Dario Paccino: L’ideologia dell’era nucleare

Mentre è tornado in auge in Italia il dibattito sul nucleare, pubblichiamo un saggio di Dario Paccino del giugno 1987 (apparso originariamente su “NOTEBOOK  Quaderni di AUTONOMIA” – Supplemento Autonomia N°40 Anno Decimo), nel pieno della campagna referendaria antinucleare, che portò al primo dei due referendum che hanno sancito la sconfitta politica dell’opzione energetica nucleare in Italia. Dario Paccino (1918-2005) ha combattuto la guerra partigiana e, dopo la guerra, ha militate per decenni nelle formazioni autonome della sinistra, animando le prime lotte ambientaliste e antinucleari  nel Paese. Di recente Ombre Corte ha ripubblicato L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura, edito per la prima volta nel 1972. Questo articolo è a cura di Open Memory-Centro studi e documentazione Sherwood. 

Abbiamo chiesto per questo Qua­derno un contributo al compagno Da­rio Paccino, autore fra l’altro de L’im­broglio ecologico, le cui tesi sono sta­te poi grotteschemente confermate dal `movimento verde’. Egli sta ultimando un nuovo libro dal titolo L’atomo e le rose – L’ideologia dell’era nucleare, inteso a dimostrare come il potere ato­mico, nichilista e totalitario, ha opera­to, da Hiroshima in poi, per conforma­re i propri sudditi alla propria natura. Ne è risultato un ‘uomo socialista’ all’Est, e un ‘uomo liberale’ all’Ovest, indiffe­rente che la vittoria tocchi a Cristo o al­l’Anticristo, purché s’accresca di con­tinuo una produttività che promette, quanto meno del Nord, lavoro e benes­sere per tutti. Che livelli raggiunga or­mai la sudditanza atomica s’è visto re­centemente con l’ecopacifismo, che, varcata la soglia del parlamento, ha fat­to subito atto di lealtà alla Nato, la cui dottrina, com’è noto, è quella dell’Air land battle 2000, la guerra integrata (convenzionale, atomica, chimico-batteriologica, elettronica in program­ma per gli anni novanta, con teatro che andrà dal Nord Atlantico all’Oceano In­diano, dalla Spagna alla Siberia. Altro esempio sintomatico: il Psi che, dopo la sua conversione elettoralistica all’antinucleare, opta di colpo per il di­spiegamento nucleare nel Golfo, pun­to focale dell’Air land battle 2000. Da noi sollecitato per qualche anticipazio­ne su questo suo libro, il compagno Da­rio ha scelto di ‘buttare giù’ (parole sue) il testo che qui pubblichiamo, versione, nella forma e nei limiti dell’articolo, del­l’esegesi e dell’ideologia imperante in era atomica. Chi fosse interessato al li­bro, può rivolgersi direttamente a Da­rio Paccino, via Poggio Verde 40, 00148 Roma.

Sia Dio, sia l’Evoluzione, l’artefice del sistema della vita sulla Terra, l’uno o l’altra dovettero risolvere preliminar­mente un problema fondamentale: l’u­tilizzazione biologica dell’energia del Sole sprigionata dalla fusione nucleare.

Centotrenta, centocinquanta milioni di chilometri dividono il nostro pianeta dalla stella cui deve l’alternarsi di gior­no e notte, e tuttavia neanche questa distanza bastava a impedire alle radia­zioni solari di condannare alla sterilità la Terra. Cosa fece allora l’artefice? Schermò il pianeta con atmosfera e ozono, e così l’energia solare non co­stituì più la negazione della vita, e di­venne, insieme con acqua e terra, sua fonte e garanzia di continuità. Un pro­blema risolto con la lacuna dell’opera­tività perniciosa dell’ultravioletto, e con combustibile nucleare.

L’ultravioletto, comunque, é una delle componenti – e neanche la più fasti­diosa – dello spettro delle avversità che s’accompagnano con l’esistenza. Quanto al combustibile nucleare, ce n’é ancora tanto da poter alimentare la vi­ta per altri milioni di anni. Quando pe­rò si smorzerà l’ultima fiammata, sette-otto minuti dopo s’involerà anche l’ul­timo guizzo di luce sulla Terra, desti­nata – insieme con gli altri corpi del si­stema solare – a gelo e notte perenni.

Un rimedio effimero dunque la scher­matura del pianeta, dal momento che il sistema della vita, che ha potuto svi­lupparsi qui da noi, finirà con l’estin­guersi come tutti i viventi, con la diffe­renza che mentre per noi umani vita e morte sono speculari, e la nostra lon­gevità é eccezionale quando tocca il se­colo, il destino mortale della biosfera si compirà in miliardi di anni, e la sua scomparsa non sarà seguita da altre forme vitali.

L’apocalisse, intesa come irrepara­bile frantumazione del quadro natura­le che conosciamo, é sicura, anche se non corrisponderà, stando alla Scien­za, alla resa dei conti profetizzata dal­la Bibbia. Sicuro comunque che anche per il sistema della vita, come c’é sta­to un inizio, ci sarà una fine, senza al­tre metamorfosi, per lo meno all’inter­no del sistema solare.

Se è vero che é la morte a dare sen­so alla vita, questo senso va esteso al­l’intera biosfera. Non è detto, natural­mente, che la morale della favola non possa essere diversa, ché, al pari del­l’umanità, anche il contesto, in cui es­sa è inserita, ‘fa dubitare chi già dubi­ta e fa credere chi già crede’ (1)

Considerazioni, in ogni caso, margi­nali. Quel che va rilevato è che quanto si è fin qui scritto era corretto in passa­to, quando la storia ’emergeva’ (2) dal­la natura come una nave dall’oceano. La situazione non è più la stessa da quando la nave ha incominciato a mi­nacciare la sopravvivenza dell’oceano: da Hiroshima (6 agosto 1945), quando la combustione nucleare (3) – respon­sabile il dominio americano – è calata sulla superficie terrestre. Con Hiroshi­ma, e quel che ne è seguito, la biosfe­ra ha perduto la garanzia d’una longe­vità protratta nel tempo quanto il fuoco nucleare del Sole. Ciò in connessione, oltre che dell’appropriazione da parte del potere politico dell’energia nuclea­re, anche dell’integrazione delle tecno­logie di punta nella produzione civile e di guerra, per cui col semplice proces­so in corso di inquinamento, manipo­lazione, desertificazione, la biosfera po­trebbe non farcela più in tempi relati­vamente ravvicinati.

Con Hiroshima e quel che ne è se­guito, tutto è cambiato. L’atomo è il ful­mine del Geova terrestre: il Potere nu­cleare. Peggio che al tempo di Sodo­ma e Gomorra e del Diluvio Universa­le, ché allora era in gioco solo la sorte dei reprobi, mentre ora ad essere mi­nacciato è il sistema della vita. Quel che Dio o l’Evoluzione hanno fatto per rendere possibile il coesistere di potenza della natura fisica e affiorare della vita e, con essa, dello spirito, la poten­za del dominio politico-militare ha reso precario, col rischio che tutto finisca ben prima dell’esaurirsi nel Sole del combustibile nucleare.

Le rose finite

Pietro Rossi, nel capitolo L’antinomia della ragione di stato del saggio Lo sto­ricismo tedesco contemporaneo (4), così illustra il binomio potenza-spirito nell’ultimo esponente dello storicismo tedesco, Friedric Meinecke (p.495): `Lo stato muove dal terreno naturale, per giungere alla spiritualità; esso è natu­ra, cioè potenza, e spirito – e lo è nel medesimo tempo; lo stato si realizza come kràtos e come àthos. II rappor­to tra necessità e libertà, tra natura e spirito, viene qui a configurarsi come un rapporto tra kràtos e àthos, tra l’a­spirazione alla potenza e l’aspirazione ai valori culturali. (…) Ma questa coesi­stenza (di kràtos e àthos, ndr) non è mai pacifica, é invece una coesistenza che si regge sul loro permanente con­flitto. Kràtos e àthos – trascrive a que­sto punto Rossi dall’opera di Meinec­ke Die Idee der Staatsrason in der neueren Geschichte insieme edifica­no lo stato e fanno la storia. Ma quan­to è oscuro e problematico il loro rap­porto reciproco ad ogni grado dello svi­luppo, e soprattutto nell’agire dell’uo­mo di governo! Lo stato, per affermare la propria potenza, non si cura di rispet­tare i propri valori nella loro autonomia, ed anzi cerca di assoggettarli alla po­tenza stessa; e d’altra parte la realiz­zazione di tali valori implica la subordi­nazione della potenza allo spirito. In questa polarità, che è pure antitesi, la linea di comportamento di ogni sta (Sot­to questa definizione vengono general­mente compresi una serie di autori che, per un verso o per un altro, hanno por­tato alle estreme conseguenze il rifiu­to della società industriale e dell’orga­nizzazione sociale contemporanea, ca­dendo spesso in vagheggiamenti rea­zionari di improbabili società arcaiche.

Non importa qui che Meinecke, par­tito dall’apologia della politica bismarc­kiana (l’unificazione della Germania at­tutata con una potenza senza remore morali, che avrebbe trovato la propria giustificazione nella cultura tedesca convertita al nazionalismo dalle guer­re napoleoniche), risolva infine (dinan­zi al catastrofico fallimento della real­politiknella prima e nella seconda guerra mondiale, con tradizioni col rifugio nella trascenden­za. L’importanza di Meinecke consiste nella fatale aporia in cui ha finito per cacciarsi il culturalmente poderoso storicismo te­desco che, da Dilthey a Weber, ha cer­cato di fondare una storiografia che prescindesse sia dalla speculazione motofisica di Hegel sia dal materialismo storico marxiano. Con lui, sulla strada, si è arrivati a una frontiera invalicabile: e infatti al di là, invece di nuovo, più ela­borato storicismo, troviamo la fenome­nologia di Husserl, l’esistenzalismo di Heidegger, lo psicologismo di Jaspers, tutte correnti di pensiero estranee al problema centrale della storia: il rappor­to fra dominio e libertà, potenza e spi­rito, che Adorno affronterà in termini di dialettica negativa. “La sproporzione, rileverà (5), tra potere e ogni forma di spirito — ormai scaduto a luogo comu­ne — è diventata così enorme da vanificare i tentativi, ispirati dal proprio con­cetto di spirito, di comprendere ciò che è predominante.”

Come avrebbe potuto ancora parla­re di antinomia e sintesi di kràtos e éthos, dopo che aveva visto — prima nella Germania di Weimar, e, succes­sivamente, in quella nazista, negli Sta­ti Uniti (dove aveva trascorso l’esilio), e nella Germania Federale — che cul­tura è funzione del potere in un univer­so di esseri umani “amministrati” ma­terialmente e spiritualmente? Se la cul­tura “aborrisce il lezzo (6), è solo per­ché essa puzza, perché il suo palazzo è costruito di merda di cane, come di­ce un passo grandioso di Brecht.

Anni più tardi dopo che fu scritta tale frase, Auschwitz ha dimo­strato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse suc­cedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che es­sa, lo spirito, non sia riuscito a raggiun­gere e modificare gli uomini.” Cultura nel mondo “amministrato”, dove è ma­turata, insieme con Auschwitz, Hiroshi­ma, può essere soltanto connivenza con un potere connotato dalla sua ca­pacità di annientamento totale.

Il processo, emblematizzato, in fra­se preatomica, con Auschwitz, e che s’è mostrato poi, a Hiroshima, come ir­reversibile razionalità del dominio fon­dato sul terrore assoluto, ha privato la cultura d’ogni potenzialità propositiva Lukacs, che a tale potenzialità — en­tro la sfera del socialismo reale — cre­deva ancora, si riferiva ad Adorno, e, in genere, alla Scuola di Francoforte, come al Grand Hotel Abgrund (il Grand Hotel dell’Abisso): i fatti però hanno mostrato che l’impotenza propo­sitiva inflitta a éthos a opera di kràtosnon conosce differenziazioni fra l’area occidentale di Adorno e l’area orienta­le di Lukacs: e se al tempo di Adorno qualche lembo di verità era ancora rin­tracciabile nella negazione, ora questa s’è banalizzata nel cantico della “fle­bilità” del pensiero, dello chic del disim­pegno, che demanda agli “esperti” il problema del dominio, mentre l’altro (dello spirito) s’è inserito nel puzzle er­meneutico.

Siamo, in altri termini, all’atomo (il potere tecnologico, che su tutto coman­da: natura, società, spirito) senza più le rose (la creatività culturale, sostitui­ta dall’industria della cultura), esibita sul mercato in mucchio con le altre merci). Invece che il profetizzato pas­saggio di Marx dalla preistoria alla sto­ria, dal regno della necessità al regno della libertà, s’è avverato il sinergismo della condizione naturalistica dell’uomo (quando la necessità obbediva era la stessa delle bestie) con la fase del più sviluppato sapere tecnico-scien­tifico della scienza umana, il sapere della storia umana, il sapere fondato matematicamente da Galileo astra dalla vita. Col risultato che, nell’adora­zione, che ci viene spontanea, di rose finte (di plastica, scambiate per quelle che in passato costituivano il sorriso della vita, per cui anche i miseri s’ac­corgevano che il pane non basta, ci vo­gliono anche le rose), siamo incapaci di rivolgere l’attenzione alla realtà, che non è soltanto lo scandalo denunciato da Marx di una umanità mercificata, ma è pure un pianeta esposto — nell’even­tualità della guerra nucleare e nel per­durare dell’ecocidio in atto — a una morte prematura rispetto a quella che l’attende, fra milioni di anni, per l’esau­rirsi, nel Sole del combustibile atomico.

La storia prima e dopo Hiroshima

Nel caso che il pianeta non soccom­ba né per ecocidio né per conflagrazio­ne atomica, la futura storiografia dovrà registrare una cesura senza precedenti nel corso storico, dialetticamente carat­terizzato da continuità e discontinuità: il prima e dopo Hiroshima.

Narreranno che “prima” ci si dette­ro, via via, tra cominciamenti cosmolo­gici. Ci fu un tempo in cui si attribuiva a divinità molteplici la creazione del So­le, della Terra, degli uomini. Poi si pen­sò (nel bacino mediterraneo) a un uni­co Dio creatore, quello biblico. Infine fu accolta la religione della Scienza.

Non è cosa da nulla, evidentemen­te, pensare un incominciamento inve­ce che un altro, promanare da Dio o discendere invece da animali mai perve­nuti all’autocoscienza.

Si consideri quando la Bibbia era presa sul serio così come oggi un trat­tato di biologia. Sul fondamento di quanto c’era scritto, gli umani si senti­vano figli di un unico Padre celeste, e la vita era il banco di prova per divide­re il grano dal loglio, gli eletti destinati alla beatitudine senza fine, e i dannati, privi di eterno della luce di Dio: un Dio così partecipe del dramma umano, da aver immolato il Cristo per aprire ai pro­bi le porte del Cielo. Era il tempo delle due Città, la terrestre e la celeste, due emisferi dello stesso cosmo.

Impensabili, in questo quadro, nichi­lismo, disperazione labirinti kafkiani. Non che il Demonio fosse assente: co­me non ricordare l’Ecclesiaste che di­leggia la speranza, e streghe ed ereti­ci arsi vivi, e che anche allora si mori­va più di malizia umana che di cause naturali? Ma ciò non può cancellare il senso di una vita indistruttibile nono- stante la morte, giacché l’Uomo era la parola dì Dio.

Tempi di scarsa mobilità, quando — secondo la parabola kafkiana — la Ci­na era tanto grande, che dovevano cor­rer via anni perché nelle provincie più lontane arrivasse la notizia della morte dell’imperatore, per la quale si intrisala nel lutto quando ormai il successo­re regnava da tempo, e magari era già morto a sua volta. Un mondo con scar­si mercanti, e tutti di piccola taglia, ché il vero Mercante — il cui tocco tramuta l’universo in merce — era ancora di là da venire, avendo necessità per il pro­prio operare di velocità ultrasoniche co­sì come il Guerriero di armi da ecatom­be. Non per nulla Galileo, era figlio di una civiltà mercantile. Significativo pu­re il profeta della scienza come pote­re, Bacone, abbia soggiornato sulla Terra quando il suo paese stava per lanciarsi alla conquista del mondo.

Finì così che il posto di Dio fu preso dal commensurabile, dove non c’è me­tro di misura per l’Uomo, che è parola divina. Lì per lì parve una liberazione la scoperta che il Sancta Sanctorum era il luogo delle ragnatele. Ma poi —dal momento che l’Uomo non può vi­vere di solo pane si industriarono i sa­cerdoti della Scienza a scrivere la Bib­bia del post-religioso. E venne l’Evolu­zione. E si vide che non era trina come il mitico Dio biblico, ma duale, come le ruote della bicicletta, battezzate rispet­tivamente Caso e Necessità.

L’hegeliana fenomenologia dello spi­rito si tramutò nella più strabiliante sto­ria della natura, alla cui anima (il pro­cesso evolutivo), tirando sbadatamen­te manate di fango su una tela, vien fat­to di disegnare l’universo, Uomo com­preso. Una cosa altrettanto, se non più, inspiegabile, della creazione biblica, con la differenza che in questo caso, essendo la faccenda gestita dalla Scienza, nessuno può dubitare che, col tempo, tutto troverà spiegazione.

Si è cresciuti, ché mentre prima ci si rimetteva a un mistero precluso a ogni conoscenza razionale, ora la spiegazio­ne, sull’onda lunga della razionalità scientifica, è solo questione di tempo. Solo inconveniente (ma che vale ben la pena di accettare rientrando nel prez­zo per essere adulti) che, al contrario della favola biblica, che non comporta­va nevrosi, la favola scientifica spalan­ca le porte alla schizofrenia, dal mo­mento che per comunicare c’è bisogno della parola che non conosce limiti al­la creatività, parola negata a sopravvi­venza in un mondo racchiuso in formu­le matematiche, che servono per met­ter piede sulla Luna, ma del tutto inef­ficaci anche semplicemente per dare allegria al nostro cane, e indurlo a scodinzolare.

Garante che il gioco vale la candela l’Illuminismo, riuscito a persuaderci che nel passato, quando ancora non ave­va preso forma il grande Mercante, era buio pesto. La luce, secondo questa nuova fede, è davanti a noi, basta che si vada nella sua direzione per guada­gnarci la Gerusalemme celeste, la ben­godi universale. Poco male dunque se, non appena si distolgono gli occhi dal­la Tv, si rischia di perdere la testa nel­l’angustia di un palcoscenico, dove si paga anche l’aria che si respira per il breve tempo di una vita, dovuta a Ca­so e Necessità, e destinata a dissolver­si, per quanto ci riguarda personalmen­te, in una buca brulicante di vermi vo­raci, essi pure figli dello stesso Caso e della stessa Necessità. A salvarci è la certezza che la Scienza lavora per noi, cosicché un giorno l’Uomo finirà per capire tutto, capire a segni, come i muti, in omaggio all’imperativo di Wittgen­stein (la Razionalità fatta carne) di non dire ciò che non si può dire sul fonda­mento del tautologismo logico-analitico.

Si sia trattato dunque di politeismo, o di un Dio padre di tutti gli umani, o della Scienza che deterge l’anima dal­le superstizioni religiose, sempre l’Uo­mo ha tratto dalle proprie miserie mo­tivo di speranza. L’irreparabile, unila­terale discontinuità (senza più rappor­to con il continuumstorico) s’è mostra­ta nel bagliore di Hiroshima, quando il carburante solare s’è fatto realtà terrena pregiudicando l’ordine di Dio, o dei-l’Evoluzione, che quel carburante han­no predisposto per rendere possibile il generarsi e dispiegarsi della vita.

L’ideologia atomica

Per questo Dio s’era mosso, inco­minciando col dividere la luce dalle te­nebre? Questo l’interrogativo di chi, no­nostante l’Illuminismo, continua a spie­garsi l’universo con la creazione divi­na. Interrogativo che vale anche per il credente nella Verità laica: il fine del­l’Evoluzione era dunque quello di pla­smare una specie — quella suprema, dotata di autocoscienza — che non sa far di meglio che determinare le condi­zioni per il proprio suicidio? (7)

Quesiti suscettibili di indurre una mo­struosa mutazione genetica dell’Uomo, che deve senza posa riprodursi mate­rialmente e spiritualmente, disporre, ol­tre che di pane e companatico, di divi­nità — religiose o secolarizzate che sia­no — donde vengano ragioni di speranza. Se si è evitata, nell’ambito del com­mon sense, la catastrofe nichilista, si deve ai corifei della Scienza, che han­no elevato l’atomo a passaggio obbli­gato per l’unità di tutti i popoli della Ter­ra e la conquista pacifica del sistema solare.

Si è incominciato con l’indicare nel­l’atomo (quando ancora l’Urss ne era priva) il pietrificante baluardo della Li­bertà, tramutandolo poi (fase dell’equi­librio del terrore) in sicuro, insostituibi­le paladino di pace. Poi, finita la fase della deterrenza (reciproca distruzione assicurata), il messia atomico è stato presentato nelle vesti dell’Sdi (Iniziati­va di difesa strategica), cui immolare, se necessario, centinaia di milioni di vi­te umane, prezzo, tutto sommato, esi­guo, considerati i benefici che conse­guiranno dopo che, con un primo col­po definitivo (che non lasci possibilità di risposta), si espungesse il Male dal mondo, abbattendo così tutte le barrie­re politiche, e determinando, di conse­guenza, le condizioni per la pace per­petua all’insegna della Libertà.

Inutile dire che, su questo punto, non c’è consenso da parte dei Signori del Male: ma anche per loro l’Sdi costitui­sce il punto di svolta, naturalmente con segno contrario. Si rinunci ad essa, di­cono, e si bandiscano tutte le armi ato­miche, e si faccia dell’atomo — con al fusione controllata — fonte inesauribi­le di energia, e ne verrà necessaria­mente un mondo di liberi e di uguali, tutti parimenti felici — anche se per qualche tempo continueranno ad esse­re straziati dalla fame — della grande, pacifica avventura spaziale, che porte­rà al controllo dell’intero sistema sola­re. Non predisse un loro antenato, Eu­gels, la fuoriuscita dell’umanità, grazie al progresso scientifico, da tale siste­ma, destinato al piombare, con lo spe­gnimento del Sole, nella notte eterna, per andare a colonizzare altri sistemi, altre galassie?

La Terra Promessa — grazie all’Sdi, o invece rinunciandovi — sarebbe final­mente a portata di mano: parola, rispet­tivamente, dell’Impero del Bene e di quello del Male, differenziati in questo: che all’Ovest si pone come prezzo quanto meno l’irreversibile distruzione del Vecchio Continente, mentre per l’Est basterebbe tirare i remi in barca della corsa al riarmo, finanziando il pro­gresso scientifico, con gestione delle due superpotenze, alla liberazione del­le avversità naturali e storiche che han­no sempre accompagnato il cammino dell’Uomo. Identica però, in tutt’e due i casi, la visione di fondo: la Scienza co­me il Deus ex machinache può colma­re le lacune del Creatore, o, se si vuo­le, accelerare il trend evolutivo, realiz­zando, in chiave tecnocratica, il pas­saggio, profetizzato da Marx in ispira­zione filosofica, della preistoria alla storia.

Nessun cambiamento, per questo aspetto, fra prima e dopo Hiroshima. Il Potere resta fermo infatti alle “magni­fiche sorti e progressive”, e l’angoscia è dei pochi, provenga dall’impossibili­tà di individuare una qualsiasi relazio­ne fra dominio atomico e una democra­zia credibile, o invece dalla disperazio­ne per l’evidente impossibilità di conti­nuare a tener fede a una razionalità scientifica rivelatasi, estinguendo la tra­dizionale mediazione politica, che gron­dava sì lacrime e sangue, ma che co­munque permetteva il perpetuarsi del ricambio generazionale.

In effetti mentre prima di Hiroshima era, per lo più, la politica a comandare al fucile, ora è il terrore atomico, che comanda non solo alla politica, ma al­lo stesso agire comunicativo, stravolto, in puro verbalismo, cosicché anche il terrore si banalizza, ed è un vanto “pensare debole”, o addirittura non pensare affatto, dialogando e concio­nando come personaggi di Jonesco.

Hiroshima, in altri termini, non ha so­lo proiettato sul mondo il cono d’ombra dell’apocalisse: ha dato pure — a chi può fare del pianeta pattume radioatti­vo — in possibilità di sostituire gli stru­menti dialettici della comunicazione con gusci vuoti verbali, col risultato che la subalternità dei popoli non ha più pa­role di ribellione nédi consenso, sem­plicemente è parlata dal Potere.

L’altra faccia dell’ideologia

Resta pur sempre, tuttavia, un’estre­mizzazione lo scenario proposto da Re­nato Curcio (8) di una società compo­sta di “corpi ritualizzati” che abbaia con “linguaggi irritati”. Un approssi­marsi a questo universo di teratologia cibernetica è bensì avvertibile nelle grandi metropoli del mondo: ma l’espe­rienza quotidiana ammonisce che è proprio da lì che si leva la denuncia del­la minaccia di estinzione prematura del genere umano per ecocidio e olocau­sta nucleare.

Anche quest’aspetto però è parziale così come quello contrapposto di Cur­cio. Intanto si resta alla denuncia fine a se stessa, del tutto estranea a politi­che ad hoc , che comporterebbero —semplicemente per arrestare il proces­so d’ecocidio in atto e una corsa al riar­mo che costituisce la fame — il rivolu­zionamento di tutto, dai quotidiani stan­dard di vita, ai vigenti modelli di svilup­po fondati, all’Est e all’Ovest, sulla di lapidazione delle risorse umane e na­turali. D’altra parte Hiroshima è stata sì una rivelazione, ma anche una con­ferma. La vocazione al suicidio della specie fu evidenziata dalla prima guer­ra mondiale, inaugurata nel generale tripudio, con lancio di fiori ai soldati por­tati al macello. Vero che il carnio finì per determinare, per reazione, l’Ottobre rosso, che però, invece che aurora del­la palingenesi, si rivelò una mutazione interna al capitale, dotata di margini sufficienti per la realizzazione del so­cialismo reale, che oggi, con Gorba­ciov, può ben definirsi il capitalismo dal volto umano, perché almeno garantisce lavoro salariato, divenuto privilegio in Occidente. (9)

Fu proprio Lenin a lanciare lo slogan “socialismo uguale soviet più elettrifi­cazione”, come dire parole e decisio­ne assembleari più il dispotismo tecno­logico dei Tempi moderni di Chaplin. Un abbaglio di Lenin, si dice, quasi che lo stesso Lenin avesse potuto indiriz­zarsi diversamente. Il mercato e le esi­genze della difesa imposero alla “pa­tria del socialismo” di affrettarsi a fun­zionare al più presto, qualunque fosse il costo da pagare, come l’America di Ford.

Se abbaglio ci fu, nell’aver creduto che l’alta tecnologia, incorporata nella produzione potesse essere finalizzata altrimenti che in America, e cioè alla soddisfazione dei bisogni umani, anzi­ché alla valorizzazione del capitale. Ma­gari, volendo, questa tecnologia potreb­be anche venir bene per i bisogni uma­ni, quanto meno per quelli del Nord svi­luppato: sta di fatto comunque che è con essa che si è pervenuti ai sistemi d’arma atomici e alla cibernetica della comunicazione per la cattura del con­ senso. Non è un caso, che l’Urss, se non fosse stata invasa e distrutta per un terzo dai nazisti, sarebbe probabil­mente arrivata prima dell’America all’a­tomica, così come non è un caso che ai giorni nostri si legge in Novosti (10) che in Unione Sovietica “i computer so­no considerati un mezzo di sostegno al rapporto dell’uomo (dei gruppi sociali o della società nel suo complesso) con il mondo naturale o artificiale, un mez­zo di comunicazione fra gli uomini, non­ché un mezzo di sviluppo del loro mon­do spirituale. I personal computer per noi sono soprattutto uno strumento per evidenziare l’intima ricchezza umana e le capacità individuali, e per realizzar­le. (…) Siamo d’accordo con la tesi di Alberi Schweitzer secondo cui ‘una cul­tura che sviluppi l’aspetto materiale senza sviluppare parallelamente quel­lo spirituale (la comunicazione compu­terizzata!, ndr) è simile a una nave che, senza il timone, perde la manovrabili­tà e inesorabilmente si dirige verso la catastrofe’.”

Scriveva nel 1855 il capo Sealth, del­la tribù Duwanish, all’allora presidente americano Franklin Pierce: “Noi sap­piamo che l’uomo bianco non capisce i nostri motivi. La terra non è sua so­rella, ma sua nemica. Non ci sono po­sti quieti nelle città dell’uomo bianco. Nessun posto dove sentire lo stormire delle foglie in primavera o il ronzio del­le ali degli insetti”. “E concludeva con parole che, a oltre un secolo di distan­za, risuonano profeticamente: “I bian­chi passeranno, forse più presto di al­tre tribù. Continuate a contaminare la casa dove vivete, e una notte — quan­do i bisonti saranno stati tutti massacra­ti, i cavalli selvaggi tutti domati, e i pa­norami delle fertili colline sfigurati dal­le linee dei fili che portano parole — soffocherete fra i vostri rifiuti.” (11)

Gli indiani delle grandi praterie ame­ricane non si sono fatti assimilare dal­la nostra civiltà tecnologica. Cosa che può anche proporre il quesito se il loro pensiero, nonostante le apparenze, non fosse ben più profondo di quello sepolto nei nostri pantheon del sape­re. Sta di fatto però che, proprio perché non assimilabili, sono scomparsi come popolo, e che ai pochi superstiti non re­sta che la scelta fra farsi massacrare in un ultimo, disperato combattimento, o spegnersi a fuoco lento nell’emargi­nazione.

Ora Lenin era un bianco, che inten­deva liberare il mondo dagli oppresso­ri. E non poteva perciò rinunciare alla loro arma suprema: una tecnologia on­nipotente con capitale incorporato, mo­dellata per riprodurre sempre più celer­mente e abbondantemente, in pace e in guerra, capitale.

Il dilemma è dunque fra la consape­vole scelta suicida dei pellerossa o un rivoluzionamento illusorio che, attraver­so la tecnologia, finisce con l’omologar­si col nemico collaborando con lui alla liquidazione del genere umano?

Forse sono pensabili anche alterna­tive diverse, pensabili, e comunque da ricercarsi: certo è che l’altra faccia del­l’ideologia del Potere la prospettiva di un mondo non più minacciato da atomo, inquinamento, desertificazione, terato­logia fisica e spirituale, raggiungibile a cavalcioni del dominio atomico e limi­tato alle aree sviluppate. Mai come og­gi si è tutti nella stessa barca, “svilup­pati” e “sottosviluppati”, per cui la sal­vezza, se è ancora possibile, è di tutti o di nessuno.

Quel che conta

In ogni caso — se salvezza ci sarà — non potrà trattarsi di processo indo­lore; e d’altra parte, qualunque sia il de­stino, che almeno se ne abbia coscien­za, prendendo atto della realtà.

Reale è che l’atomo non ha risolto, e mai potrà risolvere (neanche in caso di pacifica cogestione del mondo da parte delle due superpotenze) le con­traddizioni sociali all’interno delle na­zioni e su scala mondiale, che promet­tono convulsioni sempre più catastro­fiche col progredire delle tecnologie produttive (dilatanti disoccupazione e gap Nord-Sud) e di annientamento. Gheddafi, che non perde occasione di dire quel che tutti pensano, già l’ha det­to: senza arsenali atomici, la nazione araba non potrà mai riscattarsi dalla sua sudditanza agli attuali padroni del pianeta. Inutile osservare che la nazio­ne araba esiste solo sulla carta, e che i suoi arsenali atomici per ora sono un miraggio. Il che non toglie che un gior­no o l’altro non possa esplodere un or­digno atomico in qualche metropoli così come oggi esplodono auto imbottite di tritolo.

Ammonirono i pochi scienziati dissi­denti che avevano partecipato alla co­struzione della prima “bomba”: se la si usa ora che, con la sconfitta del na­zismo, non è più necessario, si scate­na una corsa senza fine a livelli sem­pre più atti di terrore, trattandosi di ar­ma cui non è opponibile difesa, e che si può sperare di mantenere inattiva so­lo con un’incessante gara a poten­zialità terroristiche sempre più svilup­pate. Quanto è avvenuto dopo Hiroshi­ma ha confermato la previsione. L’ha confermata nel rapporto Est-Ovest. Ora è il momento del Sud, come fanno pre­sagire situazioni tipo quella mediorien­tale.

“In un sondaggio tra esperti militari, riferisce Noam Chomsky (10), il 55 per cento ha classificato i conflitti del Me­dio Oriente come la causa più proba­bile di guerra nucleare, e il 16 per cen­to ha indicato la possibilità di scoppio accidentale, in conseguenza dei pro­gressi tecnologici in campo bellico.”

Lì, in quello che è detto Medio Orien­te, e che in realtà comprende l’arco che va dal Mediterraneo centrale all’Ocea­no Indiano, è ormai luogo comune che, scartando la capitolazione, non c’è al­ternativa alla pratica del terrore quan­do il Dominio mondiale pratica il terro­re in misura direttamente proporziona­le alla perdita di consenso: di qui il fon­damento del giudizio degli esperti mili­tari riferito da Chomsky. A ben consi­derare il dilemma resa o risposta ter­roristica è il filo rosso che percorre la storia da molti anni, e non solo in Me­dio Oriente. Non fu il rovesciamento ter­roristico del governo Allende nel ’73 la ragione principale della conversione di Enrico Berlinguer al compromesso sto­rico, da leggere come resa incondizio­nata alla Dc in cambio di un avallo di quest’ultima circa l’affidabilità atlantica del Pci? Quel tempo — ora che l’Urss è inequivocabilmente disponibile a ga­rantire, per quanto riguarda, lo status quo mondiale senza più alcun culto per la “liberazione dei popoli”, chiedendo come contropartita lo stop della corsa al riarmo e alla ricerca bellica — è or­mai lontano. Ma come non tenere con­to nell’indagine sulle ricerche delle cau­se della débacle della sinistra? La “sconfitta della classe”, piuttosto che al fantomatico “post-moderno” e ine­rente “crollo dell’ideologia”, non è le­gato per tanta parte al terrorismo ame­ricano che portò Pinochet al potere? E non è risibile, così stando le cose, la ne­nia sulla “fine della storia”? Risibile nella duplice accezione: empirica a concettuale, ché sconvolgimenti ben più grandi di quelli che hanno rivoluzio­nato il mondo culturale-politico nei quattordici anni dal ’73 a oggi sono da attendersi da qui alla fine del millennio indipendentemente da come si mette­ranno le cose con l’Sdi; e d’altronde, quanto a concettualità, “fine della sto­ria”, se le parole hanno un senso, vor­rebbe dire fine dell’ordine del discorso, fondato su passato e presente, conti­nuità e discontinuità, risaputo e inno­vativo, il che è impensabile anche quando kratos non può dare più alcu­na credibilità riguardo a una sua pos­sibile sintesi con éthos.

Kràtos oggi è cosiffatto che si è tor­nati, in scala planetaria, al tempo del cuius regio, eins religio, quando la fe­de dei sudditi non poteva diversificarsi da quella del principe. A Est si deve far propria la fede nel “socialismo”, così come all’Ovest la fede nella “democra­zia”. Quanto al Sud, il non allineamen­to è una metafora, che non muta la real­tà: lo stare, più o meno vistosamente, da una parte o dall’altra, con le rispet­tive popolazioni coattamente “sociali­ste” o “democratiche”, rispettivamente credenti nel Babbo natale del Cremli­no, che fa intravvedere giustizia ed eguaglianza per il mondo intero purché sia bandito l’atomo di guerra, e nel Babbo Natale della Casa Bianca, che prospetta un presepe con un nuovo Bambin Gesù, annunciato ai popoli, in­vece che dalla stella cometa, dalle ato­miche spaziali che segneranno il defi­nitivo trionfo del Bene sul Male.

Questo importa: capire, al di là della foresta ideologica che impedisce la vi­suale, come vanno oggi le cose nel mondo. E per questo si deve salire sul muro per vedere, da una parte e dal­l’altra, fedeli e miscredenti, i primi (al­l’Ovest) persuasi che il migliore dei mondi possibili risulti la totale mercifi­cazione operata dal capitalismo, o che questo mondo (credenti dell’Est) si identifichi nel socialismo reale; mentre i secondi si illudono che basti segnare il muro, da una parte e dall’altra, con lo stesso graffito di segno contrario: John go home, Ivan go hom, quando non guazzano nel brago della “fine dal­le ideologie” e della “perdita di senso”.

Importa capire, in una parola, che neanche con artigli atomici kràtos è in condizioni di liberarsi di éthos dal mo­mento che, come già vide Platone, an­che i predoni hanno necessità di ele­menti di coesione interna. Naturalmen­te quegli artigli contano, tanto che og­gi la guerra, che in passato era la tem­poranea sospensione mediatrice della politica, attualmente è il burattinaio del­l’apocalisse, inesauribile nelle sue fan­tasie belliche proiettate nei cosiddetti punti caldi del mondo, dove finora so­no rimaste circoscritte per il terrore su­scitato dallo stesso burattinaio di scon­finamento nello scontro risolutivo, che spegnerà la vita sulla Terra. E tuttavia la scelta, pena, altrimenti, la rassegna­zione al suicidio morale, resta quella stessa di Madre Coraggio.

Era, come sappiamo, vivandiera al seguito delle truppe, e un bel giorno si trova senza più neanche un figlio, strappato via, uno dopo l’altro, dalla guerra. Gliene resterebbe uno, Eilif, se potesse immaginare dove ritrovarlo, ammesso che sia ancora vivo. “Non hai proprio nessuno”. le chiedono i contadini, “nessuno da cui andare?” “Sì”, dice, “Elif”. “Lo devi trovare”, sentenziano i contadini. “Ma dove in quell’universo di devastazione? E co­sì, quando percepisce i pifferi e i tam­buri di un reggimento diretto al campo di battaglia, grida ai soldati: “Ohé, gen­te, prendemi con voi!” E il dramma si chiude col canto, chi all’inizio dà voce la stessa Madre Coraggio: “Con le sue feste, coi suoi pericoli, I la guerra già dura da un pezzo. / Può durare cent’an­ni, la guerra, / ma ci ha poco guadagno chi è povero. I Mangia sporcizia, veste di stracci, / il comando gli ruba la pa­ga… / Ma può ancora venire un mira­colo, / e ancora è lontana la fine! / Vien primavera. Cristiani, sveglia! / La neve sgela. I morti dormono. I Ma quel che morto ancora non è I ora il cammin ri­prenderà.” (13)

Dario Paccino

Note

1) Frank Kafka, Schizzi, parabole, aforismi, Mursia, Milano 1985, p. 253: “Misurati con l’u­manità, essa fa dubitare chi dubita, fa credere chi già crede.”

L’attuale “contesto”, nel quale qualunque inco­minciamento comporta una fine, si tratti di indi­vidui, popolazioni, pianeti, galassie, ci viene da una componente fondamentale della nostra cul­tura, il naturalismo, impostosi, nell’era moderna, come congeniale strumento ideologico della bor­ghesia. Esso è stato l’arma più efficace, sul ter­reno ideologico, per la obsolescenza di Dio leggittimatore del dominio. Se la natura è forza au­tonoma, chiaro che il rapporto universale-particolare è quello teorizzato da Spinoza con na­tura naturans e natura naturata, categorie laiche nelle quali non trova posto Dio se non immanen­tisticamente, un Dio alieno dal far dono al Signore del carisma, autorizzandolo così a comandare al Servo. Nego!, che pur era interessato a uno sta­to forte, e dunque al privilegiamento dell’univer­so, sta al gioco, facendo del Sianore colui che, per essere riconosciuto, sfida la morte, al con­trario del Serve che alla vita paga lo scotto con subalternità e lavoro. Rousseau, che pur spiega­va spiega­va i mali del suo tempo col decadimento dell’uo­mo dalla primitiva felicità dello stato di natura, indica a rimedio il contratto sociale, nuova legit­timazione del dominio con un’altra divinità altret­tanto fantomatica di quella tradizionale: la Sovra­nità Popolare.

Il naturalismo, nonostante l’implicito meccanici­smo privo di finalità, ha soddisfatto tanto il bor­ghese che preparava la propria rivoluzione, quan­to il socialista “scientifico” che, materializzan­do l’idealismo hegeliano, concepiva la storia co­me divenire dialettico indirizzato alla liberazione dai lavoro salariato con l’abrogazione della dua­lità Signore-Servo.

E Ugo Foscolo che s’avvede che il naturalismo, se ha contribuito a rendere possibile la rivoluzio­ne francese dell’ultimo scorcio del Settecento, ha posto l’Uomo alle prese con un determinismo, per cui tutto quello che è dev’essere; e se non dovesse essere non sarebbe”, cosicché, visto il mondo com’è, le distinzioni di diritto e di fatto, di natura e di società, di ragione e di passione, guastano ogni verità: tutto è sano indivisibile, in­comprensibile, e non è se non perché dev’esse­re”. (Lettera dell’8 maggio 1809, citata da Bru­no Dirai, La posizione storica di Giacomo Leo­pardi Einaudi, Torino 1974, p. 39)

Non per questo Ugo Foscolo perdette gusto per le scelte politiche, per mantener fede alle quali, infine, nonostante gli allettamenti dell’Austria da lui combattuta, prese la via dell’esilio. Tutto il con­trario di Leopardi che, dopo aver guardato alla natura, nei verdi anni della meditazione “filoso­fica”, con gli occhi di Rousseau (senza avvedersi che la visione di quest’ultimo non era solo spe­culativa, ma anche politica), scopre, pensando­ci meglio, che la natura, per il fatto di essere mec­canica, senza scopo che non sia quello di crea­re ciecamente, e ciecamente distruggere, è una tragica beffa, una mostruosità tirannica contro la quale ribellarsi così come Bruto si ribellò alla ti­rannia di Cesare, accettando storicamente la morte. Di qui il quesito che pone al Giordani (let­tera del 24 aprile 1828, stessa fonte, p. 44) se “la felicità de’ popoli si possa dare senza la feli­cità degli individui, i quali sono condannati all’in­felicità dalla natura, e non dagli uomini, né dal caso.”

La visione naturalistica ha generato, con i miraggi trionfalistici della metafisica scientifico-borghese, anche tragiche rotture rispetto al passato, quando si pensava che la storia avesse una sua provvi­denzialità, e un telos (un fine), che riscattava sof­ferenze e morte.

Secondo il filosofo tedesco Gúnther Anders (L’uo­mo è antiquato, il Saggiatore, Milano 1963), il ni­chilismo russo, a cavallo fra l’Ottocento e que­sto secolo, sarebbe uno degli esempi più clamo­rosi della collisione fra il mondo “provvidenzia­le” di un paese arretrato come la Russia e il na­turalismo occidentale galvanizzato dall’industria­lismo trionfante.

Fatto sta comunque che l’approdo della ricerca scientifica è quello illustrato con gelido orrore da Leopardi in quello che Da Sanctis riteneva la fo­calizzazione del pessimismo leopardiano, il Fram­mento apocrifo di tratone di Lampsaco: un pe­renne succedersi di “modi” della materia (vite e mondi) ad opera di una natura protesa così a creare come a distruggere, senza curarsi della tragicità che ciò comporta. Che tale realtà abbia o no un senso è quesito analogo a quello dell’e­sistenza di Dio, dopo che Kant ebbe dimostrato l’impossibilità logica di dedurre tanto l’esisten­za che l’inestistenza del divino. È Leopardi che sbaglia a fidarsi, sulla base dei fatti scientifica­mente accertati, della tesi dell’insensatezza, così come sbaglia un gigante della filosofia, Hegel, nell’identificare al tragica vicenda storico-naturale col divenire dello Spirito attraverso la triade del porsi, negarsi e della sintesi. Felici errori, cui dob­biamo il canto del pastore errante, che non sa dove tende il “vagar suo breve”, e il poema ha­geliano della tragedia del Verbo che si fa carne, due fuochi duraturi fra i pochi accesi nei secoli per rendere le notti meno buie, il freddo più tollerabile. Ma chi può dire, scorrendo da un fuoco all’altro, nel nostro Occidente e nel resto del mon­do, come stiano veramente le cose?

Chissà che la saggezza non sia di Kant che, do­po aver fissato il limite logicamente invalicabile, si decide ad accogliere, mosso da pietà, la ver­sione del divino consustanziato finalisticamente al naturale, versione che quantomeno consente la fondazione di una morale, preclusa al natura­lismo. E non va scorta pietà anche in Leopardi che, ormai prossimo al compiersi del proprio de­stino, invoca nella Ginestra, passando sopra al suoi pessimismo sulla natura umana, l’affratel­lamento di tutti gli uomini, perché si realizzi fi­nalmente “l’onesto il retto conversar cittadino”, e abbiano saldo fondamento “giustizia e pie­tade”?

2)La “storicità come emergenza dalla vita” è figura di Georg Simmel (1858-1918).

3)Hiroshima e Nagasaki, per l’esattezza, fu­rono vittime della fissione atomica: la fusione del­l’atomo, a somiglianza di quanto avviene nel So­ le, fu realizzata più tardi, con la bomba termo­nucleare.

4)  Einaudi, Torino 1956.

5)  Theodor Adorno, Dialettica negativa, Einau­di, Torino, Edizione 1980, copyright tedesco ori­ginario 1966, pp. 3-4.

6)  Ivi, p. 331.

7)  Chiede angosciato chi ritiene che la storia sia finita (Pietro Barcellona, L’individualismo pro­prietario, Boringhieni, Torino 1987, p.12): “è tut­to ciò il compimento di un destino evolutivo se­gnato dall’incompletezza biologica dell’Homo sa­piens, oppure l’esito di un processo che ha al­l’origine un atto fondativo e una decisione appa­rentemente rimossa?”

8)  Renato Curcio, Bull Roarer & Flauti, Grafi­che Panico, Gelatina (Lecce) 1987.

9)  Sì, a ben considerare, un controsenso “ca­pitalismo (sfruttamento) umano”. L’espressione tuttavia regge sul fondamento del discorso do­minante, secondo il quale non è più pensabile socialismo (liberazione), dato il manifestarsi, nelle ricche nazioni del Nord, delle cosiddette società dei due terzi, il 60-70 per cento di integrati e sod­disfatti, e la restante percentuale di emarginati. Basterebbe dunque, secondo questa logica, dare pane e companatico (anche con l’economia som­mersa) ai due terzi di un arco politico-geografico, che rappresenta sì e no un quinto della popola­zione mondiale, per far disperare dell’emancipa­zione sociale dell’umanità. E allora perché far boccacce al socialismo reale, un Welfare State che, sul piano meteriale, soddisfa probabilmen­te ben più dei due terzi della popolazione? Se l’Urss non è portata a modello, è solo perché la decisionalità suprema è dello stato anziché del­le multinazionali. E in più c’è il fatto che, senza un’Urss impero del male, come giustificare il privilegiamento dell’accumulazione con l’industria bellica?

10)   15 maggio 1987.

11)  Notiziario Pro Natura, Torino 1977.

12)  Noam Chomsky, La quinta libertà, Elèuthe­ra, Milano 1987, p. 285.

13)   Bertolt Brecht, Teatro, vol. Il, Einaudi, To­rino 1951, p. 228.

Una cosa sapeva Madre Coraggio: che la guerra, di cui sempre i meno forti, in particolare i po­veri, fanno sempre le spese, non è esorcizzabi­le con pie intenzioni e formule magiche. Basta che convenga a un singolo kràtos, e si ha guer­ra guer­ra, anche se un altro kràtos non la vorrebbe. Èstato Bitler, incarnazione negli anni trenta del­l’imperialismo tedesco, antagonista di quello franco-britannico, a puntare allo scontro arma­to, e ne è venuta la seconda guerra mondiale. Successivamente a dare il via alla guerra fred­da è stato Truman, e Stalin ha accettato la parti­ta, che dura tuttora. Nessuno può escludere, na­turalmente, che se Stalin, alla fine della secon­da guerra mondiale, si fosse trovato nelle condi­zioni della leadership americana (monopolio ato­mico, egemonia economia mondiale), la guerra fredda, e la corsa a un riarmo che nessuno può dire se e quando potrà arrestarsi, sarebbero ve­nute da lui. Stando alla storia, l’intimidazione al­l’Urss, con Hiroshima, è venuta dall’America, spintasi ormai, nell’escalation del ricatto atomico, sulla soglia dell’Sdi, di presunto scudo invulne­rabile che consenta il colpo di spada decisivo contro l’antagonista.

È nella tensione di questo braccio di ferro delle due superpotenze (che fra l’altro ha comportato un drenaggio di ricchezze soprattutto in danno del Sud percepibile nel suo attuale indebitamento di oltre mille miliardi di dollari), che nel Terzo e Quarto Mondo si è continuato a far guerra, con un bilancio di morti calcolato in molte decine di milioni. Semplicemente magico dunque il paci­fismo, persuaso che basti, per scongiurare la guerra, la chimerica “cultura della pace”. Dove si vada a parare quando il pacifista sia in­tellettualmente corretto, lo mostra il citato Giin­ther Anders (v. nota 1). Ebreo, profugo in Ameri­ca con l’Intelligenza tedesca antinazista, ha ca­pito, dopo Hiroshima, che non è più il caso di con­tinuare nel filosofare di sempre, divenuto kràtos intrinsecamente nichilista per il solo fatto di di­sporre dell’arma dell’annichilimento totale, e la situazione, quanto in morale, mostra l’individuo standard che, per lavorare, deve scegliere fra co­scienza del bene e del male, e coscienziosità pro­fessionale, funzione quest’ultima della produzio­ne di merci decise unilateralmente dal padrone, col solo criterio della redditività economica e del­l’espansione del comando, si tratti di armi, di ca­daveri, di esemplari consumistici, e magari di co­se utili purché smerciabili a prezzi remunerativi, cosa che postula, per quanto riguarda l’industria alimentare, la necessità di penuria per i quattro quinti del genere umano.

Nelle opere di Anders, pubblicate in Italia (oltre il citato L’uomo è antiquato, Essere o non essere– Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi 1961, e La coscienza al bando – Il carteggio del pilota Claude Eatherley e di Giinther Anders, Einaudi 1962), si trovano pagine di grande acutezza, ric­che di pathos morale e di sottigliezza discettiva, col limite perà del pacifismo, del sogno di uma­nità liberata dall’atomo nella consapevolezza del­la comune condizione di ostaggio nucleare. Anders si appella a questa umanità, speranzo­so che gli uomini, anche se ridotti a pura fungi­bilità produttiva, finiscano col rendersi conto del pericolo, e, con la forza del numero, costringa­no kràtos a rinunciare all’atomo. Nell’astrazione dalla storia, che è propria del pacifismo, Anders non si è accorto che uno dei due Signori dell’A­pocalisse, Gorbaciov, ha proposto, a Reykjavik (ottobre 1986), la liberazione dell’umanità dall’a­tomo di guerra entro il duemila. L’ha fatto per il suo interesse politico, dimenticando, per altro, di dare l’ostracismo anche all’atomo civile, quello delle centrali, che, in una eventuale guerra con “semplici” armi convenzionali, contaminerebbe­ro la terra quanto basta per pregiudicare il siste­ma della vita. Da questo punto di vista ha ragio­ne Anders quanto nelle Tesi sull’epoca atomica,preparate come relazione introduttiva del sesto congresso internazionale dei Medici per la Pre­venzione della Guerra Atomica (luglio 1986), sot­tolinea che “la distinzione tra l’uso bellico e pa­cifico dell’energia atomica è folle e ingannevo­le”. Comunque la proposta di messa fuori gioco dell’atomo di guerra c’è stata, e non può consi­derarsi positiva, tutto il contrario della risposta dell’altro grande, Reagan, che l’ha respinta, an­che se gli va riconosciuto che altrimenti avreb­be determinato una discontinuità rivoluzionaria nella politica americana inaugurata con Hiro­shima.

Ma come poteva capire Anders, attento più alle idee che alla storia, che uno spiraglio s’era aperto col “nuovo corso” di Gorbaciov? Ha visto soltan­to che, nonostante Cernobil, tutto continua co­me prima, e ha perso la fiducia di convincere gli uomini con le proprie argomentazioni che anda­va sviluppando dal tempo di Hiroshima. Ha ca­pito allora (rara eccezione nell’universo cultura­le del Nord) quel che sanno per dure esperien­za storica i popoli oppressi del Sud, e cioè che le cose non stanno come sosteneva Clausewitz (la guerra essere la persecuzione del rapporto politico con l’inserimento di altri mezzi), essen­do “la pace di oggi la prosecuzione della guerra con altri mezzi”.

E così si è accinto, all’età di 84 anni, a scrivere un libro su “stato di necessità e legittima difesa”. “In tutti i codici, perfino nel diritto canoni­co, dichiara (Il Manifesto, 25 luglio 1987), la vio­lenza in stato di necessità è non solo consenti­ta, bensì raccomandata”.

Ergo, dinanzi alla violenza atomica “non c’è al­tra alternativa che far sapere espressamente, a chi si ostina a minacciarci col nucleare, che d’o­ra in poi, l’uno dopo l’altro, dovranno essere con­siderati selvaggina in regime di libera caccia.” Pacifico che Anders non è impazzito, così come non sono pazzi i kamikaze che immolano la vita contro il ritorno delle cannoniere (questa volta atomiche). L’uno e gli altri sanno che il kràtos nu­cleare, stravolto dalla propria razionalità tecnico-scientifica, non ha più alcun rapporto non si di­ce con éthos, ma con la stessa Zagione. C’è tut­tavia differenza fra Anders e i Kamikaze, giac­ché questi ultimi gareggiano, sul terreno dei fat­ti, col terrorismo dei padroni del mondo, mentre lui passa semplicemente dalla magia della spe­ranza alla magia della disperazione considerato il suo contesto storico.

Un caso, quello di Anders, da rispettare, nello stesso tempo che deve valere come insegnamen­to, l’insegnamento appunto di Madre Coraggio, cui la vita ha insegnato che anche la pace è guer­ra, e che non se ne esce con la ricerca di rifugi fittizi.

Condividi questo contenuto...

Lascia un commento