A una settimana dallo sblocco dei licenziamenti del primo luglio, tanto agognato dal padronato italiano, la fabbrica della GKN di Campi Bisenzio (FI) fa pervenire a 422 dipendenti una mail con oggetto il loro licenziamento, giustificato dalla perdita di circa metà del fatturato nelle previsioni economiche dei prossimi quattro anni. Pare così che al giorno d’oggi la rescissione di un contratto di lavoro debba seguire le leggi del mercato just in time: consegnare la merce/informazione nel più breve tempo possibile noncuranti delle condizioni di lavoro che vi stanno dietro. Occorre premiare la velocità e l’inamovibilità della decisione, bypassando ogni canale istituzionale che preveda il coinvolgimento dei sindacati e dei collettivi delle e dei lavoratori.
Se non togliesse l’aria dai polmoni a tutte le persone impiegate nella fabbrica, verrebbe da sorridere in faccia all’indignata stupefazione del vertice del Mise e di altri membri del governo per la modalità di comunicazione dei licenziamenti: non viviamo, d’altronde, nell’epoca del capitalismo avanzato, così apertamente adulato dai governi di tutti i colori? L’innovazione tecnologica nella comunicazione prende a braccetto il management autoritario del personale e le attuali norme del diritto del lavoro che agevolano i licenziamenti– a casa nostra il Jobs Act – in modo da favorire la crescita economica a tutti i costi. Crescita economica di chi? Osservando il caso GKN e i recenti licenziamenti di massa, è alquanto scontato parlare della classe dei capitalisti – investitori, proprietari, top manager delle banche, grandi rivenditori: a tutti costoro fa particolarmente gola una delocalizzazione in un luogo dove la forza-lavoro costa di meno ed è poco tutelata, perché possono ambire alla massimizzazione del profitto. Coloro che rimangono ai margini di questo sviluppo sono ormai gli appartenenti alla contemporanea classe operaia, ostaggio delle strategie finanziarie e della catena del valore globale, pertanto gettata nella precarietà. Cade così uno dei miti delle grandi aziende e multinazionali della metallurgia, come può essere uno stabilimento di produzione dell’automotive, secondo il quale l’industria basata sul fossile porterebbe lavoro, libertà e prosperità a ampie fasce della popolazione. In realtà, assistiamo ad un esempio eclatante della doppia faccia del “progresso”, che, da una parte, genera ricchezza per un’élite e, dall’altra, consegna alla vulnerabilità sociale la maggioranza della popolazione mentre inquina l’ambiente. Esattamente, in poche parole, il modello di sviluppo che ha provocato la crisi climatica, sociale e economica prima e durante l’attuale pandemia.
Come è possibile, allora, che lo sviluppo si sia fatto ideale universale regolativo del mondo? Come leggerne le contraddizioni e le storture sistemiche che stanno alla radice delle diseguaglianze? Non serve tanto una risposta univoca che trovi un’unica soluzione, quanto un insieme di voci che tematizzino la complessità di questo progetto globale di espansione capitalistica. Ecco che corre in aiuto Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo (Orthotes 2021), l’edizione italiana di un dizionario critico recentemente pubblicata e curata da Maura Benegiamo, Alice dal Gobbo, Emanuele Leonardi e Salvo Torre. Il libro offre un glossario e alcune introduzioni critiche utili alla comprensione delle ombre del concetto e dei programmi sviluppisti, così come una rosa di proposte riformiste atte alla mitigazione degli effetti nefasti della crescita economica e, last but not least, diverse visioni sistemiche alternative all’attuale modello. Come spiegano i e le curatrici italiane, l’intento della traduzione è quello di divulgare chiavi di lettura, strumenti analitici e esperienze di lotta di altrove nella nostra penisola costellata di conflitti ambientali, sociali e sul lavoro che si oppongono alla razionalità sviluppista. Per la traduzione italiana, i e le curatrici, da anni dediti alla divulgazione dei temi dell’ecologia politica in ambito accademico e militante, hanno coinvolto persone sensibili a questa prospettiva e provenienti dall’attivismo allo scopo di confrontare il dibattito italiano con le descrizioni del dizionario. Chiude il volume una efficace postfazione critica di Luigi Pellizzoni, che contestualizza singole voci e le introduzioni nella discussione filosofica e sociologica sull’ecologia politica, sull’ontologia contemporanea, sulla presa e sulla funzione del dualismo cartesiano, sul lavoro, restituendo diversi spunti sui limiti di alcune proposte e riflessioni contenute nel libro. Il respiro intellettuale dell’edizione italiana riprende in parte la dichiarazione d’intenti degli omologhi internazionali Ashish Kotari, Ariel Salleh, Arturo Escobar, Federico Demaria, Alberto Acosta, a cui dobbiamo l’edizione originale in inglese. Infatti, i contributi al dizionario provengono dalla galassia dell’attivismo e degli studi accademici critici, a testimonianza della reale volontà di fare del libro un grimaldello per aprire le porte del cambiamento politico a favore delle classi popolari e dei soggetti marginali.
È dispersa nel copioso volume (500 pagine), esito di una coraggiosa operazione editoriale di Orthotes, quella impostazione teorica che ci fa leggere le scelte industriali della GKN, i piani di aggiustamento strutturale dell’FMI, gli OGM, l’espropriazione delle terre nel presente, la rampante economia verde, l’estrattivismo, la coazione al lavoro riproduttivo e la creazione di lavoro a basso costo con le lenti del “malsviluppo”. Nel disvelare il regresso e la barbarie insiti nel mastodontico progetto dello sviluppo, ogni voce ne mette implicitamente o esplicitamente a critica l’universalismo su cui esso ha edificato la propria idea di civilizzazione del mondo a immagine e somiglianza dell’Occidente. Ad essere colpito dalla critica è il processo di modernizzazione che, sottolineano i e le curatrici dell’edizione originale, ha elevato l’individuo proprietario (maschio, bianco, eterosessuale e borghese) a norma sociale dell’umanità in opposizione alla cooperazione e alla solidarietà interne alla collettività; a questo si è poi affiancata in età contemporanea la misurazione matematico-quantitativa della crescita attraverso il metro del PIL. La storia del concetto di sviluppo risale al Secondo dopoguerra, ma ha ottenuto nuovo vigore teorico e pratico con l’ascesa del neoliberalismo negli anni Ottanta, per il quale la crescita è diventata un mantra religioso destinato al sistema-mondo, con una particolare attenzione per il Sud globale. In un connubio di falsificazione ideologica e produzione di senso comune, da quel momento in avanti la tipologia di capitalismo incarnato dai Paesi del Nord globale ha dato forma all’azione istituzionale e finanziaria del pianeta. Vi è, poi, stato un cambio di passo significativo negli anni Duemila con l’aggravarsi della crisi climatica: è quindi nata l’idea dello “sviluppo sostenibile” a cui tutte le nazioni devono adeguarsi, anche quelle ricche, poiché non esistono ancora esempi concreti nel presente che siano coerenti con la cosiddetta “crescita verde”.
Le origini di una tale svolta vanno rintracciate nella presa di consapevolezza da parte della classe dei capitalisti dei limiti naturali alla crescita, oltre i quali viene meno la stessa riproducibilità del profitto e della rendita, così lampanti nell’odierna fase geologica del cambiamento climatico; ma anche, suggerisce Wolfgang Sachs nel suo testo introduttivo, nel declino della promessa soggiacente allo sviluppo. Interrotta la mobilità della classe media, distrutta l’illusione del pieno protagonismo dell’intera società nella produzione industriale, arrestata la democratizzazione del consumo, non resta niente del «trionfalismo degli anni Novanta» quando alla certezza del progresso futuro si sostituisce la paura per la propria sopravvivenza. Non è un caso che i populismi reazionari prendano piede sotto ciò che dovrebbe rappresentare il punto più alto del capitalismo contemporaneo, ovvero la crescita verde. Risentimento e competizione sfrenata provati in particolare (ma non solo) dagli uomini bianchi delle classi medie e alte, a cui si accoda qualche segmento di quelle popolari, esacerbano le gerarchie sociali per affermare un desiderio di «sciovinismo dell’opulenza» (p. 22).
Ma è proprio nella crisi del discorso e dell’ideologia dominanti che si insinuano i germi della rivolta, sebbene mai scontati nel tempo dell’interregno in cui le forze reazionarie contendono il terreno ai conflitti radicalmente democratici rispetto al nuovo che deve ancora nascere. Ribellioni e esperimenti societari rivoluzionari che perseguono la (ri)comunalizzazione delle risorse (commons), l’economia circolare, l’istituzione di organi decisionali autonomi dal mercato e dallo Stato retti dai pilastri dell’eguaglianza e dell’inclusione, welfare condiviso e accessibile, equa distribuzione del lavoro di cura, legami affettivi oltre l’eteropatriarcato. Farsi guidare dalle voci del dizionario come – giusto per citarne alcune – “Rivoluzione”, “Il salario al lavoro domestico”, “Amore queer”, “Sovranità economica”, “Ecofemminismo”, “Commons”, “Buen vivir”, significa cucire assieme filoni di pensiero e lotte locali che condividono valori e pratiche. Attenzione, però, a non assurgere ad alcuna trama preimpostata che faccia da modello: il lavoro di cucitura non assume che ogni pezzo corrisponda alla singola unità di un tessuto dalla natura omogenea; piuttosto, rammendare le lotte tra loro equivale a costruire un mondo dove possano coesistere tanti mondi, coerentemente con la massima zapatista. Questi mondi possibili dialogano tra loro da dentro la natura, in una cosmologia che vede ogni elemento in una rete di relazioni con tutti gli altri. Pertanto, il dizionario si propone di far confluire i saperi critici contemporanei e i saperi ancestrali dei popoli originari secondo una logica orizzontale. Tutto il contrario, quindi, dell’unico mondo liscio e neutralizzato del progetto colonizzatore dello sviluppo.
A questo punto, sarà chiaro che Pluriverso è un libro di parte che ha lo scopo di abbattere le forme di oppressione e sfruttamento del presente. Chiama in causa le lotte, dicevamo; in particolare, i conflitti che vengono dai margini, quelli degli esclusi e escluse dallo sviluppo che si impegnano a creare modi di produzione neghentropici (dunque rispettosi dell’equilibrio ecosistemico e della circolarità dell’energia terrestre) e istituzioni autonome della decisione politica. Non sorprenderà che molte voci siano state scritte da donne, giovani, persone lgbtqia+, membri dei popoli indigeni, persone razzializzate, appartenenti alle classi popolari del Sud globale; quegli individui, cioè, che si pongono alla guida dei movimenti radicali. Chi più di coloro che hanno da sempre avuto i minimi (o nessun) benefici dalla crescita e subito i massimi effetti del “malsviluppo”, può dare vita a un’opposizione sociale? Dagli ultimi e dalle ultime arriva l’insegnamento che, per contrastare il capitalismo, è fondamentale sabotare il dominio sulla natura – habitat, risorse, esseri non-umani – e, di conseguenza, il dominio su coloro che sono stati resi natura, i “senza ragione” ontologicamente e/o gnoseologicamente inferiori perché fuori norma rispetto al soggetto universale – se l’obiettivo delle lotte è quello dell’espansione della democrazia sotto l’egida dell’eguaglianza e della libertà. Ed è forse da tale riflessione che possiamo trarre ispirazione qui in Italia, superando la ratio per la quale le lotte sociali portino ad un superiore stadio di sviluppo del capitalismo, a cui conseguirebbe un ulteriore livello di benessere delle classi e dei gruppi subalterni. Perché con lo sviluppo la terra ha continuato ad aumentare le sue temperature, le donne a essere costrette al lavoro di riproduzione e alla violenza, i popoli originari e i poveri del Sud globale a vedere sottrarsi le loro terre e spazi comunitari, la comunità lgbtqia+ a essere vittima di aggressioni nonostante il pinkwashing, le persone non-bianche a impiegarsi in più occupazioni per salari da fame. Schiacciate dall’inasprimento della logica del profitto, anche nell’immaginario simbolico della classe operaia e della maggior parte dei segmenti della media il principio del trickle-down è entrato in crisi. Trovare il perno che approfondisca una simile crisi soggettiva dello sviluppo in senso rivoluzionario è la posta in palio del giorno d’oggi per l’alternativa radicale al capitalismo e alla società neoliberale, le cui condizioni di possibilità stanno nello sguardo di classe delle oppressioni e dello sfruttamento nel bel mezzo della crisi climatica. Ce lo ricordano i e le curatrici italiane quando scrivono che «la fisionomia che sta assumendo l’ecologia politica italiana si radica dunque nella storia delle lotte ambientali nel paese, nel legame tra i conflitti attuali e la lunga elaborazione che ha portato una parte del movimento operaio a occuparsi delle problematiche ecologiche» (p.8).
Far detonare i conflitti e creare organizzazioni trasversali per temi e regioni del mondo è, purtroppo e per fortuna, l’ostinato cruccio di tutti i movimenti rivoluzionari. I e le curatrici internazionali propongono una prima forma di messa in comune delle esperienze di trasformazione con la piattaforma online della Global Tapestry of Alternatives. Al di là della proposta in sé, le pagine del volume esprimono quell’urgenza che, a vent’anni dal movimento altermondialista che arrivò a Genova, continua a suonare vitale: agire locale e pensare globale per costruire un altro mondo possibile oltre il paradigma dello sviluppo. Da dove iniziare? Dalla mobilitazione dei lavoratori e lavoratrici GKN, dalle vertenze sindacali nella logistica, dalla galassia dei movimenti e dei comitati ambientali, dalle lotte transfemministe. Se è vero che è necessario costruire connessioni, complicità, intersezioni organizzate, è altrettanto vero che non partiamo da zero. Queste lotte ci sono e stanno lì a ricordarcelo.