Farfalla

di Gemone di Velieronero d’Oltremare

al mio primo lettore, Matteo.

Palazzo Genovese, là, lontano. Molto vicino alla Salute. Quasi la «tocca», la «respira». Delle simpatie, mi ha accordato, la Basilica. Delle propensioni destato. Dei vuoti di pensiero causato. E altri partitivi, potrei considerare. (Come non rimanere privi di idee dinanzi a lei? Stupisce. Trasporta. Come non ritenerla «viva»? Ricambio prontamente. Checché possa sembrare).

Da laggiù proveniva la gondola dell’Angelo della Morte con la sua tromba. Sulla prora non aveva la solita urna ma due torce capovolte. Spente. Volute smorzate. Abbassate. Piatte. Niente di troppo elaborato. Nulla che potesse ricordare cippi romani, Prometeo che modella corpi e Atena che li avviva con  farfalle/anime. Il legno di frassino della cassa non era integro. Rigenerato naturalmente con dell’olio rosso. Qua e là era esposto e farinoso. Segni. Tacche. Sul coperchio una sottile croce fissata con due chiodini punzonati a testa bombata. Ne vidi altri e altri fare quest’ultimo «viaggio». A marea entrante e uscente dalle bocche di porto. Sopravvento e sottovento.

Davanti alla Maddalena, un’altra volta. Dove il rio fa un gomito dopo il ponte. Tagliava l’acqua sommessamente. Ritto. Testa bassa. Con un accenno di passo, aveva ancora un’aria dimessa e rammaricata. Dalmatica sottile sino ai sandali di cuoio morbido con allacciatura poco sopra il malleolo. Corregge, poche, che lasciavano quasi libero il dorso del piede diafano. Stese con poca tensione. La figura di profilo torse improvvisamente il collo e mi fissò sollevando le pupille vivide e sconosciute. Mi turbò tanto. Altresì vedere un angelo non è cosa manifesta ai più né priva di impatto emotivo. Ma quello sguardo! Ebbe in me una tale forza di coinvolgimento che scappai col petto ansimante fino alla Calle della Scuola  ̶  sul lato posteriore del pantheon, laddove la fondamenta sottolinea di più il rialzamento di se stessa. Chiusa da un cancello di ferro. Piccolo e brutto. Mi appoggiai a esso. Non sguarnendo l’accortezza che si levava alta ancorché tutt’intorno  fosse placidamente distinguibile e fermo.

Più su. Più giù. Il Fontego dei Turchi e Ca’ da Mosto. Quivi altri incontri poco graditi. Altre dipartite per mare. Gelidamente ingombrante e di sacrale presenza. Ali immense che digradavano chissà dove mentre perdevo – lemme lemme – criterio. Excursus quanti ne volete.

A Campo dei Gesuiti mi «nascosi». Sempre un rio vicino. Perché le vie si muovono. Si ha sempre voglia di… procedere. A mente fredda. Tutta  questa fretta a quale vantaggio?

Mi stesi sull’impiantito. Senza muovere un solo muscolo. Occhi spalancati e asciutti. Sentivo il cuore e sul pericardio un sentimento freddo, lungi dall’essere depauperato dalla calda serotonina delle cellule enterocromaffini. I lati della bocca aggrottati e un grido forte da non essere definito «umano»… La respirazione si fece silenziosa. Sonno.

Un intruso mi abbrancò il collo con le mani. Gli opposi, colto alla sprovvista, a difesa di me stesso, della forza non altrettanto sufficiente. Svenni; prima quel peculiare appannamento visivo sinonimo di perdita… Seduto. Del sentore di saldatura a elettrodo. Saldatrice. Pinza porta-elettrodo. Morsetto di massa. Scintille. Un box davanti a me. Pannelli a formare un cubo e una grata. Grata saldata a esso da cordoni metallici.

Con intonazione di smarrimento: «Che sta succedendo?!! Cosa vuoi da me??!»

Non lo vedevo ma c’era. Avevo polsi e caviglie interdetti. Il collo attorniato da un collare dal quale, a raggiera, divergevano barre aguzze e fredde: mi ferivano. Scattavano a ogni movimento brusco, correlate a un finecorsa tarato per non bucare vasi sanguigni importanti. Nella mia «celletta» rimanevo quando il mio carceriere si allontanava. A volte per tante o per poche ore. Non potevo tentare il possibile per evadere perché le pareti erano ben salde e perché subito, il collare innescato, mi riportava alla realtà.

Quando rientrava mi faceva uscire. Dava subito uno sguardo al collo. Se sanguinavo me le dava di santa ragione. Che poi, per l’appunto, se ne accorgeva dal meccanismo di contenimento azionato. Mi allungava da mangiare dopo avermi medicato con alcol etilico e cerotti a nastro. Non aveva bisogno di mascherarsi perché la luce, nella stanza, era sempre vaga. Sotto interrogatorio avrei potuto dire che aveva un paio d’occhi, un naso e una bocca come tutti, ma mai sarei giunto a precisarne i giusti contorni, le effettive misure, gli «evidenti» tagli fisionomici, le reali proporzioni: se queste fossero state asimmetriche o regolari. Per di più non vedere in volto il proprio assalitore è notorio che non porta ulteriori problemi: certo è che se ha deciso di farla finita poco importa averlo visto; ma taluni, e ne parlo con cognizione di causa poiché anch’io lo sono, possono avere degli «slanci» di generosità, e questi non sono vettori di umanità. Tutt’altro, un alienato che perdona può sentirsi, addirittura, divino. Difficile capire il pensiero umano, nella fattispecie se è alterato da una direttrice che vuole devianza. Quindi come si può capire un folle attraverso una mente indottrinata dal due più due uguale quattro? L’insensatezza ha altri parametri e costanti. E non si possono catalogare. Da qui congetture poco esatte come previsioni del tempo. Il perché una mente disturbata abbia voluto mettere il sale sulla coda non lo si può sindacare con tutta una serie di paroloni in medichese che, tra l’altro, manco tengono la sintassi. È vero, come detto, ci sono le costanti. Ma non bastano per diagnosi e prognosi. La cocciutaggine, nonostante tutto, non decade.

Lo guardai in volto e non riuscii a vederlo. (O vederla, poteva anche essere una donna). Sapevo che le sue intenzioni fossero nefaste.

La fine di Gian Gastone – ora in San Lorenzo – causò l’estinzione della propria dinastia. L’eliminazione di una preda non porta alla soffocazione di un impulso. Ripeto che il suo aveva un andamento che non prometteva bene. Non mi restava che di procacciarmi il modo per ribaltare la situazione. O di approfittare di una sua mancanza. Non mi chiedevo se agisse da solo o per conto terzi. Volevo solo liquidarlo.

Un parapiglia, non lontano. Recuperata la funzionalità di mani e piedi: non più assicurati, ebbe il dovuto. Non serve alla storia dire come e con che cosa mi tolsi d’impaccio. Puntualizzare che gli feci male, sì; risollevai la considerazione che nutrivo di me stesso. Feci sparire il box (il solo inglesismo è indigeribile) e con lui quello che rimaneva del dannato: ammassato sulla Fondamenta Zen prospiciente al Rio Santa Caterina. Lo avevo imballato e inscatolato e trasportato mediante un carrello portapacchi. Smontate le ruote per lubrificarne i mozzi. E coppiglie per bloccarle.

Arrivò l’Angelo. L’anima si staccò dal dannato producendo un rumore, uno strappo. La donna aveva i capelli fini come i miei. Divenne una farfalla che fluttuò accanto al nauta. Quest’ultimo non mi guardò. Insensibilmente sicuro. Caricai la cassa. E ripartì. Rio dei Gesuiti. San Michele. Nemmeno ci arrivò. Suonò la tromba. Il Giudizio. Immaginatevi, in mezzo al mare, un tribunale. Niente pavimento e soffitto. Senza muri. (Proprio in mezzo). Sediette per la giuria. Banco degli imputati. Poco lontano magistrati e giudice in rosso-pallido da Consiglio dei Dieci. Nessuno parlava. Provai un forte senso di rimorso. Mi stavo autopunendo senza motivo apparente. La  mente passava in rassegna tutte le vicissitudini della mia vita. E questo carceriere che era una e non uno non mi puniva ma mi autopunivo. Mi ero segregato: lo avevo fatto da me allontanandomi dal resto delle persone.

Il rimorso per una parente che non c’è più primeggiava. Lo avevo decifrato. Eppure l’arma di questo sentimento granuloso m’era parsa nuova. Male interpretata. Contrastandolo pensavo di affrontare un nemico. Un estraneo.  Quando lo uccisi credetti fermamente di averlo fatto. Tante cose ci lasciamo per strada credendo di averle sorpassate. Nientedimeno dimenticate.

In Campo tutto sembrava fuori posto ma non lo era. Ripresi a fare la mia vita. Non mi dimenticherò ciò che mi dissero i togati: niente.

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