lenti attraverso le quali si può realmente cogliere la complessità della nostra vita dentro il mondo contemporaneo».
L’Assemblea per la salute del territorio Bologna nasce invece da una vertenza contro la chiusura, nel luglio 2020, del Cup di Corticella, un’area molto periferica del comune di Bologna, che era un punto di riferimento importantissimo per la popolazione della zona, in gran parte anziana e con grandi difficoltà di spostamento. Lavinia Boggia ha ripercorso i momenti salienti di questa esperienza e di come sia stata in grado, da una vertenza molto localizzata, a raccogliere quante/i in città avessero a cuore il tema della sanità di prossimità, ma soprattutto la partecipazione collettiva al processo di creazione di salute e attenzione alle fragilità.
«La chiusura del Cup di Corticella è emblematica dello smantellamento progressivo dei servizi sanitari, perché anni prima questo centro civico era un poliambulatorio – con oculista, fisioterapista, consultorio, punto prelievi, ambulatori vari – che via via ha dismesso le varie funzionalità fino a cessare definitivamente» racconta Lavinia che ha poi spiegato la determinazione con la quale la neonata assemblea sia riuscita a imporre al Consiglio di quartiere la riapertura del servizio, insieme alla riapertura di alcuni ambulatori e del centro prelievi. Nel corso delle assemblee, altri abitanti di Bologna hanno raccontato situazioni simili, in particolare nei quartieri periferici, e così il percorso ha deciso di aprirsi all’intera città, con momenti di incontro e mobilitazioni.
Nella parte conclusiva del dibattito le/gli ospiti hanno affrontato – a partire dalle proprie esperienze – il tema delle attività solidali come alternativa al modello neoliberale di sanità e welfare, quindi sia come elemento che interseca le battaglie sul reddito sia come produzione autonoma e diffusa di salute e benessere collettivo.
Secondo Teo Molin, la proliferazione di attività mutualistiche nel territorio può creare la stessa situazione della fine degli anni ’70 del secolo scorso, quando è nato il servizio sanitario nazionale proprio dalla spinta delle lotte sociali e delle esperienze dal basso: «questa è l’occasione per cambiare radicalmente le politiche sanitarie basate da un lato su aziendalizzazione e privatizzazione, dall’altro su una visione “ospedalocentrica”».
Per Luca Negrogno il percorso – teorico e organizzativo – nato dal convegno di marzo può realmente aprire le strade a una ridefinizione del concetto di salute collettiva, sia perché mette a confronto le pratiche territoriali sia perché crea un ponte tra quella tradizione di lotte che c’era negli anni ’60 e ’70 sul tema con le elaborazioni contemporanee. Il commento finale di Luca riguarda tre aspetti, che a suo avviso sono strategicamente centrali per il prossimo futuro: la contrapposizione tra welfare e produttività, quella tra mutualismo e governance sanitaria, i “contro-saperi” come saperi delle comunità in lotta in grado di creare una narrazione organica alternativa a quella “dominante”.
Michele Borra, rispetto all’ipotesi di un nuovo convegno da organizzare in autunno, afferma che uno degli assi che sarebbe maggiormente da sviluppare riguarda la prevenzione: «nelle fasi più acute della diffusione del virus, l’aumento di posti in terapia intensiva è stato il sintomo di quella cultura emergenziale che ha creato le carenze di cui dicevamo, ma non era evitabile. Se si vuole realmente uscire dalla gestione emergenziale non possiamo esimerci dall’affrontare a tutto tondo il tema della prevenzione».