di Sandro Moiso
AA.VV. (a cura della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), Livorno Ventuno. A cent’anni dalla scissione di Livorno. La nascita del Partito Comunista d’Italia, Milano, aprile 2021, pp. 270, 10 euro
Giangiacomo Cavicchioli, Emilio Gianni (a cura di), PCd’I 1921. 100 anni. 100 militanti del Partito Comunista d’Italia, edizioni Lotta Comunista, Milano, dicembre 2020, pp. 304, 10 euro
Degli anniversari che sono giunti a scadenza nel corso del 2021 quello del centenario della fondazione del Partito Comunista d’Italia, avvenuta a Livorno il 21 gennaio 1921, è stato forse uno dei meno ricordati e/o pubblicizzati, in un contesto in cui sempre più memoria e retorica pubblicitaria, ancor più che pubblica, sembrano coincidere, soprattutto tra i confini politico-culturali di un’italietta semper giolittiana. Così, come affermano i curatori di uno dei due testi dedicati all’argomento che si vogliono qui proporre all’attenzione dei lettori:
Il centenario della nascita del PCd’I, nonostante i “de profundis” sul comunismo cantati a più riprese da destra e da “sinistra”, ha comunque sollecitato sul tema iniziative editoriali ed articoli di vario genere.
“Il Fatto Quotidiano”, sponsor di una nuova “alleanza progressista” tra PD e M5S, ha colto l’occasione di riallacciarsi a quell’evento per incanalarlo subdolamente nel filone (interrotto) di un PCI “nazionale” e genuinamente “riformista”, che con la sua nascita avrebbe riscattato un riformismo socialista storicamente privo di “passione” e della “centralità delle masse”. Gli articoli di Giovanni De Luna (8/01/2021) e di Gad Lerner (15/01/2021) vanno esattamente in questa direzione. Livorno 1921 costituirebbe insomma una tappa fondamentale della opposizione coerente al fascismo, e la base della Resistenza armata ad esso; nonché la lontana fonte della Costituzione repubblicana (da difendere anche oggi) in nome dei diritti delle classi più povere. Su tale “patrimonio” si vorrebbe “rivitalizzare” qui in Italia un “nuovo riformismo” (senza riforme), adatto alla “gestione equa” di questa crisi epocale del capitalismo. E’ un togliattismo di “ritorno”, ad uso e consumo di politiche borghesi lontane mille miglia dai propositi dei comunisti del ’21; nonostante gli articolisti sopra citati si peritino di non cadere nelle infami “vulgate” secondo cui –ad esempio- la scissione comunista avrebbe “aperto la strada alla vittoria del fascismo”…
Non potendo in questa sede occuparci di una critica più dettagliata di queste ed altre “rivisitazioni” della nascita del PCDI, ci preme solo mettere in evidenza come la “fede rivoluzionaria che animò i fondatori” del partito –DI QUEL PARTITO, E NON DI QUELLO DI TOGLIATTI- fede che Gad Lerner dichiara di apprezzare, non diventerà mai un accessorio del riformismo (vecchio e nuovo).
Essa è un patrimonio esclusivo dei comunisti perché è legata alla lotta per rivoluzionare l’attuale sistema sociale. Su ciò le distanze tra riformisti e rivoluzionari rimangono incolmabili. Esattamente come a Livorno nel 19211.
Oggi, infatti, ricordare quell’evento non significa soltanto celebrare la nascita di un vecchio arnese partitico ormai morto, da molti anni a questa parte, a causa di un male incurabile. Significa piuttosto marcare la distanza che separò, e ancora separa, i giovani rivoluzionari internazionalisti che diedero vita alla scissione di Livorno2 da coloro che, tradendone origini e prospettive, riportarono quel giovane partito, tra le altre cose nato astensionista, sui binari del nazionalismo, del politicantismo elettoralistico e del riformismo borghese travestito da “comunismo”. Soprattutto significa ricordare quale autentico disastro abbiano rappresentato le successive svolte e giravolte della Terza Internazionale stalinizzata.
Il frutto delle rivoluzioni sorte dalla tradizione più avanzata del movimento operaio e del marxismo più genuino, oltre che delle feroci lotte di classe sviluppatesi prima, durante e subito dopo il primo grande macello imperialista, nell’arco di poco meno di un decennio, sostanzialmente tra il 1926 (Congresso di Lione, per quanto riguarda il PCd’I) e il 1936 (anno di inizio dei grandi processi di epurazione moscoviti), sarebbe stato soffocato e sottoposto ad una brutale e mostruosa trasformazione politica ed economica, repressiva e mortale per coloro che osarono coraggiosamente contrapporvisi, che avrebbe partorito, prima, l’allineamento di tutti i partiti comunisti alle direttive di Stalin e della burocrazia bolscevica e, dopo, la separazione nazionalistica di partiti non più “fratelli”, ma espressione dei singoli interessi nazionali e borghesi.
Così la blasfema teoria del “socialismo in un solo paese” riuscì a spacciare lo sviluppo industriale ed economico di stampo capitalistico e, susseguentemente, imperialistico come socialismo, se non addirittura per comunismo, mentre i suoi tentacoli avvelenati si sono protesi fino ai nostri giorni, viste le numerose cantonate che vengono ancora prese, anche in ambienti non sospetti, nei confronti della Cina, del suo Partito dominate e della sua economia.
Un effetto mortifero che ha contribuito più di ogni altra reazione o controrivoluzione fascista alla sconfitta o, per lo meno, ad un radicale ridimensionamento dell’originale ideale comunista.
Nelle analisi contenute nei due testi è possibile ricostruire quelle lontane origini del partito che avrebbe dovuto essere della Rivoluzione e che, grazie alle svolte “tattiche” qui appena accennate, si sarebbe invece trasformato in uno dei principali strumenti della Reazione e della Controrivoluzione.
Entrambi i testi ricostruiscono, con ricchezza di dati e documenti (per questi soprattutto quello curato dai compagni della Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria), i percorsi collettivi, individuali e di classe (soprattutto) che portarono alla scissione di Livorno, ma quello che colpisce di più, in tutti e due, è la ricca raccolta di biografie di militanti, spesso sconosciuti o dimenticati, che diedero vita, forza e ragioni a quella esperienza.
Nei due testi è infatti possibile seguire le vicende personali e politiche di circa duecento militanti (soltanto le storie di 22 di essi coincidono tra le due ricerche) che alla causa dedicarono, e spesso sacrificarono, la propria vita. Vite spesso rapite dalle malattie, dal carcere, dalla miseria, dai fascisti, ma ancor di più dalla brutale repressione ed eliminazione fisica degli stessi operata dagli agenti dello stalinismo, sia in Russia (per quelli che lì avevano sperato di trovare rifugio contro la barbarie fascista o nazista) sia all’estero (per quelli che avevano magari preferito riparare in Francia e/o andare a combattere nelle fila dei militanti rivoluzionari in Spagna).
Militanti che il testo edito da Lotta Comunista trae da un campione più ampio utilizzato per una dettagliata analisi della composizione sociale e di classe del partito originario, con tabelle che riguardano la provenienza regionale, le leve anagrafiche (età), lo stato sociale delle famiglie di provenienza, la scolarizzazione (scarsa), la professione, l’attività politica o sindacale svolta al 1921 e poi dal 1926 al 1945, l’emigrazione e la partecipazione alla guerra di Spagna e alla Resistenza e per finire l’attività politica svolta ancora dopo il 1945. Oltre che una drammatica ultima tabella in cui vengono elencati i numeri degli uccisi dal fascismo, dal nazismo, dal franchismo e dallo stalinismo.
Se il testo edito da Lotta Comunista è più attento al dettaglio sociologico e a sottolineare la giovane età dei protagonisti della scissione, ma più lineare nella ricostruzione e difesa di quella seminale esperienza, il testo edito nella collana collegata ai Quaderni di Pagine Marxiste, è un po’ più interessante dal punto di vista della riflessione politica attuale, contenendo apporti diversi (non secondario quello di Mirella Mingardo, tratto dal suo 1919-1921 Comunisti a Milano, dedicato alla Sinistra milanese di Bruno Fortichiari e Luigi Repossi) che focalizzano l’attenzione sulle principali esperienze che diedero vita al Partito, in primo luogo quella di Amadeo Bordiga e del gruppo collegato al giornale «Il Soviet» di Napoli. Non mancando di svolgere un’attenta riflessione su quanto ci sia ancora da valorizzare oppure ripensare dell’attività pratica e teorica svolta dal Pcd’I e dai suoi militanti in quell’epoca.
Due testi in qualche modo complementari che, anche per il costo contenuto, possono tranquillamente affiancarsi nella biblioteca di tutti quei militanti, soprattutto giovani, che non si vogliano accontentare della ripartenza da zero ad ogni occasione di cronaca o di dibattito e azione politica. Entrambi vivamente raccomandati da chi ha scritto queste note.