Intervista a Stefano Liberti, rgiornalista e scrittore, dopo il suo intervento al dibattito “Un mondo in fiamme e affamato: dalla crisi ambientale a quella alimentare” tenutosi all’OltrEconomia di Trento.
Da dove viene l’idea di questo libro? Nel dibattito hai parlato degli effetti del cambiamento climatico, definendoli come qualcosa di immediatamente sotto gli occhi di tutti, e non che colpiscono solo le nuove generazioni.
Questo libro si sviluppa da un lungo viaggio in Italia che ho fatto nel 2019, cercando di capire quanto fossero vistosi gli effetti del cambiamento climatico nel nostro Paese. Ho viaggiato alcuni mesi lungo l’arco alpino, nella Pianura Padana, a Venezia, nelle zone colpite dalla tempesta Vaia, in Sicilia, in Sardegna. Ho cercato di parlare con le persone che vivono sul territorio, e che vivono del territorio, che ti possono raccontare quello che sta accadendo. Quello che ho raccolto è un grido di paura, un appello all’azione, perché chiunque viva sul territorio dice che si sta compiendo qualcosa di eccezionale, di epocale. C’è un aumento incredibile di eventi atmosferici estremi: venti mai visti prima, grandinate, piogge alluvionali, ondate di calore, siccità. C’è un aumento di specie aliene che colpiscono i terreni agricoli, come la cimice asiatica. C’è un andamento casuale del clima, fa caldo quando dovrebbe fare freddo e viceversa. Saltano quelle che sono le stagioni.
L’Italia è, nel racconto di quelle che io chiamo le sentinelle ambientali, ovvero le persone che ho incontrato, ma anche nelle parole degli scienziati, un hotspot climatico, ovvero un punto in cui gli effetti del surriscaldamento globale sono più vistosi che altrove. Nel nostro immaginario il cambiamento climatico è qualcosa che non ci riguarda da vicino, ma che colpisce luoghi lontani o che colpirà le prossime generazioni. Invece è qui e ora, e quindi impone un’azione importante ed urgente di mitigazione delle cause ma soprattutto di adattamento agli effetti. Noi dobbiamo adattare i nostri territori a quello che sarà il nuovo scenario climatico. Cosa vuol dire? Renderli meno vulnerabili, più resilienti. Bloccare il consumo di suolo. Cambiare il nostro modo di vivere in città, il nostro modo di mangiare, di smaltire i rifiuti.
Dev’esserci tutto un ripensamento, perchè la crisi sta avvenendo adesso e deve essere trattata con la dovuta tempestività perché gli effetti più gravi non si realizzino.
Qual è il ruolo dell’informazione? Tu sei un giornalista che viaggia, che non sta chiuso in una stanza, ma che vuole toccare con mano e raccontare le cose che vede…
Ha un ruolo importantissimo, di sensibilizzare, raccontare e creare consapevolezza. Da questo punto di vista noi giornalisti abbiamo una responsabilità rilevante, nel senso che abbiamo molto trascurato, lo trattiamo sempre in modo episodico e non sistemico. Sui giornali si parla di maltempo, non si cerca di andare alle cause delle crisi, non si racconta le crisi nella sua interezza.
Il tentativo che ho provato a fare io è stato quello di raccontare delle storie. Noi come esseri umani ci nutriamo di storie. Mi sono chiesto perché il cambiamento climatico non colpisce l’opinione pubblica, non viene mediatizzato. Secondo me perchè troppo spesso viene presentato solo come una serie di dati. Se a questi dati noi diamo concretezza con delle storie di persone in carne ossa, che vivono gli effetti del cambiamento climatico, che cercano di adattarsi a questo nuovo mondo, che mettono in campo delle strategie di resistenza, forse è più facile che il tema arrivi, e che l’urgenza dell’azione diventi di dominio pubblico.
** Pic Credit: Paolo Ghisu