Il 14 luglio si è tenuta a Sherwood Festival la presentazione del libro Smontare la gabbia – Anticapitalismo e movimento di liberazione animale (Mimesis Edizioni), alla presenza di Marco Reggio (co-autore dell’opera) e Francesca Manzini (animatrice della campagna #StopCasteller). L’incontro è stato moderato da Giorgia Miotello (Cso Pedro Padova). Di seguito il video e il testo integrali dell’incontro.
D: Che cos’è l’antispecismo e qual era l’intento di questo libro? L’obiettivo è stato raggiunto?
Marco Reggio: A questa domanda ci sono una una serie di risposte. Solitamente facciamo riferimento al testo “Animal Liberation” di Peter Singer per collocare un inizio del dibattito, con la definizione dello specismo che si può definire in analogia al sessismo, al razzismo sostanzialmente come un pregiudizio di specie. Nella nostra società gli interessi degli animali umani contano più che quelli delle altre specie. Grazie a questo noi possiamo sfruttarli, metterli in schiavitù e mangiarli. Le strutture di sperimentazione scientifica, gli allevamenti o gli zoo si basano sul principio dell’invisibilizzazione della sofferenza e quindi la violenza nei loro confronti è normalizzata.
L’antispecismo si può quindi tradurre come quel movimento che si oppone allo sfruttamento animale come violenza istituzionalizzata applicando nelle pratiche individuali il veganismo. Questo ha dei limiti in quanto la risposta non può essere solo nel consumo individuale, ma in un movimento politico in grado di mettere in discussione delle strutture più profonde.
Il sistema in cui viviamo, il capitalismo (caput, capo di bestiame) ha la sua prima forma di accumulazione di valore sui corpi animali. Il libro voleva porre l’attenzione su dei temi emergenti dell’antispecismo, soprattutto italiano, legati all’intersezionalità che poi è in grado di restituire l’eterogeneità del dibattito antispecista, ma anche far vedere delle linee di fuga con dei contributi di collettivi che si sono occupati di temi specifici come la resistenza animale.
Come stanno iniziando a dialogare antispecismo e anticapitalismo? Qual è l’importanza di questa tematica e come può aiutarci ad approfondire le lotte dei movimenti?
Marco Reggio: Da una parte consideriamo l’antispecismo come un’istanza che nasce da una sensibilità etica e pre-politica, dall’altra tutti i movimenti hanno ignorato questo tema molto giovane, ma le cose stanno cambiando grazie a quella parte di antispecismo che si sta fortemente politicizzando. L’antispecismo non può essere trasversale, stiamo parlando di un’istanza egualitaria e che quindi non può essere appannaggio delle destre.
Si stanno esplorando i nessi, ma è importante che ci sia un riconoscimento di questa istanza con la medesima dignità delle altre da parte degli ambiti che si occupano di giustizia ambientale, del patriarcato, del modo di produzione delle merci ecc. quindi di problemi che tradizionalmente sono considerati della nostra specie, cioè problemi politici intraumani.
Guardando il veganismo si vede il forte recupero da parte della grande distribuzione rispetto alle pratiche che una decina danni fa erano radicali opposizioni all’animalismo pietista: un’ampia parte dell’antispecismo si rende conto della riappropriazione degli aspetti più innocui ai fini di una nicchia di mercato. Il veganismo può essere visto come una scelta salutistica e questo è recuperabile da chi fa profitto. Quella parte che è una contestazione di un sistema di produzione violento è quella su cui dovremo trovare delle parole comuni.
Nel caso della pandemia la questione degli allevamenti è più invisibilizzata nonostante sappiamo sia una delle cause principali. Probabilmente perché tocca un privilegio. Noi abbiamo il privilegio di appartenere a quella specie che in linea di massima non può essere macellata, questo è un privilegio che dobbiamo riconoscere.
Perché la cosiddetta “carne felice” non è affatto un problema secondario rispetto all’orrore immane dell’allevamento intensivo? Come nasce e che cosa vuole denunciare il concetto di “bioviolenza”?
Marco Reggio: Il “Collettivo Bioviolenza” aveva iniziato a prendere di mira quelle realtà che facevano questa narrazione della “carne felice” mentre alcun* antispecist* si preoccupavano di più dei mattatoi della grande distribuzione. L’obbiettivo era quello di contrastare la narrazione funzionale a tacitare le coscienze in quanto l’opinione pubblica preferisce non sentirsi complice in maniera così spudorata e quindi è lì che interviene il recupero degli allevamenti di carne “felice”.
Cercando di assumere il punto di vista dell’animale tengo sempre a mente quella frase di Pattrice Jones che dice: «mangare carne è qualcosa che fai al corpo di qualcun’altro senza il suo consenso». È vero che l’allenamento intensivo è il luogo in cui la violazione del consenso sull’utilizzo del corpo dell’altro è più brutale, più pervasiva e meccanizzata ma le altre sono forme di “violenza dolce”, più moderata. La quantità di popolazione che consuma carne non permetterebbe mai di produrre senza l’allenamento intensivo.
Come osserviamo le forme di resistenza animale?
Marco Reggio: Il collettivo Resistenza Animale ha iniziato a scrivere su un piano più teorico, l’animalismo era una questione di generosità, è un movimento che parte dai disertori dello specismo. La voce dei senza voce. Ma lo sono veramente? Abbiamo iniziato ad osservare ciò che accadeva ai corpi oppressi scoprendo che non è affatto vero che sono senza voce perché si ribellano tutti i giorni.
Abbiamo un problema di linguaggio e non è legato solo alla specie perché esiste anche a livello umano, è sempre stato così anche riguardo alla follia, al disagio mentale, un non linguaggio e quindi persone che non hanno la parola e quindi si può parlare per loro. Qui il problema è più complesso, ma non significa che non siamo in grado di leggere nella fuga di una mucca dal mattatoio una forma di resistenza alla morte e il desiderio di libertà.
Chiaramente c’è un problema di comunicazione, non potremo mai sapere cosa sta pensando l’altro e che l’antropomorfizzazione è problematica ma non è da buttar via. Utilizziamo sempre queste forme, anche tra persone, che serve a renderci conto in maniera approssimativa dei pensieri dell’altro.
Abbiamo iniziato a rileggere i comportamenti animali che hanno molta analogia con l’ambiente carcerario come l’autolesionismo, l’aggressività tra simili o vere e proprie richieste d’aiuto con vere e proprie manifestazioni di dissenso capaci di far capire che c’è in gioco uno sfruttamento e una voglia di libertà e di autodeterminazione.
In che modo la resistenza messa in atto dall’orso M49 è stata fondamentale per la nascita della campagna #stopcasteller?
Francesca Manzini: Perché non ci definiamo “la voce dei senza voce”. Il mio primo ricordo di come è partita la campagna #stopcasteller è di settembre scorso al Venice Climate Camp, dove c’era uno striscione con scritto “M49 libero” e si riferiva appunto a questo orso – figlio di orsi reintrodotti nei territori trentini a scopo di ripopolazione – che aveva osato autodeterminarsi e quindi poi rinchiuso nella struttura del Casteller, vicino Trento.
Per ben due volte però, è riuscito ad evadere. Noi del centro sociale Bruno e altr* compagn* abbiamo iniziato ad interrogarci sul fatto che un orso ribelle che non accetta di essere rinchiuso, pretendeva la nostra solidarietà. È stato per noi immediato schierarci. Il centro sociale Bruno porta questo nome in ricordo di un orso che all’interno di questo progetto di ripopola zione è caduto vittima. Nel 2006 l’orso 661 varca due confini nazionali e una volta arrivato in Baviera viene ucciso. All’epoca avevamo appena occupato il nostro spazio e fu immediato vederlo come una metafora della libertà di movimento.
Per la prima volta quest’estate ci siamo ritrovat* a interrogarci sulla metafora quando in vece gli orsi stanno veramente chiedendo solidarietà attiva. La loro è resistenza e merita tutta la nostra attenzione.
Per tanti anni in Trentino c’è stata la calata dei classici gruppi animalisti che si autodefiniscono apolitici e che per tanti anni hanno fatto delle sceneggiate sul territorio al motto di “trentini assassini”, ma avevano purtroppo questa impostazione di “siamo la voce dei senza voce”.
Quest’estate di fronte a ben due fughe di quest’orso ci siamo ritrovati a dover scegliere se voltarci dall’altra parte o schierarci dalla sua parte? Abbiamo quindi definito la nostra lotta “per gli orsi e a fianco degli orsi”. È stato M49 con le sue fughe a creare un immaginario che anche oggi rimane assolutamente potentissimo.
Parlaci della questione degli orsi in Trentino: dalla reintroduzione forzata sul territorio col progetto “life ursus” alla proliferazione incontrollata di orsi “problematici” che “meritano” di essere rinchiusi e uccisi.
Francesca Manzini: Questo progetto nasce una ventina d’anni fa e l’idea era quella di reintrodurre nell’arco alpino l’Orso Bruno fino a formare una specie in grado di riprodursi ed essere stabile. L’orso non c’era nel territorio da circa 200 anni se non qualche soggetto isolato, chiaramente non in grado di proliferare. Quindi dall’alto viene presa questa decisione, vengono presi una decina di esemplari in Slovenia, si impacchettano e si trasferiscono in Trentino con lo scopo di farli riprodurre affinché ricreino questa popolazione stabile. Vent’anni dopo il bilancio è abbastanza impietoso. Non si sa bene quanti orsi ci siamo in questo momento (80/100), sta di fatto che in trent’anni sono stati 34 gli orsi che sono stati rinchiusi o uccisi da autorità o bracconieri.
Fino a poco tempo fa gli orsi rinchiusi erano tre, ora sono due perché l’orsa DJ3, che da dieci anni era condannata all’ergastolo al Casteller, è stata spedita in Germania in una specie di zoo.
Quello che poteva essere un progetto partito con una visione positiva di gestione del territorio è fallito perché di fatto non sono stati messi in atto tutto quegli accorgimenti che avrebbero potuto garantire una coesistenza più pacifica possibile.
Innanzitutto non è mai stata fatta informazione né a livello locale né di enti turistici sui comportamenti da adottare in un eventuale incontro con gli orsi. Dall’altro lato ciò che crea grandi disagi sono gli orsi “confidenti” che prendo l’abitudine di avvicinarsi ai centri abitati per rovistare nei cassonetti oppure fanno delle incursioni dove sono detenuti altri animali, per lo più allevati.
Attualmente si è creata la categoria dell’orso problematico, categoria che condanniamo perché non esistono orsi problematici. Tuttalpiù è problematico l’intento di inserire un animale selvatico in un contesto pesantemente antropizzato.
È notizia delle ultime settimane che la giunta del leghista Fugatti ha deciso che i prossimi orsi problematici meritano la pena di morte perché pericolosi per la cittadinanza.
La struttura del Casteller è facilmente sanzionabile, lo abbiamo fatto lo scorso 18 ottobre con la prima manifestazione della campagna dove il titolo era “smontiamo la gabbia” e letteralmente abbiamo danneggiato la struttura più esterna, e lo rifaremo. Il nostro intento rimane questo.
Le condizioni reali cui sono sottoposti questi orsi sono state documentate da attivist* anonim* e sono riusciti in un video di pochi secondi a far vedere le condizioni reali degli orsi. Ricordiamo che non è stato possibile far vedere la struttura neanche a due politici parlamentari.
È un tallone d’Achille avere questa struttura fisica in quanto può essere appunto sanzionata, quindi è stata scartata l’ipotesi di ampliarla per detenere altri orsi e si passerà direttamente all’abbattimento, che noi chiamiamo uccisione perché di questo si tratta.
Ad alcuni orsi è stato messo un radio-collare ed è stato detto chiaro e tondo : «o nel giro di poco capiscono che devono stare lontani dai centri abitati oppure verranno uccisi». La campagna #stopcasteller non ha alcuna intenzione di fare passi indietro. Con settembre ricominceremo a fare attività e cominceremo a chiedere conto non solo alla provincia autonoma di Trento, ma anche al ministro dell’ambiente rispetto al loro operato.
L’idea è di fare molta informazione in tutta Italia sulla situazione e tessere reti di solidarietà attiva.
Come si è diffusa la campagna #stopcasteller nei centri sociali e la conseguente inedita irruzione dell’antispecismo nel novero delle lotte degne?
Francesca Manzini: La costruzione della campagna nasce insieme ad Assemblea Antispecista e da una nuova possibilità di lettura rispetto ai molti anni in cui la sensibilità antispecista è stata una lotta secondaria, tipica di alcun* individu*, ma evidentemente l’antispecismo sta provando a prendere lo spazio che merita.
Al di là delle sensibilità già presenti all’interno del centro sociale Bruno sto vedendo molta curiosità e molto interesse anche da parte degli altri centri social, anche al di là della situazione in Trentino.
L’obbiettivo sarebbe quello di spronare tutte le realtà a vedere cosa succede nel loro territorio. Qui a Padova c’è un allevamento di visoni che meriterebbe la nostra attenzione
Conclusione (Giorgia Miotello)
Qualche mese fa in un allevamento a Villa del Conte (PD) sono stati trovati positivi i visoni. È chiaro ed evidente che la formula dell’allevamento mette i corpi degli animali più a rischio di infezioni e malattie in quanto non hanno uno scambio di batteri con l’esterno del loro recinto, sono tenuti costantemente sotto antibiotico con conseguente antibioticoresistenza nei corpi umani.
Sappiamo che il visone è l’unico animale (per ora) che è in grado di completare la catena dello spillover dal coronavirus del pipistrello, al visone, all’umano.
Non ci sono ancora idee chiare sulla sorte dei 3500 visoni (riproduttori) rimasti vivi all’interno dell’allevamento.
Abbiamo visto come la campagna #stopcasteller stia portando all’interno dei centri sociali la possibilità di una lettura nuova per noi rispetto al mondo che viviamo. Stiamo provando a interrogarci non soltanto sull’ipotesi o danno di una variante Covid per l’umanità ma anche di che cos’è per gli animali non umani il contagio.
Dovremmo pensare a preservare non soltanto la salute umana, ma quella di tutte le specie e avere nel 2021 un allevamento di corpi al solo scopo di mantenere il Made in Italy dovrebbe farci riflettere davvero molto.