Modelli e topoi della donna pirata (8)

di Franco Pezzini

(per la puntata precedente, cfr. qui)

 

  1. Le ultime filibustiere (dagli anni Settanta al nuovo Millennio)

In realtà negli anni Settanta il cinema d’avventura ‘classico’ sta ancora proponendo titoli egregi, basti pensare – proprio in tema salgariano – alle produzioni dirette da Sergio Sollima, con la migliore delle trasposizioni del ciclo indo-malese mai apparsa, cioè lo sceneggiato televisivo Sandokan, 1976 – donde vari seguiti più o meno concatenati[73] – e un apprezzabile Il Corsaro Nero, sempre del 1976: in entrambi i casi la protagonista femminile è interpretata da un’incantevole Carole André. Ma se mai una versione di Jolanda viene presa in considerazione da Sollima, nei fatti il tema della piratessa non ha sviluppo: la stagione d’oro è ormai passata.

Come conferma in fondo la vicenda del più celebre dei film mancati di questo filone, progettato in Inghilterra agli inizi degli anni Settanta: sto parlando di Mistress of the Seas, in assoluto tra i titoli più noti di quel ricco fondo di pellicole irrealizzate dalla casa britannica Hammer di cui i cultori hanno pazientemente ricostruito la storia[74].

Il punto di partenza è l’omonimo novel di John Carlova sulla vita di Anne Bonny, da cui Val Guest riscrive nel 1972 una prima versione per lo schermo: la vicenda storica viene riletta liberamente (vi è immesso anche Barbanera, come del resto in Anne of the Indies) e si medita di affidare il ruolo principale a Raquel Welch. Michael Carreras della Hammer sarebbe il produttore, ma la Universal – che dovrebbe sostenere la casa britannica – rifiuta il progetto. Di cui restano almeno alcune locandine, a opera – come spesso per la Hammer – del grande illustratore Tom Chantrell, e che ci fanno rimpiangere il mancato varo. Una di esse – ne esistono due versioni quasi uguali – mostra una figura femminile un po’ discinta e armata su un corrusco sfondo rosseggiante, con uno scontro di navi lontane su cui garrisce enorme il Jolly Roger: il titolo Mistress of the Seas in grandi lettere a stampatello, ondulate come se fossero scritte sull’acqua, occupa tutta la metà inferiore del manifesto. Ma un altro, con lo strillo «The true story of Anne Bonney who slashed her way to fame and fortune alongside the most dreaded scourges of the Caribbean!», sembra più emblematico dei contenuti, mostrando oltre al solito titolo ondulato – più piccolo, in basso – una serie di bozzetti di scene del film. Certo solo virtuali, perché Chantrell lavora in anticipo sulle indicazioni offerte dalla casa produttrice, e anzi per attrarre interessi finanziari al progetto: ma che comunque suggeriscono almeno qualcosa della trama. Il primo piano – porzione destra – è occupato dalla figura eretta di Anne (riconoscibile la prevista interprete Raquel Welch), camicia annodata a coprire i seni, cinturone su una specie di perizoma, stivali ai piedi e armi nelle mani: e qui sembra fare irruzione nel cinema lo stereotipo provocante oggi tanto condiviso nell’immaginario popolare. In secondo piano nel manifesto ci sono i citati bozzetti: per cui vediamo, da sinistra, uno scontro navale, poi una figura femminile, plausibilmente Anne, trascinata al capestro, e la stessa Anne che sollevandosi nuda da un letto – ma velata dalle coperte che stringe – punta la pistola; seguono una scena di fustigazione da parte di Anne, un’immagine di pirati alle prese con un cannone, un viso maschile con benda sull’occhio (Barbanera?), e infine una figura nuda – forse ancora Anne – reclina su un’altra. La dimensione erotica è insomma abbastanza evidente.

Comunque Guest e Carreras non si arrendono, e nel 1979 riprendono in esame l’idea che sembra promettente: Anne dovrebbe essere interpretata stavolta da Caroline Munro, ma il crollo della Hammer blocca tutto.

Pochi anni dopo, nel 1982, si riparte. A riconsiderare il progetto – riscritto dallo stesso Guest, e reintitolato stavolta Pirate Annie – sono il produttore John Derek e la celebre, pettoruta moglie Bo candidata al ruolo principale, che effettuano un giro di perlustrazione di possibili set tra le isole greche. Per la parte di Rackham si pensa a Klinton Spilsbury, mentre finanziatrice sarebbe la cbs Theatrical: ma disaccordi sul budget – più che su divergenze artistiche, come comunicato – fermano ancora il film.

A riprendere in seguito l’idea è la Columbia, col produttore Jon Peters e il regista Paul Verhoeven: e stavolta si medita di girare il film proprio nei Caraibi. Si tratterebbe però di una versione R-rated, riscritta da Michael Christofer, e «as graphic as it can» – così Verhoeven, secondo cui il titolo dovrebbe suonare The Sexual Adventures and Erotic Escapades of Anne Bonney. Contenuto ‘caldo’ confermato dalle testimonianze della prevista protagonista, Geena Davis, che per la parte deve imparare a duellare, cavalcare, cavarsela in acqua. Dietro pressioni della Columbia, il progetto viene però ricalibrato su una storia più tradizionalmente d’amore, il classico triangolo tra Anne (ripensata come una sorta di Scarlett O’Hara in versione marinara) e un paio di figure di pirati; e visto che per uno dei ruoli è in lizza Harrison Ford, l’idea è di aumentare il peso del relativo personaggio a danno di quello della protagonista. Si prevede l’uscita nel 1994: ma poi le solite, diplomatiche divergenze artistiche sono annunciate a motivo prima dell’abbandono di Verhoeven, cui subentrerebbe per pressioni della protagonista l’allora marito Renny Harlin, poi dell’abbandono della medesima Davis (insoddisfatta del ridimensionamento della propria parte) con ritorno di Verhoeven. Il produttore Peters valuta allora le possibili sostitute: si parla di Jodie Foster, Laura Dern, Sharon Stone; e in ultimo la prescelta Michelle Pfeiffer, perplessa per la quantità di nudi richiesti, finisce col ritirarsi. Il progetto pare insomma affossato.

Eppure non è ancora finita: un breve script piratesco di Michael Frost Beckner e James Gorman raggiunge la Carolco Pictures e stavolta viene offerto proprio a Renny Harlin. Raynold Gideon e Bruce A. Evans lo riscrivono, Geena Davis ritorna al ruolo di piratessa – che le viene allargato apposta da Susan Shilliday – mentre per il partner maschile fioccano i rifiuti finché non accetterà Matthew Modine. Il set stavolta si sposta tra Malta, la Tailandia e gli inglesi Pinewood Studios; e il risultato è il divertente e un po’ vacuo Cutthroat Island (Corsari), 1995, una produzione Francia/Germania/Italia/usa che quasi sintetizza così sul fronte dei finanziamenti la storia delle produzioni sulle piratesse. A firmare la sceneggiatura sono Robert King (che in un mese deve ricostruire la storia allargando ancora un po’ la parte della protagonista) e Marc Norman; e pare venga pagato anche il pur uncredited Val Guest, a far supporre qualche parentela tematica con le sue originali scritture per la Hammer – «non per suggerire che Cutthroat Island sia una versione finale di Mistress of the Seas, ma che c’erano elementi di esso nel film uscito»[75]. Nei fatti però il regista sta soprattutto costruendo una storia su misura per sua moglie, la statuaria Geena Davis nei panni di Morgan Adams, figlia del pirata Black Harry (Harris Yulin).

Giamaica, 1668: dopo aver rischiato il patibolo in seguito a una notte d’amore con un tenente britannico deciso in realtà a consegnarla al Governatore – sorta di citazione di altre pellicole già citate – Morgan apprende che il padre è stato rapito dal pessimo fratello Dawg Brown (Frank Langella, l’ex-Dracula del film omonimo di John Badham, 1979), che minaccia di ucciderlo come ha già fatto con un altro congiunto. Il tutto per metter le mani sulla mappa di un tesoro spagnolo: Morgan tenterà dunque rocambolescamente di salvare il genitore, che però ferito a morte le lascia la propria nave Morning Star e relativo equipaggio, e si fa rasare la testa dove reca tatuata una parte della famosa mappa. Asportato lo scalpo, la nostra eroina scopre però dal letterato John Reed (Maury Chaykin), che viaggia con lei, che la mappa è redatta in latino: occorre trovare qualcuno in grado di tradurlo, e per questo si reca a Port Royal dove compra all’asta come schiavo – citazione da Capitan Blood – il belloccio ed erudito William Shaw (Matthew Modine), condannato a quella pena per furto. William è affascinato da Morgan, ma inizialmente non è vero il reciproco; comunque la traduzione è presto compiuta. Poi Morgan riesce a recuperare anche la seconda metà della mappa – il completamento dell’atlante del tesoro costituisce un altro topos del romanzo d’avventura – da un altro zio, Mordechai (George Murcell), prima che Dawg, che ha la terza parte, faccia fuori anche lui. Infine, raggiunta l’isola Cutthroat (nome parlante: “tagliagole”) indicata dalla mappa, tra infinite avventure e difficoltà Morgan otterrà l’oro spagnolo, ricambierà l’amore di William e riuscirà anche a cavarsela nell’ultimo scontro con Dawg, per l’occasione trascinatosi dietro la marina britannica. A questo punto,

[r]icordare La regina dei pirati è inevitabile: come capitan Provvidenza, Morgan è una donna pirata che opera nei Caraibi; come lei ha un rapporto di dipendenza o di parentela con un pirata «duro», zio o padre adottivo (Barbanera, nel film di Tourneur, e qui Dugw [sic] Brown). Tuttavia mentre in Tourneur motore dell’azione, pervasa da un afflato poetico di indubbia bellezza, era la sessualità, qui è soltanto un volgare scambio di ruoli: Geena Davis interpreta una parte che il cinema classico riservava agli uomini. […] E si inganna chi crede che questo sia un modo per diventare protagoniste del cinema d’avventura, da parte delle donne: qui si narra sempre la stessa storia, raccontata peggio, con l’unica differenza che Morgan è, per capriccio degli sceneggiatori, una donna, e per calcare il tono la si rende più litigiosa, audace, fanfarona e insolente di quanto non fossero gli uomini[76].

Nonostante venga così stroncato dalla critica, Cutthroat Island è un film divertente e veloce, giocosamente sontuoso e amabilmente prevedibile: un simpatico fumettone con due personaggi senza spessore psicologico ma belli di aspetto, e un allegro carnevale di inseguimenti, duelli, carognate e quant’altro si possa attendere da una storia popolare di caccia al tesoro. Dal punto di vista dell’evoluzione di un mito, può anche essere ravvisabile qualche intrigante eco salgariana: non solo Morgan ha per nome di battesimo quello che Jolanda porterà per cognome una volta sposata; non solo il nome del padre Black Harry trattiene la nerezza del Corsaro papà; ma c’è persino la presenza di un colore, il bruno, nel nome dello zio (Dawg Brown) come nei soprannomi degli zii di Jolanda (il Corsaro Rosso, il Corsaro Verde). D’altra parte ancora una volta la tenuta della piratessa – in  maniche di camicia, stavolta più plausibilmente stazzonata e sporca – rimanda sul piano visivo a un’intera serie di progenitrici su schermo: e il fatto che il costumista sia l’italiano Enrico Sabbatini, per una coproduzione che interessa anche il paese di Salgari, avalla credibilmente un nesso.

Certo, il rovinoso flop del film, definito quello con maggiori perdite della storia del cinema, travolgerà la Carolco Pictures: ma i guasti di una sconsiderata gestione economica (spese senza senso, per esempio, per i divi della troupe), e di una distribuzione infelice per i ritardi della post-produzione e l’uscita a Natale di «un blockbuster senza una corposa campagna di marketing [, il che] equivale a un suicidio commerciale»[77], problemi cioè di quella singola opera e non di un filone avventuroso in quanto tale, faranno in seguito guardare con sospetto dai produttori qualunque progetto di film analogo. Ostacolando all’inizio la stessa operazione Pirates of the Caribbean – poi invece tanto fortunata – e, forse, contribuendo a una rarefazione in quella saga della dimensione genuinamente ‘piratesca’ a vantaggio di una più libera componente fantastica.

Interessante peraltro un’altra motivazione offerta oggi da Harlin per spiegare il flop di un film cui pure resta affezionato, e la cui lavorazione era «andata liscia come l’olio»[78]. Spiega infatti che «al pubblico non piacque l’idea di un film di pirati con una protagonista femminile. […] non voglio negare i miei errori e credo che con un protagonista maschile il film avrebbe avuto maggiori chance di successo»[79]. È un’interpretazione corretta? Difficile dire, anche se è possibile che il pubblico delle famiglie delle grandi sale americane – quello in fondo cui deve soprattutto mirare Harlin con tale prodotto – nel 1995 non sia pronto per un simile modello.

Sarebbe però sbagliato immaginare che negli anni successivi a Cutthroat Island i pirati scompaiano: e merita citare almeno un esempio di piccola produzione sul tema. Joe D’Amato (al secolo Aristide Massaccesi) è certo più noto come regista di horror splatter, erotici e pornografici che non di avventura; eppure tra gli oltre duecento titoli della sua strabordante filmografia, e nell’anno stesso della sua morte, risulta anche un film di pirati: l’italiano I predatori delle Antille, 1999, prodotto da Gianfranco Romagnoli per Idra Music e girato a Budapest. Certo, nonostante la locandina con una bellona (s)vestita da piratessa, non si può definire propriamente tale la protagonista Elena Hamilton (Anita Rinaldi, come Anita Skultety o Skulteti), una lady britannica che, a dispetto del proprio rango, ingaggia un pirata partecipando alle sue azioni. Deve poi fronteggiare un Rackham (nell’elenco personaggi citato come Rachman: Henrik Pauer) omonimo del partner di Anne Bonny – salvo il fatto che si chiama George e non John; e comunque nella storia, in un ruolo minore, non mancano una donna pirata, Pilar (Venere Torti) e il solito tormentone del vestito.

L’amatissimo marito di Elena, Sir Francis Hamilton (Menyhért René Balog-Dutombé, riportato come Menyhert Dutombe), è un diplomatico con mandato da parte di Carlo II per trattare in Giamaica coi francesi in funzione antispagnola. Giunto nelle Antille, cade però in un agguato teso dal temuto Rackham, che stermina l’equipaggio e chiede un riscatto molto alto per il nobile prigioniero – così alto che la moglie non riuscirebbe a pagarlo, mentre il re non intende cedere al ricatto. Delusa, Elena contatta un capitano che conosce bene i Caraibi, tale Graham (Zoltán Kiss), e questi le fa il nome di Thomas Butler (Carlo De Palma), detto ‘il Pirata gentiluomo’, passato alla pirateria dopo un delitto e considerato l’unico che forse potrebbe aiutarla. Sulla nave di Graham, e con un lasciapassare per le colonie firmato dal re, Elena raggiunge così la Tortuga; e in una locale taverna, per attirare l’attenzione dell’abbrutito Butler, non esita a togliersi le mutandine e salire sul tavolo iniziando a danzare. Cercando di barcamenarsi tra il greve corteggiamento di Butler e la gelosia della sua amichetta Pilar, Elena arriva a promettersi al pirata pur di averne l’appoggio per recuperare il coniuge. Considerato il resto della produzione di D’Amato (qui accreditato come David Hills), i pochi minuti di scene di nudo, di sesso o anche solo ammiccanti come queste – e che hanno talora giustificato l’etichetta commerciale di «erotico» – appaiono curiosamente castigati.

Raggiunta Antigua, il covo di Rackham, Butler – che con lui ha un vecchio conto – scende sull’isola con un compagno e le due donne: e mentre loro stornano l’attenzione delle sentinelle, riesce ad apprendere che il diplomatico prigioniero è stato condotto a Maracaibo. Arruolata allora una squadra di specialisti – compreso un improbabile esperto orientale di arti marziali Kato (come quello dell’Ispettore Clouseau) – Butler punta sulla città, dove il governatore Don Diego de la Vega (come lo Zorro marca Disney[80]) non si è bevuto le giustificazioni fasulle addotte da Sir Francis circa lo scopo della sua missione, e ordina di torturarlo. Rackham arriva poco dopo, scopriamo che lavora per la Spagna, e incassa da Don Diego una cifra – in realtà minore dello sperato – per la cattura dell’inglese.

In un ultimo confronto con Elena, Pilar racconta di aver abbandonato a sedici anni famiglia e casa in Giamaica per seguire Butler: Elena chiarisce allora di essere interessata solo al proprio marito e le regala uno dei propri abiti. Poco dopo ‘il Pirata gentiluomo’ cattura un vascello olandese per avvicinarsi a Maracaibo senza dare nell’occhio; e durante l’arrembaggio anche Pilar combatte con ferocia a colpi di pistolone. Fingendosi olandesi, i nostri arrivano così in città dove sono ricevuti con apparente cortesia dal governatore – che però poi ne ordina l’arresto. Dopo vana resistenza i pirati (traditi da un membro della squadra) sono così incarcerati, salvo le due donne finite nelle grinfie di due vogliosi spagnoli.

Mentre però tra le mura e la nave pirata – dove Butler non è tornato nel tempo pattuito – si accende uno scambio di cannonate, Elena riesce a puntare un pugnale alla gola del lubrico Don Diego, costringendolo a liberare i prigionieri, compreso Sir Francis, e infine freddandolo con un colpo di pistola mentre tenta la fuga. Ma anche Pilar ha sparato al suo aggressore, e alla ritirata precipitosa del gruppo verso la nave segue l’esplosione del palazzo di Maracaibo, minato dall’artificiere della squadra. Pilar – vestita come una dama – ha ormai riconquistato l’amore di Butler, ed Elena (non più costretta a mantenere la promessa sessuale al capitano) ha salvato il marito. Se la sceneggiatura è di un candore fumettistico da adolescenti, il livello della recitazione praticamente amatoriale, il numero di comparse limitato e il ritmo a tratti soporifero, I predatori delle Antille suscita nondimeno un senso di sgarrupata simpatia per l’approccio artigianale con cui il tema è trattato.

Del 1999 è anche una fantasiosa ripresa italo-spagnola a cartoni animati del personaggio salgariano, Jolanda. La Figlia del Corsaro Nero, coprodotta da rai Fiction, Antena 3 Televisión e brb Internacional, in ventisei episodi[81], serie ideata da Claudio Biern Boyd, con musiche dei fratelli Guido e Maurizio De Angelis, che sotto il nome Oliver Onions avevano già firmato le memorabili colonne sonore delle menzionate escursioni salgariane di Sollima.

Ma a cambiare davvero le cose sarà l’uscita nel 2003 di Pirates of the Caribbean: The Curse of the Black Pearl (La maledizione della prima luna), rafforzata da una serie divertente di sequelDead Man’s Chest (La maledizione del forziere fantasma), 2006; At World’s End (Ai confini del mondo), 2007; On Stranger Tides (Oltre i confini del mare), 2011; Dead Men Tell No Tales (altresì noto come Salazar’s Revenge, La vendetta di Salazar), 2017[82] – che riproporranno robustamente i pirati all’immaginario collettivo anche in termini di marketing, ridando spazio, sia pure in forme molto libere, alla figura della donna pirata. Tornano così anche le nostre due eroine: Anne Bonny (interpretata da Clara Paget) compare per esempio nella vivace serie televisiva americana Black Sails, prima stagione 2014 (le successive tre 2015-2017), ambientata a New Providence e pensata come prequel alle vicende del romanzo stevensoniano Treasure Island; mentre con l’amica Mary è presente nel lungometraggio d’animazione giapponese Meitantei Konan – Konpeki no Jorī Rojā (Detective Conan: L’isola mortale), 2007, con il Jolly Roger già evocato nel sottotitolo originale («Jorī Rojā»), e nel videogioco Assassin’s Creed IV: Black Flag, pubblicato nel 2013. Per non parlare di citazioni dirette attraverso canali diversi di entertainment, si pensi alla Anne Bonny dei giochi di ruolo Atlantica Online, o in testi musicali come la canzone Anne Bonny degli statunitensi Death Grips (nell’album Government Plates, 2013); o persino di liberissime riletture come nel personaggio di Jewelry Bonney dell’anime One Piece derivato dall’omonimo manga – l’uno e l’altro felicemente in corso. Quanto al documentario televisivo americano True Caribbean Pirates (Pirati dei Caraibi – La vera storia) di Tim Prokop, 2006, che ricostruisce con interviste a storici e scene da docufiction l’epopea di alcuni tra i pirati più noti al grande pubblico, non manca una parte su Mary & Anne – interpretate rispettivamente da Kimberly Adair e Michelle Michaels. Fresca di realizzazione è poi la docuserie The Lost Pirate Kingdom di Netflix, sceneggiata da David McNab e Patrick Dickinson, diretta da Stan Griffin, Justin Rickett e dallo stesso Dickinson, 2021, con Derek Jacobi come narratore, che, partendo dal 1715, sviluppa una storia della pirateria. Mia Tomlinson vi interpreta Anne Bonny, e Jack Waldouck è Rackham.

Per venire a un film molto diverso, la commedia inglese St Trinian’s 2: The Legend of Fritton’s Gold (St. Trinian’s 2 – La leggenda del tesoro segreto), 2009, per la regia di Oliver Parker e Barnaby Thompson. Al termine, le scatenate studentesse della più improbabile istituzione scolastica britannica appaiono in galeone sul Tamigi, a strappare al villain l’unico manoscritto esistente di Queen Lear – presunta ultima opera shakespeariana, che dimostrerebbe non solo una coincidenza dell’identità del Bardo con il pirata Fritton, antenato della proprietaria, ma soprattutto il fatto che fosse una donna: e a loro volta sono vestite da piratesse. A traghettare idealmente all’epoca nostra quel modello delle Defenders of Anarchy (così il titolo di uno dei due singoli registrati dal gruppo pop Girls Aloud per la colonna sonora del precedente St Trinian’s, 2007) che Mary e Anne avevano in qualche modo vagheggiato d’incarnare.

 

Conclusione. E quelle che vanno per mare

Per gli anni successivi alle Temerarie Due, i dati in nostro possesso riportano anzitutto un altro paio di casi di donne in equipaggi di navi pirata, entrambi in Virginia: Mary Harvey (o Harley, o Farlee), processata nel 1726, ma a differenza dei compagni mandata poi libera, e Mary Crickett (o Crichett), spedita alla forca nel 1729:

Non è dato sapere se queste due donne si fossero travestite per diventare pirata, né se siano state indotte a ciò dai racconti su Anne Bonny e Mary Read. Comunque, la presenza delle quattro donne tra i pirati è venuta alla luce solo perché le loro navi sono state catturate. È possibile quindi che sulle navi pirata le donne abbiano avuto più spazio di quanto ne trovassero, all’epoca, sui mercantili o sui vascelli militari. In ogni caso, tale spazio, benché modesto, è esistito solo perché creato da un’attiva ribellione femminile[83].

Gli annali riportano poi i nomi di Flora Burn, attiva verso la metà del secolo sulla costa orientale del Nord America; e di Rachel Wall, piratessa negli anni 1781-82, finita sulla forca nel 1789 (sarà anzi l’ultima donna giustiziata in Massachusetts). Nel XIX secolo, l’elenco – ma si tratta solo dei casi più noti – prosegue coi nomi dell’ultima piratessa svedese, Johanna Hård, delle australiane Charlotte Badger e Catherine Hagerty, di Margaret Croke (tutte dei primi decenni del secolo), e dell’americana Sadie Farrell, conosciuta come Sadie the Goat (1869); mentre nel XX secolo la parte del leone (o della leonessa) se la conquistano le disinvolte signore cinesi già citate. Gli studi – specie sulle dinamiche sociali sottostanti il fenomeno – ovviamente continuano[84].

Ma accanto a questi profili storici ne fioriscono infiniti altri tra leggenda e fiction, come la plausibilmente immaginaria Charlotte de Berry (nata – si dice – nel 1636, ma menzionata per la prima volta nel penny dreadful di Edward Lloyd History of the Pirates, 1836) e quella Geraldine ‘Gunpowder Gertie’ Stubbs (inglese, nata in ipotesi nel 1879) emersa per un pesce d’aprile in un giornale canadese, poi portata sulle scene teatrali e a volte creduta un personaggio storico. C’è poi naturalmente tutta la lunga serie di predatrici immaginarie che popola i più vari tipi di storie, comprese – abbiamo visto – quelle trame di videogiochi o di giochi di ruolo dove le stesse Mary & Anne garantiscono qualche presenza.

In effetti la figura della piratessa sedimenta ormai una certa varietà di spunti simbolici, dalle provocazioni feticistiche della donna che si fa uomo – ma non troppo – fino a una più generale scelta controculturale. Qualcosa che da un lato attiene a una maschera mitica, un archetipo che può facilmente volgere in stereotipo: e da questo versante, come abbiamo visto, la sincretizzazione grazie al cinema di due diversi modelli di donna pirata, quello picaresco di Mary & Anne e quello romantico di Salgari, conduce in ultimo ai citati bozzetti di DeviantArt. Si tratti di declinazioni più intriganti o invece più volgari, tale maschera può comunque vantare un certo impatto sul nostro immaginario.

Ma d’altro canto, proprio attraverso il paradosso di scelte controcorrente, fuori da qualunque sistema (persino quello piratesco, che in generale interdiceva alle donne l’accesso alle navi), le singole figure di women in piracy mantengono un più interessante livello di provocazione. In società grevemente androcentriche, queste donne sono figure di un’esplorazione – in termini liberissimi e variegati, sia pure con alcune costanti – di vie alternative a quelle prefissate da un destino sociale. Lo sono Mary, Anne e le loro colleghe meno note, che hanno spesso pagato care le proprie scelte; ma lo è in fondo, in termini più morbidi, la stessa immaginaria Jolanda. Che, aggregandosi alla feccia dei mari, ricorda ai giovani lettori di un’Italia ormai unita – e già intampata tra scandali, trasformismi e crolli d’ideali – le trasgressioni delle eroine risorgimentali e i loro sogni di libertà: un punto virtuale per ripartire, e mettere magari sotto assedio in vista di un futuro diverso le Panama in cui ci tocca campare.

[73] La tigre è ancora viva: Sandokan alla riscossa!, 1977 (film); Il ritorno di Sandokan, 1996 (sceneggiato); Il figlio di Sandokan, 1998 (miniserie).

[74] Mi appoggio qui al fondamentale testo di Glen Davies (compiled by), Last Bus To Bray: The Unfilmed Hammer, 2 voll., Des Moines, Little Shoppe of Horrors, 2010, e in particolare al vol. II (Decline, Fall & Rebirth – 1970-2010), pp. 25-28.

[75] Davies (compiled by), Last Bus To Bray, vol. II, cit., p. 28.

[76] Latorre, Avventura in cento film, cit., p. 340.

[77] Così il regista nell’«intervista-carriera» rilasciata nel 2013 a Neuchâtel a Manlio Gomarasca (Renny Harlin the king of action, “Nocturno”, dicembre 2013, pp. 86-93, in particolare p. 91).

[78] Ibidem.

[79] Ibidem.

[80] In un altro punto del film si presenta però come Don Edoardo de la Vega, forse per una dimenticanza dello sceneggiatore.

[81] Per gli anni successivi va segnalato anche lo sceneggiato radiofonico Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, in onda dal 27 marzo al 28 aprile 2006 su rai Radio 2, a cura di Emma Caggiano, diretto da Arturo Villone, scritto da Giovanna Gra e Veronica Pivetti, quest’ultima anche interprete del ruolo principale.

[82] Per le voci su probabili seguiti, ci limitiamo a quanto già detto all’inizio.

[83] Rediker, Canaglie di tutto il mondo, cit., p. 121.

[84] Basti citare il testo di John C. Appleby, Women and English Piracy, 1540-1720: Partners and Victims of Crime, Woodbridge (Suffolk)-Rochester (ny), Boydell Press, 2013.

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