Modelli e topoi della donna pirata (5)

di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

  1. Vite parallele (2)

Come detto, la narrazione di Johnson articola i racconti delle vite di Mary e Anne in due fasi, la prima a giustificare l’anomalia del loro arruolamento tra i pirati, e la seconda con le avventure di predazione. Sulla prima fase, sui topoi derivati e sul raffronto con il profilo della Jolanda salgariana qualcosa si è già accennato: mentre passando alla seconda, un elemento che subito emerge nel racconto di Johnson riguarda il coraggio che connota le due compagne in battaglia. Un coraggio generalmente considerato – e non solo all’epoca – valore ‘maschile’, ma vissuto dalle due con intensità peculiare («nel momento dell’azione – così i testimoni – nessuno era mai più risoluto o più pronto a un abbordaggio o ad alcuna impresa rischiosa più» di loro) forse anche per rivendicare provocatoriamente il diritto al posto sulla nave davanti ai pavidi compagni maschi. Una sorta insomma di ulteriore ‘giustificazione’, non solo da parte delle interessate ma dello stesso narratore.

Anzi le due motiverebbero anche idealmente quella necessità e il suo ovvio (è il caso di dirlo) pendant, cioè il rischio della forca: non certo a sognare una bella morte – da cui faranno il possibile per sfuggire – ma a proclamare un senso a una vita discostata da schemi e valori istituzionali. Stigmatizzando – così Mary, e Anne pare d’accordo – che senza quel rischio i veri delinquenti, quelli che approfittano di vedove, orfani e vicini poveri, prenderebbero a predare anche sui mari: una giustificazione plausibilmente sincera, dove istanze di giustizia sociale (Mary pensa forse alla coeva «massiccia e violenta riconversione dei rapporti di proprietà che aveva luogo nella nativa Inghilterra»[43]) vanno a braccetto con l’urgenza di affermare una propria identità e dignità. La ritrosia stessa ad ammettere – solo a condanna pronunziata, e quasi a malincuore – di essere incinte sembra indicativa di un pudore che ha a che fare con una definizione di sé.

Se la fortuna popolare del tema della donna guerriera conoscerà riflusso ed eclissi con l’emergere di un concetto borghese di femminilità all’inizio dell’Ottocento, pure esso sopravvivrà in chiave di archetipo con significati diversi, quale icona fascinosa, provocatoria e magari provocante per la cultura dominante maschile (arrivando in ultimo fino ai modelli su schermo), e per contro come sogno di emancipazione e indipendenza per le donne. Anzi la frequente ripubblicazione della storia di Mary e Anne

nella letteratura romantica del diciottesimo, diciannovesimo e ventesimo secolo ha sicuramente catturato l’immaginazione di molte giovani donne che si sentivano imprigionate nel concetto borghese di femminilità e domesticità. Julia Wheelwright ha sottolineato che le femministe del diciannovesimo secolo utilizzavano spesso l’esempio delle donne soldato e marinaio ‘per mettere in discussione l’idea dominante dell’innata debolezza fisica e mentale della donna’. Bonny, Read e le altre rappresentavano la confutazione delle teorie allora prevalenti sull’incapacità femminile[44].

D’altra parte, più pragmaticamente, il coraggio risulta una risorsa; e anzi l’unica possibile ricetta per la sopravvivenza propria e dei propri cari (l’uomo amato da Mary), non solo in una società violenta come quella della Tortuga, ma più in generale in un mondo di poveri dove Mary Read e Moll Flanders camminano una accanto all’altra. Se la lettura generalizzata della pirateria dell’Atlantico come forma di lotta di classe da parte di qualche proletariato fa perdere di vista la maggiore complessità del fenomeno – come ricostruisce Valerio Evangelisti nel suo ciclo di romanzi pirateschi[45], in cui emerge invece con lucidità un certo rapporto tra filibusta e protocapitalismo americano – è indubbio che temi ed elementi di rivolta sociale siano effettivamente presenti nelle testimonianze. Questi aspetti si perderanno completamente nelle riletture cinematografiche del personaggio della piratessa.

In effetti il racconto non parla solo della possibilità della forca, ma della sua realtà concreta – a cui le due eroine picaresche sfuggono. Lo spettacolo della forca (magari accompagnato dagli spaventosi sermoni grevi di moralismo, santificazioni dell’ordine e terrori assortiti per voce di predicatori come il famoso e famigerato Cotton Mather) è all’epoca un vero e proprio teatro del conflitto sociale: esecuzioni collettive di pirati, come quella avvenuta a Providence nelle Bahamas nel dicembre 1718 (insomma proprio negli anni e sui luoghi delle Due) col Jolly Roger issato a monito sul patibolo e cento soldati schierati, vedono i condannati opporre con discorsi provocatori alla folla il proprio stile di vita contro il potere che li condanna. Ma trasformato il mondo e trasposte le vicende piratesche in racconti d’avventura, il patibolo riemergerà come frequente elemento di drammatizzazione avventurosa non privo di risvolti feticistici: e l’esecuzione interrotta all’ultimo momento, della piratessa o del partner amato/odiato (a seconda delle versioni), costituirà come vedremo un fortunato ed edulcorato topos di romanzi e film.

Del tema del travestimento maschile già si è parlato trattando la prima fase del racconto – ma nella seconda riemerge con sviluppi ulteriori sui due fronti dell’identità e dell’erotica. Se, come detto, l’interpretazione dell’episodio – ai limiti della commedia – sulle inattese rivelazioni incrociate tra Mary e Anne si profila equivoca, pur senza forzarne i diversi echi allusivi resta inevitabile pensare alla costellazione tematica delle pratiche (omo)sessuali sulle navi pirata. Di tali prassi, attestate dalla documentazione d’archivio, l’episodio in questione potrebbe insomma costituire una (velata) emersione in chiave narrativa: uno spunto-chiave in realtà poi mai utilizzato nella mitopoiesi su schermo.

D’altro canto, pur attraverso la diversità caratteriale tra la pudica Mary e la disinvolta Anne, un elemento comune alle rispettive vite sentimentali emerge in una certa libertà dalle forme istituzionali: in particolare da quelle dinamiche matrimoniali che le documentazioni d’epoca vedono sempre più ossessivamente associate alla conservazione della proprietà – per chi ovviamente ne abbia. La ‘vendita’ con cui Anne si concede a Rackham, le sue relazioni da libertina, compresa forse quella con Mary, e il matrimonio di coscienza di quest’ultima si inscrivono insomma in quell’orizzonte della libertà coniugale che indurrà l’Inghilterra nel 1753 a promulgare il cosiddetto Hardwicke’s Act, per far considerare giuridicamente valido solo il matrimonio celebrato pubblicamente in chiesa. Anche da questo punto di vista le suggestioni cinematografiche, coi loro ‘buoni’ sul fronte dell’ordine, tendono in generale verso sviluppi conservativi.

E c’è poi il tema della morte, dove ancora una volta Johnson lavora sui documenti – e la sua onestà è dimostrata dall’ammissione d’ignoranza con cui chiude la storia di Anne. Un finale in fondo non conciliatorio, e che non sarebbe spiaciuto a Sade: l’onesta Mary muore, la disinvolta Anne in qualche modo si salva. Del resto, senza nulla togliere alla storicità della chiusura, si tratta della logica del romanzo picaresco, dove a cavarsela – giungendo magari a tarda età, come plausibilmente Anne – è il più fortunato e il più abile, non certo il più candido. Anche in questo caso gli schermi procedono verso finali molto più concilianti.

Se tale è il quadro su Mary e Anne (ma soprattutto, ribadiamolo, sulle Mary e Anne di Johnson e dell’immaginario condiviso dei lettori), ancora una volta le affinità con la Jolanda di Salgari sono scarsine – a partire da un coraggio che emerge in forme del tutto diverse.

Certo, Jolanda è donna, e come tale dotata – per il (tardo)romantico Salgari, ma in fondo ancor oggi per l’italiano medio – di una peculiare sensibilità: per cui impedisce che si uccidano i prigionieri[46], sa commuoversi per gli uomini inabissati con la nave[47] e, talora, persino per gli animali (l’uccello agami, avvicinato con un trucco dal compagno Carmaux per finire arrosto[48]). Una sensibilità che la rende d’altronde icona di devota crocerossina al fianco di Morgan ferito e vaneggiante di febbre nella foresta, commossa[49], ma efficiente nel medicare[50], e capace di vegliare indefessamente accanto a lui[51]. Mostrandosi anzi, persino in tale situazione estrema, icona di perfetta casalinga: «Non dimenticava anche la cena e faceva raccolta di mangli […] e anche dei grossi aranci, che faceva cadere dai rami più bassi servendosi della spada»[52], nonché di uova di trampolieri, per cui «[s]cartò quelle passate, raccolse quelle che dalla loro trasparenza le parevano più fresche e le mise nella sottana, che aveva doppiata attorno alla cintola»[53]. Fino ad abbattere un lamantino tranciandone un’abbondante porzione da cucinare[54].

Ma d’altro canto Jolanda è pure modello di coraggio: prima sul mare, dove affronta quietamente intrepida la furia delle onde e la prospettiva di affondare[55], e poi in quella foresta piena di minacce e luogo d’iniziazione che la vede passare da ragazza a donna. In quel contesto mitico-simbolico dove impazza il serpente[56], Jolanda, a differenza di Eva, dimostra lealtà assoluta e cura intelligente verso Adamo/Morgan: appare come la ragazza con la pistola, capace di vegliare sul compagno ferito se necessario facendo fuoco, per cui abbatte un antropofago[57]; uccide un ragno mostruoso[58]; accanto al ferito vaneggiante fronteggia un giaguaro («Ritta sempre dietro ai due fuochi, colla spada tesa e la pistola nella sinistra, lo fissava intrepidamente, risoluta ad opporre la più fiera resistenza. Non tremava più: si era irrigidita ed i suoi muscoli in quel momento si sentivano capaci di sostenere qualsiasi urto, pur di difendere il filibustiere che dormiva dietro di lei»), e infine volge in fuga la fiera col fuoco[59]; accorre in aiuto di Morgan costringendo a fuggire anche un coguaro[60]. Per scontrarsi, spada alla mano, addirittura coi cannibali: «La scherma non le era sconosciuta e sapeva valersi delle armi usate in quei tempi» – una notazione peraltro offerta quasi di sfuggita – anche se poi medita di soccorrere un aggressore ferito[61].

Se però le sue proiezioni e i suoi epigoni al cinema brilleranno nell’uso delle armi in tutti gli scontri possibili, la Jolanda originale le utilizza solo in questo paio di occasioni contro gli antropofagi: nello scontro sulla nave, come abbiamo visto, si limita a brandire la spada (senza usarla) e fatta prigioniera non tocca le armi, neppure nella convulsa scena finale dove in fondo ce lo aspetteremmo. Va detto che Jolanda resta un’aristocratica: meglio, un’aristocratica descritta da chi, come Salgari, aristocratico non è, e paludata delle virtù – coraggio, pietà, sensibilità – che un certo tipo di educazione dovrebbe coltivare. Anche una basilare educazione alle armi rientra dunque nel contesto di ciò che un ipotetico aristocratico d’epoca potrebbe aver fatto insegnare alla figlia, senza snaturarne in alcun modo la femminilità. Se poi Jolanda corre varie volte il pericolo di essere uccisa, non rischia mai il patibolo.

A differenza peraltro delle linfatiche e decadenti eroine di tanta letteratura dell’epoca, Jolanda gode di sano e buon appetito (come quando «[s]i sedette sull’orlo della zattera, mettendosi a fianco la spada e trangugiò una mezza dozzina d’uova»[62]); mostra un’innegabile ingegnosità costruendosi «una piccola tettoia per ripararsi dai raggi del sole diventati ardentissimi»[63]; e sembra far propri gli insegnamenti del quasi coevo Amore e ginnastica di De Amicis, 1892: «Aggrappandosi alle liane, che pendevano numerose dai tronchi e che erano resistenti come corde di canape e, badando attentamente dove posava i piedi per non venir inghiottita dalle sabbie, dopo un quarto d’ora di ginnastica faticosa si trovò finalmente sul terreno solido»[64].

Nei fatti, le sue doti le guadagnano una crescente, incondizionata devozione di Morgan che presto diverrà passione. Ma col tradimento di alcuni autoctoni dei Caraibi, Jolanda è di nuovo catturata e si cerca nuovamente e senza frutto di estorcerle la cessione dei beni di famiglia in America: e parallelamente restano frustrati i tentativi dei pirati di intercettare i rapitori prima che la trascinino nell’imprendibile Panama. Tra varie avventure, pur di recuperare Jolanda, Morgan si risolve dunque infine alla mossa più azzardata, attaccare la città: e all’inizio del 1671 i pirati, forti della maggior flotta mai raccolta alla Tortuga, e facendosi strada tra fortini da espugnare, borgate incendiate e attacchi di indiani, riescono dopo un furioso combattimento a penetrare in Panama. Al capitolo trentacinquesimo, ultimo del romanzo, Morgan e i più fidati ex-compagni del Corsaro Nero, tra i quali i vecchi Carmaux e Wan Stiller – i caratteristi più continuativamente in scena – irrompono infine nella sala del palazzo dove il villain Medina sta per l’ultima volta cercando di spingere Jolanda a firmare, e il bozzetto la dice già lunga: «Di fronte, dall’altro lato della tavola, si trovava Jolanda, ritta, in una posa fiera e risoluta. / – No, signore, non firmerò giammai! – aveva gridato». Una scena – considerando la città ormai caduta – dai risvolti un tantino surreali e dal valore soprattutto simbolico.

All’arrivo però dei filibustieri Medina spara contro Jolanda e uccide il capitano pirata Pierre le Picard che si è esposto bravamente per proteggerla: a quel punto la ragazza, pur nel mezzo dello scontro, si inginocchia presso il corpo e «pareva che pregasse» – tanto che rischia di essere trafitta alle spalle dal villain in seconda del romanzo, il perfido capitano Valera, subito dopo infilzato da Wan Stiller. Indomita nel resistere all’oppressione, pia, ora la ragazza si mostra anche misericordiosa, tentando di intervenire per far risparmiare Medina già ferito da Morgan: ma la «botta segreta del Corsaro Nero» – sorta di rivalsa simbolica del padre defunto contro la stirpe dei traditori – arriva più veloce e lo abbatte. La scena, che definisce un ritratto meglio di tante parole, merita di essere citata:

Jolanda si era precipitata verso il conte, pallida come una morta, commossa.

– Signor conte!… – gli disse, inginocchiandosi presso di lui e prendendogli le mani che diventavano ormai già fredde. – Perdonatemi… non volevo la vostra morte…

Il bastardo aprì gli occhi già velati e li fissò sulla fanciulla. Rantolava ed una schiuma sanguigna gli macchiava le smorte labbra.

Fece cenno che lo rialzassero.

Morgan, gettata via la spada con un gesto di orrore, si era pure inginocchiato presso il morente e lo aveva aiutato a sollevarsi, onde il sangue non lo soffocasse.

– Sono… stato… cattivo… – mormorò con voce semispenta. – Perdonate… mi…. Jolanda… perdona… temi… dite…lo.

– Vi perdono, signor conte – rispose la fanciulla, singhiozzando […].

E il villain pentito fa ancora in tempo a benedire maschiamente con una stretta di mano l’amore di Morgan per Jolanda[65]. Al di là di una stridente non-corrispondenza tra questo cavalleresco Morgan e il suo pragmatico e furbetto modello storico – beninteso per la sovrana libertà dello scrittore, nell’ambito di un romanzo godibilissimo – è evidente che la Jolanda qui descritta è un modello di virtù italiche dell’Ottocento e una sorta di sogno di Salgari per le generazioni future. Mentre ha ben poco a che vedere con le virtuali sorelle descritte da Johnson:

Jolanda si era alzata piangendo. Staccò dalla parete un crocefisso, lo depose sul petto del conte, poi gli chiuse gli occhi.

– Andiamo, signora – disse Morgan, tergendosi due lagrime. – Tutto questo sangue mi fa orrore.

E la trasse con dolce violenza fuori da quella sala dove cinque cadaveri giacevano al suolo, illuminati dalla funebre luce dei doppieri.

Un mese e otto giorni più tardi si celebrano infine alla Tortuga le nozze tra Jolanda e Morgan che, trasferitosi in Giamaica «colla giovane sposa che adorava», inizia la sua (spregiudicata) carriera di governo, mentre anche i vecchi compagni si ritirano a vita privata. A differenza di Mary e Anne, con le loro relazioni al di fuori di forme e schemi istituzionali, Jolanda conosce la tradizionale dinamica di castità prematrimoniale (catafratta dalla devozione dei suoi amici, peraltro compagni del padre) e matrimonio istituzionale, dove anche i beni già concupiti dal villain trovano un giusto assetto.

Jolanda, assurta a modello di sposa amatissima e amantissima, esce insomma di scena con tale fuggevole inciso – dal romanzo ma in fondo dal ciclo, perché nel prosieguo si guadagnerà solo alcune rapide menzioni come moglie di Morgan. Mentre le altre figure femminili, pur solidali coi pirati come la bella Neala, sorella del Corsaro Rosso, non verranno considerate piratesse.

[43] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., p. 124.

[44] Ivi, p. 127. Per il testo citato, cfr. Julia Wheelwright, Amazons and Military Maids: Women Who Dressed as Men in the Pursuit of Life, Liberty, and Happiness, London, Pandora, 1989, pp. 15 e 119 (citazione).

[45] Tortuga, 2008; Veracruz, 2009; Cartagena. Gli ultimi della Tortuga, 2012 – tutti Milano, Mondadori, nella collana «Strade blu». Si veda, a firma di chi scrive, L’anno scorso a Cartagena, “LN │ librinuovi.net”, 1° maggio 2013 (ultima visita: 7 agosto 2021) e Evangelisti, predazioni americane, “Club Dante”, 28 maggio 2013 (ultima visita: 7 agosto 2021).

[46] Cap. XIV.

[47] Cap. XX.

[48] Cap. XIX.

[49] Cap. XX.

[50] Cap. XXI.

[51] Cap. XXII.

[52] Cap. XXI.

[53] Cap. XXIV.

[54] Cap. XXIII.

[55] Capp. XIII, XIV, XVIII.

[56] Cap. XX.

[57] Ibidem.

[58] Cap. XXI.

[59] Cap. XXII.

[60] Cap. XXV.

[61] Cap. XXIV.

[62] Cap. XXV.

[63] Ibidem.

[64] Ibidem.

[65] Viene da domandarsi quanto abbia influito sulla genesi della figura di Jolanda la famosa, storica vicenda della ‘bella signora di Panama’ («La Santa Roja») corteggiata ora con cavalleria ora con brutalità da Morgan – quasi che il pirata salgariano e il conte di Medina rappresentino in chiave schizoide due personalità del Morgan storico. Alla vicenda, John Steinbeck dedicherà peraltro il suo celebre Cup of Gold: A Life of Sir Henry Morgan, Buccaneer, with Occasional Reference to History, New York, Robert M. McBride & Co., 1929 (trad. it. La Santa Rossa. Romanzo, unica traduzione autorizzata dall’inglese di Giorgio Monicelli, Milano-Verona, A. Mondadori, 1947).

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