di Franco Pezzini
[Dalla sera di venerdì 17 settembre a tutta la giornata di domenica 19 si è tenuta anche quest’anno presso il Mufant di Torino, in collaborazione con il Premio Italo Calvino, la manifestazione Loving the Alien Fest. Tra i molti partecipanti Anna Buccuti, Massimo Centini, Claudia Durastanti, Nico Gallo con altri membri del Collettivo Un’Ambigua Utopia, Silvia Treves, Nicoletta Vallorani, Wu Ming 4 e gli ideatori della trasmissione Wonderland Carlo Modesti Power e Leopoldo Santovincenzo.
La tavola rotonda finale, Scrivere il fantastico, ha visto partecipare proprio tre straordinari giovani autori emersi in questi anni nelle iniziative legate al Premio: le giovanissime, brillanti vincitrici del call Oltre il velo del reale Monica Acito e Beatrice Salvioni, e il talentuoso Adil Bellafqih (classe 1991) menzione speciale della giuria alla XXXI edizione del Premio Calvino e secondo al Premio Kihlgren Opera Prima. Nessuna naïveté, nessun giovanilismo facile: il dato dell’età è qui fornito unicamente per la messa a fuoco di una robusta maturità stilistica e per il colpo d’occhio tranquillizzante su nuove leve della scrittura in Italia.
In rapporto all’argomento della tavola rotonda, non è tardi riprendere in mano il primo romanzo di Bellafqih (il secondo, Niente a parte il sangue, Mondadori 2021, non è di tema fantastico e meriterà riparlarne a parte): e ripropongo con minimi adattamenti il testo della presentazione torinese tenuta a suo tempo alla libreria Trebisonda. (F.P.)]
Eppure, te ne sarai accorto, non riusciamo a produrre un futuro. Un’idea, un’immagine, qualcosa di davvero nuovo. Replichiamo il vecchio, eseguiamo variazioni sul tema e aspettiamo, avvizziamo. Più di tutto, non riusciamo davvero a ricordare niente. E sai perché? Perché c’è troppo da ricordare.
Il passato vive sotto il cumulo di informazioni che costantemente si stratificano una sull’altra e scavare è un lavoro faticoso, ma qualcuno deve pur farlo. Io lo faccio perché ho bisogno di una memoria. Ho bisogno di ricordarmi qualcosa. Più passa il tempo, più credo che i ricordi siano il sistema circolatorio dell’anima. Senza ricordi di cui nutrirsi, l’anima inaridisce, appassisce, muore. Io ho bisogno di credere in un’anima, di qualunque tipo. Ho bisogno di punti fermi, pochi, ma fermi. Ho bisogno che siano lì con me, lì per me.
Tanto, tanto tempo fa, agli inizi della letteratura occidentale, un poeta cieco iniziava una sua opera pregando una Dea di cantare. Non tanto per ispirarlo – anche se il poeta ispirato dalla Musa sarà poi un modello di enorme fortuna – ma anzitutto per informarlo e ricordare: la Musa infatti consegna la memoria delle storie importanti, quelli che servono per capire la realtà, per capire chi siamo. L’informazione diventa dunque memoria viva e che ci serve per vivere. Passano millenni. E in un romanzo di taglio fantastico Adil Bellafqih, Nel grande vuoto (Mondadori 2019) un romanzo che parla del futuro ma in fondo già del presente – almeno un presente virtuale, un presente come rischio, ma è indicativo il fatto che l’autore sia tanto giovane e dunque il suo presente guarda al futuro molto più del mio – il tema dell’informazione appare giocato in modo parecchio diverso. Qualcosa si è ingrippato nel rapporto tra informazione e memoria: e dunque nel rapporto con ciò che siamo, con la nostra identità. Il fatto che l’autore lo porga con uno stile formalmente controllatissimo, fluido e insieme visionario rappresenta, nell’ambito di temi certamente molto battuti, una potente marcia in più, tale da giustificare l’emersione di questa prova tra la quantità di altre di tema distopico giunte al premio.
Lo sappiamo, il termine distopia è oggi diventato estremamente familiare al grande pubblico: un filone di storie che evocano un dys-topos, un luogo cattivo cioè una società ipotetica (è il negativo di utopia) che vive in modo estremo, paradigmatico alcune tendenze negative. E non è un caso che proprio oggi fioriscano tante fantasie di tipo distopico, in un mondo che vede le agenzie tradizionali di certezza fare i conti con un intreccio di crisi diverse e di scetticismo montante (la pandemia non ha ovviamente migliorato la situazione). Il tutto con quel linguaggio-laboratorio che è il fantastico e ci aiuta a lavorare sugli scenari aperti dal presente, rischi e paure compresi.
È almeno dall’Ottocento che la narrativa distopica apre dubbi o critiche sullo sviluppo delle società umane. Con opere a volte popolari o invece di letteratura alta: storie spesso provocatorie (pochi anni dopo l’uscita in libreria nel 1949 del 1984 orwelliano la trasposizione televisiva presentata dalla Bbc nel ’54 in Gran Bretagna suscitò addirittura proteste in Parlamento), con una critica all’esistente almeno potenzialmente vivace.
Certo, si fa in fretta a dire distopia: l’etichetta copre testi diversissimi non solo per contenuti specifici ma per linguaggio di fondo. E per esempio da qualche tempo l’editoria popolare sta conoscendo un fenomeno nuovo: l’orizzonte distopico, terreno tradizionale di eroi navigati e disillusi, vede una massiccia invasione di saghe per adolescenti (o come si dice oggi, YA, cioè Young Adult) dallo scintillante successo commerciale. Un intero panorama, citiamo solo qualche titolo: The Hunger Games di Suzanne Collins, Divergent di Veronica Roth, Legend di Marie Lu, Maze runner series di James Dashner, The giver / Il donatore di Lois Lowry, Delirium trilogy di Lauren Oliver, Matched di Allyson Braithwaite Condie…. Testi che qualche volta fanno ingenuamente pensare a un ritorno della fantascienza mentre, gratta gratta, si tratta soprattutto di fantasy: il linguaggio è quello del superamento di riti di passaggio e il futuro di cui parlano è in realtà il diventare adulti oggi, in un presente di competizioni sempre meno umane, di crisi che ‘giustifica’ contrazioni di diritti paludandole con etichette d’efficienza, di pragmatico scetticismo che si traduce nel desiderio di giustificare una propria nicchia nello stesso sistema che inizialmente si combatteva. La carica provocatoria del genere distopico ne risulta ovviamente depauperata.
Ben diverso è il romanzo Nel grande vuoto: un’opera colta e molto originale, di grana autenticamente letteraria, ma che riesce insieme a risultare un testo di genere divertente, godibilissimo, che ibrida fantascienza distopica e hard boiled – facendone anche il verso, a tratti in modo divertito.
Un divertimento – beninteso – che non toglie nulla alla forza genuina dei personaggi, alla loro intensità, ai loro tormenti (alcuni li scopriamo nelle ultime pagine – e ovviamente eviterò di spoilerare). Un’intensità di un po’ tutti i personaggi, compresi quelli minori: e in particolare sono straordinarie le figure femminili, Molly, Eva, Kairina e Joy. Un risultato, si noti, niente affatto scontato parlando di una storia dove tutti si interfacciano attraverso avatar, maschere più o meno farlocche che aprono al discorso sull’identità e le sue perturbazioni, le sue crisi, le sue perversioni. Badiamo che questo è un nodo fondamentale nella storia del fantastico: come osservato altrove, si potrebbe dire che la narrativa fantastica (nel senso moderno) è anzitutto la narrativa delle crisi dell’identità, della scoperta drammatica delle sue radicali ambiguità in senso individuale e collettivo.
Personaggi forti, dunque. E sentimenti forti: è un romanzo di sentimenti autentici, di passioni rabbiose e magari frustrate, di vendette, di atti di coraggio. Sentimenti che, nel panorama di un mondo dove tutto appare artefatto, fittizio, mascherato, erompono invece quasi per reazione in una tortuosa sincerità. E questa dimensione romantica e appassionata è giocata in fondo a partire dalla scelta stessa della maschera di Bogart come avatar del protagonista, dura, ironica, sofferta – che però qui incontra non Lauren Bacall ma Eva Green.
E insieme un romanzo densissimo, genuinamente visionario. Non solo in aspetti di forma come i nomi, che giocano di suggestione nell’evocare le vertigini del tessuto della realtà: il nome del mistico tedesco Meister Eckhart per il protagonista, il termine ellenistico e gnostico Aion – tempo, eternità, eone – per l’inestricabile insieme organico di menti che grazie alla Realtà Aumentata permette di relazionarsi tramite avatar, i nomi delle dieci Sephiroth cabalistiche per i diversi e indipendenti server dell’Aion creati con la bioingegneria, una moglie Maria che cambia nome come in una rilettura gnostica e una bimba di nome Sofia, un Akira come il Kurosawa di Rashomon con le sue verità relative, la prigione d’If ad ammiccare al Conte di Montecristo… eccetera. Ma visionario soprattutto nella sostanza della trama.
Parlando l’altro giorno con un amico osservavamo che noi bambini dei primi anni Sessanta ci saremmo attesi un futuro alla Pronipoti di Hanna & Barbera, auto sfreccianti come missili nell’aria e robot magari con la crestina che cigolassero a zonzo nelle case portando vassoi con bicchieri d’aranciata: niente affatto, l’aspetto più immediatamente percepibile è emerso nelle comunicazioni, nella gestione delle informazioni, ed è qui che si annida la distopia. La Musa sceglieva quali porzioni di informazione consegnare al poeta e dunque alla comunità: mentre in un mondo che appare aver perso ogni strumento e criterio di ranking l’eccesso di informazione la vede collassare su se stessa.
Del genere distopico Nel grande vuoto presenta una serie di caratteristiche.
Troviamo anzitutto una società dalle dinamiche profondamente malate. In una situazione di innesti spinali per essere sempre connessi le informazioni arrivano “nel cervello con la forza di una slavina, ne sei sopraffatto, la mente non ce la fa a processare Tutto”, per cui si passa all’uso di droghe devastanti. Ciò che è giudicato importante è arrivare in cima alla Tendenza, “il cuore pulsante dell’Aion”, versione infinitamente potenziata della visibilità da social. In una simile situazione la memoria diventa impossibile: mentre la civiltà elimina la memoria storica, viva, materiale legata ai luoghi (il governo che fa continuamente spianare gli edifici e ne fa costruire di nuovi nel clima di un finto rinnovamento) quel che resta sono frammenti o fantasmi di memorie, magari quelle altrui frutto d’innesto che però restano umbratili, o invece quelle manipolate o comunque sfuggenti tra le pieghe dell’Aion. Ma se la memoria è necessaria per l’identità, ecco la distopia: e occorrono allora i debunker privati che aiutino la gente a selezionare e interpretare, cioè a recuperare quelle minime porzioni di verità che servano a vivere.
Poi troviamo, strettamente connesso, il tema-cardine del rapporto con la verità: dove il problema non sta tanto nelle singole fake news ma in una generale falsificazione recata dall’ondata di informazioni vuote, dimensioni fittizie, banner pubblicitari sempre più invasivi – e soprattutto dalla mancanza di senso critico di una società sempre più connessa ma anche torpida e atomizzata, dove ciascuno se la suona e canta da solo nella propria stanza dell’eco. Mentre la possibilità di vedere al di là di quel velo di Maya si rivela in fondo una specie di veggenza: come nel caso del doppio sguardo di cui è dotato – e non sa bene perché – il protagonista. “È la mia unicità. Sono dentro e fuori dall’Aion. A differenza degli altri, solo il mio occhio destro funziona. Se lo copro, ecco dispiegarsi la realtà dietro la realtà. Eckhart la chiama realtà reale”. In una simile situazione i debunker assumono un ruolo di maestri e di guru: ma se sono dei bluff?
Ancora, troviamo il tema delle modifiche imposte al corpo e che lo disumanizzano, imposte da norme sociali. Dove a fare la differenza della qualità di connessione sono sempre le classi sociali, con la possibilità di spendere più o meno come il povero Sandrino/Josey con la sua miserabile “placca di connessione a banda larga che gli fuoriesce dal cervelletto come la pinna dorsale di un pesce”.
Troviamo poi, ancora una volta come spesso nelle distopie, il contrapporsi speculare alla società malata dell’anti-società di una setta. E del resto c’è una specularità tra il grande vuoto oggetto di fede della misteriosa setta di Nihil (“una specie di equivalenza tra il ‘troppo’ e il ‘nulla’”) e l’altro grande vuoto evocato dal protagonista attraverso la straordinaria ed enigmatica figura del vecchio: quel vecchio che all’inizio vediamo cambiare disco e mettere Helter Skelter dei Beatles ma che, in una straordinaria, febbricitante visione narrata dal protagonista, troveremo intento a camminare in un campo di girasoli, poi intimare l’ascolto e “c’era solo silenzio. C’era solo quel grande vuoto”.
E troviamo, ovviamente una drammatica e inattesa agnizione, con tanto di straordinaria confessione finale.
Accanto a tali aspetti incontriamo poi una serie di altri elementi topici, non necessariamente e solo delle distopie. Pensiamo al tema del doppio, al tema dell’impostore che flirta con il discorso del Male, a tutta la costellazione scopica (il motivo dell’occhio, l’occhio di Dio o del diavolo, il doppio sguardo sulla realtà, gli occhi strappati nei misteriosi delitti…) al motivo della connessione come nodo (bellissima la descrizione del nodo di Gordio).
Dire di più sui contenuti sarebbe uno spoilerare criminoso. “Forse serve solo un po’ di empatia. Ma gli uomini sono famosi per cercare sempre grandi risposte. Credo sia un alibi per non accettare la propria maledetta umanità”.