Mentre è tornado in auge in Italia il dibattito sul nucleare, pubblichiamo un saggio di Dario Paccino del giugno 1987 (apparso originariamente su “NOTEBOOK Quaderni di AUTONOMIA” – Supplemento Autonomia N°40 Anno Decimo), nel pieno della campagna referendaria antinucleare, che portò al primo dei due referendum che hanno sancito la sconfitta politica dell’opzione energetica nucleare in Italia. Dario Paccino (1918-2005) ha combattuto la guerra partigiana e, dopo la guerra, ha militate per decenni nelle formazioni autonome della sinistra, animando le prime lotte ambientaliste e antinucleari nel Paese. Di recente Ombre Corte ha ripubblicato L’imbroglio ecologico. L’ideologia della natura, edito per la prima volta nel 1972. Questo articolo è a cura di Open Memory-Centro studi e documentazione Sherwood.
Abbiamo chiesto per questo Quaderno un contributo al compagno Dario Paccino, autore fra l’altro de L’imbroglio ecologico, le cui tesi sono state poi grotteschemente confermate dal `movimento verde’. Egli sta ultimando un nuovo libro dal titolo L’atomo e le rose – L’ideologia dell’era nucleare, inteso a dimostrare come il potere atomico, nichilista e totalitario, ha operato, da Hiroshima in poi, per conformare i propri sudditi alla propria natura. Ne è risultato un ‘uomo socialista’ all’Est, e un ‘uomo liberale’ all’Ovest, indifferente che la vittoria tocchi a Cristo o all’Anticristo, purché s’accresca di continuo una produttività che promette, quanto meno del Nord, lavoro e benessere per tutti. Che livelli raggiunga ormai la sudditanza atomica s’è visto recentemente con l’ecopacifismo, che, varcata la soglia del parlamento, ha fatto subito atto di lealtà alla Nato, la cui dottrina, com’è noto, è quella dell’Air land battle 2000, la guerra integrata (convenzionale, atomica, chimico-batteriologica, elettronica in programma per gli anni novanta, con teatro che andrà dal Nord Atlantico all’Oceano Indiano, dalla Spagna alla Siberia. Altro esempio sintomatico: il Psi che, dopo la sua conversione elettoralistica all’antinucleare, opta di colpo per il dispiegamento nucleare nel Golfo, punto focale dell’Air land battle 2000. Da noi sollecitato per qualche anticipazione su questo suo libro, il compagno Dario ha scelto di ‘buttare giù’ (parole sue) il testo che qui pubblichiamo, versione, nella forma e nei limiti dell’articolo, dell’esegesi e dell’ideologia imperante in era atomica. Chi fosse interessato al libro, può rivolgersi direttamente a Dario Paccino, via Poggio Verde 40, 00148 Roma.
Sia Dio, sia l’Evoluzione, l’artefice del sistema della vita sulla Terra, l’uno o l’altra dovettero risolvere preliminarmente un problema fondamentale: l’utilizzazione biologica dell’energia del Sole sprigionata dalla fusione nucleare.
Centotrenta, centocinquanta milioni di chilometri dividono il nostro pianeta dalla stella cui deve l’alternarsi di giorno e notte, e tuttavia neanche questa distanza bastava a impedire alle radiazioni solari di condannare alla sterilità la Terra. Cosa fece allora l’artefice? Schermò il pianeta con atmosfera e ozono, e così l’energia solare non costituì più la negazione della vita, e divenne, insieme con acqua e terra, sua fonte e garanzia di continuità. Un problema risolto con la lacuna dell’operatività perniciosa dell’ultravioletto, e con combustibile nucleare.
L’ultravioletto, comunque, é una delle componenti – e neanche la più fastidiosa – dello spettro delle avversità che s’accompagnano con l’esistenza. Quanto al combustibile nucleare, ce n’é ancora tanto da poter alimentare la vita per altri milioni di anni. Quando però si smorzerà l’ultima fiammata, sette-otto minuti dopo s’involerà anche l’ultimo guizzo di luce sulla Terra, destinata – insieme con gli altri corpi del sistema solare – a gelo e notte perenni.
Un rimedio effimero dunque la schermatura del pianeta, dal momento che il sistema della vita, che ha potuto svilupparsi qui da noi, finirà con l’estinguersi come tutti i viventi, con la differenza che mentre per noi umani vita e morte sono speculari, e la nostra longevità é eccezionale quando tocca il secolo, il destino mortale della biosfera si compirà in miliardi di anni, e la sua scomparsa non sarà seguita da altre forme vitali.
L’apocalisse, intesa come irreparabile frantumazione del quadro naturale che conosciamo, é sicura, anche se non corrisponderà, stando alla Scienza, alla resa dei conti profetizzata dalla Bibbia. Sicuro comunque che anche per il sistema della vita, come c’é stato un inizio, ci sarà una fine, senza altre metamorfosi, per lo meno all’interno del sistema solare.
Se è vero che é la morte a dare senso alla vita, questo senso va esteso all’intera biosfera. Non è detto, naturalmente, che la morale della favola non possa essere diversa, ché, al pari dell’umanità, anche il contesto, in cui essa è inserita, ‘fa dubitare chi già dubita e fa credere chi già crede’ (1)
Considerazioni, in ogni caso, marginali. Quel che va rilevato è che quanto si è fin qui scritto era corretto in passato, quando la storia ’emergeva’ (2) dalla natura come una nave dall’oceano. La situazione non è più la stessa da quando la nave ha incominciato a minacciare la sopravvivenza dell’oceano: da Hiroshima (6 agosto 1945), quando la combustione nucleare (3) – responsabile il dominio americano – è calata sulla superficie terrestre. Con Hiroshima, e quel che ne è seguito, la biosfera ha perduto la garanzia d’una longevità protratta nel tempo quanto il fuoco nucleare del Sole. Ciò in connessione, oltre che dell’appropriazione da parte del potere politico dell’energia nucleare, anche dell’integrazione delle tecnologie di punta nella produzione civile e di guerra, per cui col semplice processo in corso di inquinamento, manipolazione, desertificazione, la biosfera potrebbe non farcela più in tempi relativamente ravvicinati.
Con Hiroshima e quel che ne è seguito, tutto è cambiato. L’atomo è il fulmine del Geova terrestre: il Potere nucleare. Peggio che al tempo di Sodoma e Gomorra e del Diluvio Universale, ché allora era in gioco solo la sorte dei reprobi, mentre ora ad essere minacciato è il sistema della vita. Quel che Dio o l’Evoluzione hanno fatto per rendere possibile il coesistere di potenza della natura fisica e affiorare della vita e, con essa, dello spirito, la potenza del dominio politico-militare ha reso precario, col rischio che tutto finisca ben prima dell’esaurirsi nel Sole del combustibile nucleare.
Le rose finite
Pietro Rossi, nel capitolo L’antinomia della ragione di stato del saggio Lo storicismo tedesco contemporaneo (4), così illustra il binomio potenza-spirito nell’ultimo esponente dello storicismo tedesco, Friedric Meinecke (p.495): `Lo stato muove dal terreno naturale, per giungere alla spiritualità; esso è natura, cioè potenza, e spirito – e lo è nel medesimo tempo; lo stato si realizza come kràtos e come àthos. II rapporto tra necessità e libertà, tra natura e spirito, viene qui a configurarsi come un rapporto tra kràtos e àthos, tra l’aspirazione alla potenza e l’aspirazione ai valori culturali. (…) Ma questa coesistenza (di kràtos e àthos, ndr) non è mai pacifica, é invece una coesistenza che si regge sul loro permanente conflitto. Kràtos e àthos – trascrive a questo punto Rossi dall’opera di Meinecke Die Idee der Staatsrason in der neueren Geschichte – insieme edificano lo stato e fanno la storia. Ma quanto è oscuro e problematico il loro rapporto reciproco ad ogni grado dello sviluppo, e soprattutto nell’agire dell’uomo di governo! Lo stato, per affermare la propria potenza, non si cura di rispettare i propri valori nella loro autonomia, ed anzi cerca di assoggettarli alla potenza stessa; e d’altra parte la realizzazione di tali valori implica la subordinazione della potenza allo spirito. In questa polarità, che è pure antitesi, la linea di comportamento di ogni sta (Sotto questa definizione vengono generalmente compresi una serie di autori che, per un verso o per un altro, hanno portato alle estreme conseguenze il rifiuto della società industriale e dell’organizzazione sociale contemporanea, cadendo spesso in vagheggiamenti reazionari di improbabili società arcaiche.
Non importa qui che Meinecke, partito dall’apologia della politica bismarckiana (l’unificazione della Germania attutata con una potenza senza remore morali, che avrebbe trovato la propria giustificazione nella cultura tedesca convertita al nazionalismo dalle guerre napoleoniche), risolva infine (dinanzi al catastrofico fallimento della realpolitiknella prima e nella seconda guerra mondiale, con tradizioni col rifugio nella trascendenza. L’importanza di Meinecke consiste nella fatale aporia in cui ha finito per cacciarsi il culturalmente poderoso storicismo tedesco che, da Dilthey a Weber, ha cercato di fondare una storiografia che prescindesse sia dalla speculazione motofisica di Hegel sia dal materialismo storico marxiano. Con lui, sulla strada, si è arrivati a una frontiera invalicabile: e infatti al di là, invece di nuovo, più elaborato storicismo, troviamo la fenomenologia di Husserl, l’esistenzalismo di Heidegger, lo psicologismo di Jaspers, tutte correnti di pensiero estranee al problema centrale della storia: il rapporto fra dominio e libertà, potenza e spirito, che Adorno affronterà in termini di dialettica negativa. “La sproporzione, rileverà (5), tra potere e ogni forma di spirito — ormai scaduto a luogo comune — è diventata così enorme da vanificare i tentativi, ispirati dal proprio concetto di spirito, di comprendere ciò che è predominante.”
Come avrebbe potuto ancora parlare di antinomia e sintesi di kràtos e éthos, dopo che aveva visto — prima nella Germania di Weimar, e, successivamente, in quella nazista, negli Stati Uniti (dove aveva trascorso l’esilio), e nella Germania Federale — che cultura è funzione del potere in un universo di esseri umani “amministrati” materialmente e spiritualmente? Se la cultura “aborrisce il lezzo (6), è solo perché essa puzza, perché il suo palazzo è costruito di merda di cane, come dice un passo grandioso di Brecht.
Anni più tardi dopo che fu scritta tale frase, Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell’arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscito a raggiungere e modificare gli uomini.” Cultura nel mondo “amministrato”, dove è maturata, insieme con Auschwitz, Hiroshima, può essere soltanto connivenza con un potere connotato dalla sua capacità di annientamento totale.
Il processo, emblematizzato, in frase preatomica, con Auschwitz, e che s’è mostrato poi, a Hiroshima, come irreversibile razionalità del dominio fondato sul terrore assoluto, ha privato la cultura d’ogni potenzialità propositiva Lukacs, che a tale potenzialità — entro la sfera del socialismo reale — credeva ancora, si riferiva ad Adorno, e, in genere, alla Scuola di Francoforte, come al Grand Hotel Abgrund (il Grand Hotel dell’Abisso): i fatti però hanno mostrato che l’impotenza propositiva inflitta a éthos a opera di kràtos, non conosce differenziazioni fra l’area occidentale di Adorno e l’area orientale di Lukacs: e se al tempo di Adorno qualche lembo di verità era ancora rintracciabile nella negazione, ora questa s’è banalizzata nel cantico della “flebilità” del pensiero, dello chic del disimpegno, che demanda agli “esperti” il problema del dominio, mentre l’altro (dello spirito) s’è inserito nel puzzle ermeneutico.
Siamo, in altri termini, all’atomo (il potere tecnologico, che su tutto comanda: natura, società, spirito) senza più le rose (la creatività culturale, sostituita dall’industria della cultura), esibita sul mercato in mucchio con le altre merci). Invece che il profetizzato passaggio di Marx dalla preistoria alla storia, dal regno della necessità al regno della libertà, s’è avverato il sinergismo della condizione naturalistica dell’uomo (quando la necessità obbediva era la stessa delle bestie) con la fase del più sviluppato sapere tecnico-scientifico della scienza umana, il sapere della storia umana, il sapere fondato matematicamente da Galileo astra dalla vita. Col risultato che, nell’adorazione, che ci viene spontanea, di rose finte (di plastica, scambiate per quelle che in passato costituivano il sorriso della vita, per cui anche i miseri s’accorgevano che il pane non basta, ci vogliono anche le rose), siamo incapaci di rivolgere l’attenzione alla realtà, che non è soltanto lo scandalo denunciato da Marx di una umanità mercificata, ma è pure un pianeta esposto — nell’eventualità della guerra nucleare e nel perdurare dell’ecocidio in atto — a una morte prematura rispetto a quella che l’attende, fra milioni di anni, per l’esaurirsi, nel Sole del combustibile atomico.
La storia prima e dopo Hiroshima
Nel caso che il pianeta non soccomba né per ecocidio né per conflagrazione atomica, la futura storiografia dovrà registrare una cesura senza precedenti nel corso storico, dialetticamente caratterizzato da continuità e discontinuità: il prima e dopo Hiroshima.
Narreranno che “prima” ci si dettero, via via, tra cominciamenti cosmologici. Ci fu un tempo in cui si attribuiva a divinità molteplici la creazione del Sole, della Terra, degli uomini. Poi si pensò (nel bacino mediterraneo) a un unico Dio creatore, quello biblico. Infine fu accolta la religione della Scienza.
Non è cosa da nulla, evidentemente, pensare un incominciamento invece che un altro, promanare da Dio o discendere invece da animali mai pervenuti all’autocoscienza.
Si consideri quando la Bibbia era presa sul serio così come oggi un trattato di biologia. Sul fondamento di quanto c’era scritto, gli umani si sentivano figli di un unico Padre celeste, e la vita era il banco di prova per dividere il grano dal loglio, gli eletti destinati alla beatitudine senza fine, e i dannati, privi di eterno della luce di Dio: un Dio così partecipe del dramma umano, da aver immolato il Cristo per aprire ai probi le porte del Cielo. Era il tempo delle due Città, la terrestre e la celeste, due emisferi dello stesso cosmo.
Impensabili, in questo quadro, nichilismo, disperazione labirinti kafkiani. Non che il Demonio fosse assente: come non ricordare l’Ecclesiaste che dileggia la speranza, e streghe ed eretici arsi vivi, e che anche allora si moriva più di malizia umana che di cause naturali? Ma ciò non può cancellare il senso di una vita indistruttibile nono- stante la morte, giacché l’Uomo era la parola dì Dio.
Tempi di scarsa mobilità, quando — secondo la parabola kafkiana — la Cina era tanto grande, che dovevano correr via anni perché nelle provincie più lontane arrivasse la notizia della morte dell’imperatore, per la quale si intrisala nel lutto quando ormai il successore regnava da tempo, e magari era già morto a sua volta. Un mondo con scarsi mercanti, e tutti di piccola taglia, ché il vero Mercante — il cui tocco tramuta l’universo in merce — era ancora di là da venire, avendo necessità per il proprio operare di velocità ultrasoniche così come il Guerriero di armi da ecatombe. Non per nulla Galileo, era figlio di una civiltà mercantile. Significativo pure il profeta della scienza come potere, Bacone, abbia soggiornato sulla Terra quando il suo paese stava per lanciarsi alla conquista del mondo.
Finì così che il posto di Dio fu preso dal commensurabile, dove non c’è metro di misura per l’Uomo, che è parola divina. Lì per lì parve una liberazione la scoperta che il Sancta Sanctorum era il luogo delle ragnatele. Ma poi —dal momento che l’Uomo non può vivere di solo pane si industriarono i sacerdoti della Scienza a scrivere la Bibbia del post-religioso. E venne l’Evoluzione. E si vide che non era trina come il mitico Dio biblico, ma duale, come le ruote della bicicletta, battezzate rispettivamente Caso e Necessità.
L’hegeliana fenomenologia dello spirito si tramutò nella più strabiliante storia della natura, alla cui anima (il processo evolutivo), tirando sbadatamente manate di fango su una tela, vien fatto di disegnare l’universo, Uomo compreso. Una cosa altrettanto, se non più, inspiegabile, della creazione biblica, con la differenza che in questo caso, essendo la faccenda gestita dalla Scienza, nessuno può dubitare che, col tempo, tutto troverà spiegazione.
Si è cresciuti, ché mentre prima ci si rimetteva a un mistero precluso a ogni conoscenza razionale, ora la spiegazione, sull’onda lunga della razionalità scientifica, è solo questione di tempo. Solo inconveniente (ma che vale ben la pena di accettare rientrando nel prezzo per essere adulti) che, al contrario della favola biblica, che non comportava nevrosi, la favola scientifica spalanca le porte alla schizofrenia, dal momento che per comunicare c’è bisogno della parola che non conosce limiti alla creatività, parola negata a sopravvivenza in un mondo racchiuso in formule matematiche, che servono per metter piede sulla Luna, ma del tutto inefficaci anche semplicemente per dare allegria al nostro cane, e indurlo a scodinzolare.
Garante che il gioco vale la candela l’Illuminismo, riuscito a persuaderci che nel passato, quando ancora non aveva preso forma il grande Mercante, era buio pesto. La luce, secondo questa nuova fede, è davanti a noi, basta che si vada nella sua direzione per guadagnarci la Gerusalemme celeste, la bengodi universale. Poco male dunque se, non appena si distolgono gli occhi dalla Tv, si rischia di perdere la testa nell’angustia di un palcoscenico, dove si paga anche l’aria che si respira per il breve tempo di una vita, dovuta a Caso e Necessità, e destinata a dissolversi, per quanto ci riguarda personalmente, in una buca brulicante di vermi voraci, essi pure figli dello stesso Caso e della stessa Necessità. A salvarci è la certezza che la Scienza lavora per noi, cosicché un giorno l’Uomo finirà per capire tutto, capire a segni, come i muti, in omaggio all’imperativo di Wittgenstein (la Razionalità fatta carne) di non dire ciò che non si può dire sul fondamento del tautologismo logico-analitico.
Si sia trattato dunque di politeismo, o di un Dio padre di tutti gli umani, o della Scienza che deterge l’anima dalle superstizioni religiose, sempre l’Uomo ha tratto dalle proprie miserie motivo di speranza. L’irreparabile, unilaterale discontinuità (senza più rapporto con il continuumstorico) s’è mostrata nel bagliore di Hiroshima, quando il carburante solare s’è fatto realtà terrena pregiudicando l’ordine di Dio, o dei-l’Evoluzione, che quel carburante hanno predisposto per rendere possibile il generarsi e dispiegarsi della vita.
L’ideologia atomica
Per questo Dio s’era mosso, incominciando col dividere la luce dalle tenebre? Questo l’interrogativo di chi, nonostante l’Illuminismo, continua a spiegarsi l’universo con la creazione divina. Interrogativo che vale anche per il credente nella Verità laica: il fine dell’Evoluzione era dunque quello di plasmare una specie — quella suprema, dotata di autocoscienza — che non sa far di meglio che determinare le condizioni per il proprio suicidio? (7)
Quesiti suscettibili di indurre una mostruosa mutazione genetica dell’Uomo, che deve senza posa riprodursi materialmente e spiritualmente, disporre, oltre che di pane e companatico, di divinità — religiose o secolarizzate che siano — donde vengano ragioni di speranza. Se si è evitata, nell’ambito del common sense, la catastrofe nichilista, si deve ai corifei della Scienza, che hanno elevato l’atomo a passaggio obbligato per l’unità di tutti i popoli della Terra e la conquista pacifica del sistema solare.
Si è incominciato con l’indicare nell’atomo (quando ancora l’Urss ne era priva) il pietrificante baluardo della Libertà, tramutandolo poi (fase dell’equilibrio del terrore) in sicuro, insostituibile paladino di pace. Poi, finita la fase della deterrenza (reciproca distruzione assicurata), il messia atomico è stato presentato nelle vesti dell’Sdi (Iniziativa di difesa strategica), cui immolare, se necessario, centinaia di milioni di vite umane, prezzo, tutto sommato, esiguo, considerati i benefici che conseguiranno dopo che, con un primo colpo definitivo (che non lasci possibilità di risposta), si espungesse il Male dal mondo, abbattendo così tutte le barriere politiche, e determinando, di conseguenza, le condizioni per la pace perpetua all’insegna della Libertà.
Inutile dire che, su questo punto, non c’è consenso da parte dei Signori del Male: ma anche per loro l’Sdi costituisce il punto di svolta, naturalmente con segno contrario. Si rinunci ad essa, dicono, e si bandiscano tutte le armi atomiche, e si faccia dell’atomo — con al fusione controllata — fonte inesauribile di energia, e ne verrà necessariamente un mondo di liberi e di uguali, tutti parimenti felici — anche se per qualche tempo continueranno ad essere straziati dalla fame — della grande, pacifica avventura spaziale, che porterà al controllo dell’intero sistema solare. Non predisse un loro antenato, Eugels, la fuoriuscita dell’umanità, grazie al progresso scientifico, da tale sistema, destinato al piombare, con lo spegnimento del Sole, nella notte eterna, per andare a colonizzare altri sistemi, altre galassie?
La Terra Promessa — grazie all’Sdi, o invece rinunciandovi — sarebbe finalmente a portata di mano: parola, rispettivamente, dell’Impero del Bene e di quello del Male, differenziati in questo: che all’Ovest si pone come prezzo quanto meno l’irreversibile distruzione del Vecchio Continente, mentre per l’Est basterebbe tirare i remi in barca della corsa al riarmo, finanziando il progresso scientifico, con gestione delle due superpotenze, alla liberazione delle avversità naturali e storiche che hanno sempre accompagnato il cammino dell’Uomo. Identica però, in tutt’e due i casi, la visione di fondo: la Scienza come il Deus ex machinache può colmare le lacune del Creatore, o, se si vuole, accelerare il trend evolutivo, realizzando, in chiave tecnocratica, il passaggio, profetizzato da Marx in ispirazione filosofica, della preistoria alla storia.
Nessun cambiamento, per questo aspetto, fra prima e dopo Hiroshima. Il Potere resta fermo infatti alle “magnifiche sorti e progressive”, e l’angoscia è dei pochi, provenga dall’impossibilità di individuare una qualsiasi relazione fra dominio atomico e una democrazia credibile, o invece dalla disperazione per l’evidente impossibilità di continuare a tener fede a una razionalità scientifica rivelatasi, estinguendo la tradizionale mediazione politica, che grondava sì lacrime e sangue, ma che comunque permetteva il perpetuarsi del ricambio generazionale.
In effetti mentre prima di Hiroshima era, per lo più, la politica a comandare al fucile, ora è il terrore atomico, che comanda non solo alla politica, ma allo stesso agire comunicativo, stravolto, in puro verbalismo, cosicché anche il terrore si banalizza, ed è un vanto “pensare debole”, o addirittura non pensare affatto, dialogando e concionando come personaggi di Jonesco.
Hiroshima, in altri termini, non ha solo proiettato sul mondo il cono d’ombra dell’apocalisse: ha dato pure — a chi può fare del pianeta pattume radioattivo — in possibilità di sostituire gli strumenti dialettici della comunicazione con gusci vuoti verbali, col risultato che la subalternità dei popoli non ha più parole di ribellione nédi consenso, semplicemente è parlata dal Potere.
L’altra faccia dell’ideologia
Resta pur sempre, tuttavia, un’estremizzazione lo scenario proposto da Renato Curcio (8) di una società composta di “corpi ritualizzati” che abbaia con “linguaggi irritati”. Un approssimarsi a questo universo di teratologia cibernetica è bensì avvertibile nelle grandi metropoli del mondo: ma l’esperienza quotidiana ammonisce che è proprio da lì che si leva la denuncia della minaccia di estinzione prematura del genere umano per ecocidio e olocausta nucleare.
Anche quest’aspetto però è parziale così come quello contrapposto di Curcio. Intanto si resta alla denuncia fine a se stessa, del tutto estranea a politiche ad hoc , che comporterebbero —semplicemente per arrestare il processo d’ecocidio in atto e una corsa al riarmo che costituisce la fame — il rivoluzionamento di tutto, dai quotidiani standard di vita, ai vigenti modelli di sviluppo fondati, all’Est e all’Ovest, sulla di lapidazione delle risorse umane e naturali. D’altra parte Hiroshima è stata sì una rivelazione, ma anche una conferma. La vocazione al suicidio della specie fu evidenziata dalla prima guerra mondiale, inaugurata nel generale tripudio, con lancio di fiori ai soldati portati al macello. Vero che il carnio finì per determinare, per reazione, l’Ottobre rosso, che però, invece che aurora della palingenesi, si rivelò una mutazione interna al capitale, dotata di margini sufficienti per la realizzazione del socialismo reale, che oggi, con Gorbaciov, può ben definirsi il capitalismo dal volto umano, perché almeno garantisce lavoro salariato, divenuto privilegio in Occidente. (9)
Fu proprio Lenin a lanciare lo slogan “socialismo uguale soviet più elettrificazione”, come dire parole e decisione assembleari più il dispotismo tecnologico dei Tempi moderni di Chaplin. Un abbaglio di Lenin, si dice, quasi che lo stesso Lenin avesse potuto indirizzarsi diversamente. Il mercato e le esigenze della difesa imposero alla “patria del socialismo” di affrettarsi a funzionare al più presto, qualunque fosse il costo da pagare, come l’America di Ford.
Se abbaglio ci fu, nell’aver creduto che l’alta tecnologia, incorporata nella produzione potesse essere finalizzata altrimenti che in America, e cioè alla soddisfazione dei bisogni umani, anziché alla valorizzazione del capitale. Magari, volendo, questa tecnologia potrebbe anche venir bene per i bisogni umani, quanto meno per quelli del Nord sviluppato: sta di fatto comunque che è con essa che si è pervenuti ai sistemi d’arma atomici e alla cibernetica della comunicazione per la cattura del con senso. Non è un caso, che l’Urss, se non fosse stata invasa e distrutta per un terzo dai nazisti, sarebbe probabilmente arrivata prima dell’America all’atomica, così come non è un caso che ai giorni nostri si legge in Novosti (10) che in Unione Sovietica “i computer sono considerati un mezzo di sostegno al rapporto dell’uomo (dei gruppi sociali o della società nel suo complesso) con il mondo naturale o artificiale, un mezzo di comunicazione fra gli uomini, nonché un mezzo di sviluppo del loro mondo spirituale. I personal computer per noi sono soprattutto uno strumento per evidenziare l’intima ricchezza umana e le capacità individuali, e per realizzarle. (…) Siamo d’accordo con la tesi di Alberi Schweitzer secondo cui ‘una cultura che sviluppi l’aspetto materiale senza sviluppare parallelamente quello spirituale (la comunicazione computerizzata!, ndr) è simile a una nave che, senza il timone, perde la manovrabilità e inesorabilmente si dirige verso la catastrofe’.”
Scriveva nel 1855 il capo Sealth, della tribù Duwanish, all’allora presidente americano Franklin Pierce: “Noi sappiamo che l’uomo bianco non capisce i nostri motivi. La terra non è sua sorella, ma sua nemica. Non ci sono posti quieti nelle città dell’uomo bianco. Nessun posto dove sentire lo stormire delle foglie in primavera o il ronzio delle ali degli insetti”. “E concludeva con parole che, a oltre un secolo di distanza, risuonano profeticamente: “I bianchi passeranno, forse più presto di altre tribù. Continuate a contaminare la casa dove vivete, e una notte — quando i bisonti saranno stati tutti massacrati, i cavalli selvaggi tutti domati, e i panorami delle fertili colline sfigurati dalle linee dei fili che portano parole — soffocherete fra i vostri rifiuti.” (11)
Gli indiani delle grandi praterie americane non si sono fatti assimilare dalla nostra civiltà tecnologica. Cosa che può anche proporre il quesito se il loro pensiero, nonostante le apparenze, non fosse ben più profondo di quello sepolto nei nostri pantheon del sapere. Sta di fatto però che, proprio perché non assimilabili, sono scomparsi come popolo, e che ai pochi superstiti non resta che la scelta fra farsi massacrare in un ultimo, disperato combattimento, o spegnersi a fuoco lento nell’emarginazione.
Ora Lenin era un bianco, che intendeva liberare il mondo dagli oppressori. E non poteva perciò rinunciare alla loro arma suprema: una tecnologia onnipotente con capitale incorporato, modellata per riprodurre sempre più celermente e abbondantemente, in pace e in guerra, capitale.
Il dilemma è dunque fra la consapevole scelta suicida dei pellerossa o un rivoluzionamento illusorio che, attraverso la tecnologia, finisce con l’omologarsi col nemico collaborando con lui alla liquidazione del genere umano?
Forse sono pensabili anche alternative diverse, pensabili, e comunque da ricercarsi: certo è che l’altra faccia dell’ideologia del Potere la prospettiva di un mondo non più minacciato da atomo, inquinamento, desertificazione, teratologia fisica e spirituale, raggiungibile a cavalcioni del dominio atomico e limitato alle aree sviluppate. Mai come oggi si è tutti nella stessa barca, “sviluppati” e “sottosviluppati”, per cui la salvezza, se è ancora possibile, è di tutti o di nessuno.
Quel che conta
In ogni caso — se salvezza ci sarà — non potrà trattarsi di processo indolore; e d’altra parte, qualunque sia il destino, che almeno se ne abbia coscienza, prendendo atto della realtà.
Reale è che l’atomo non ha risolto, e mai potrà risolvere (neanche in caso di pacifica cogestione del mondo da parte delle due superpotenze) le contraddizioni sociali all’interno delle nazioni e su scala mondiale, che promettono convulsioni sempre più catastrofiche col progredire delle tecnologie produttive (dilatanti disoccupazione e gap Nord-Sud) e di annientamento. Gheddafi, che non perde occasione di dire quel che tutti pensano, già l’ha detto: senza arsenali atomici, la nazione araba non potrà mai riscattarsi dalla sua sudditanza agli attuali padroni del pianeta. Inutile osservare che la nazione araba esiste solo sulla carta, e che i suoi arsenali atomici per ora sono un miraggio. Il che non toglie che un giorno o l’altro non possa esplodere un ordigno atomico in qualche metropoli così come oggi esplodono auto imbottite di tritolo.
Ammonirono i pochi scienziati dissidenti che avevano partecipato alla costruzione della prima “bomba”: se la si usa ora che, con la sconfitta del nazismo, non è più necessario, si scatena una corsa senza fine a livelli sempre più atti di terrore, trattandosi di arma cui non è opponibile difesa, e che si può sperare di mantenere inattiva solo con un’incessante gara a potenzialità terroristiche sempre più sviluppate. Quanto è avvenuto dopo Hiroshima ha confermato la previsione. L’ha confermata nel rapporto Est-Ovest. Ora è il momento del Sud, come fanno presagire situazioni tipo quella mediorientale.
“In un sondaggio tra esperti militari, riferisce Noam Chomsky (10), il 55 per cento ha classificato i conflitti del Medio Oriente come la causa più probabile di guerra nucleare, e il 16 per cento ha indicato la possibilità di scoppio accidentale, in conseguenza dei progressi tecnologici in campo bellico.”
Lì, in quello che è detto Medio Oriente, e che in realtà comprende l’arco che va dal Mediterraneo centrale all’Oceano Indiano, è ormai luogo comune che, scartando la capitolazione, non c’è alternativa alla pratica del terrore quando il Dominio mondiale pratica il terrore in misura direttamente proporzionale alla perdita di consenso: di qui il fondamento del giudizio degli esperti militari riferito da Chomsky. A ben considerare il dilemma resa o risposta terroristica è il filo rosso che percorre la storia da molti anni, e non solo in Medio Oriente. Non fu il rovesciamento terroristico del governo Allende nel ’73 la ragione principale della conversione di Enrico Berlinguer al compromesso storico, da leggere come resa incondizionata alla Dc in cambio di un avallo di quest’ultima circa l’affidabilità atlantica del Pci? Quel tempo — ora che l’Urss è inequivocabilmente disponibile a garantire, per quanto riguarda, lo status quo mondiale senza più alcun culto per la “liberazione dei popoli”, chiedendo come contropartita lo stop della corsa al riarmo e alla ricerca bellica — è ormai lontano. Ma come non tenere conto nell’indagine sulle ricerche delle cause della débacle della sinistra? La “sconfitta della classe”, piuttosto che al fantomatico “post-moderno” e inerente “crollo dell’ideologia”, non è legato per tanta parte al terrorismo americano che portò Pinochet al potere? E non è risibile, così stando le cose, la nenia sulla “fine della storia”? Risibile nella duplice accezione: empirica a concettuale, ché sconvolgimenti ben più grandi di quelli che hanno rivoluzionato il mondo culturale-politico nei quattordici anni dal ’73 a oggi sono da attendersi da qui alla fine del millennio indipendentemente da come si metteranno le cose con l’Sdi; e d’altronde, quanto a concettualità, “fine della storia”, se le parole hanno un senso, vorrebbe dire fine dell’ordine del discorso, fondato su passato e presente, continuità e discontinuità, risaputo e innovativo, il che è impensabile anche quando kratos non può dare più alcuna credibilità riguardo a una sua possibile sintesi con éthos.
Kràtos oggi è cosiffatto che si è tornati, in scala planetaria, al tempo del cuius regio, eins religio, quando la fede dei sudditi non poteva diversificarsi da quella del principe. A Est si deve far propria la fede nel “socialismo”, così come all’Ovest la fede nella “democrazia”. Quanto al Sud, il non allineamento è una metafora, che non muta la realtà: lo stare, più o meno vistosamente, da una parte o dall’altra, con le rispettive popolazioni coattamente “socialiste” o “democratiche”, rispettivamente credenti nel Babbo natale del Cremlino, che fa intravvedere giustizia ed eguaglianza per il mondo intero purché sia bandito l’atomo di guerra, e nel Babbo Natale della Casa Bianca, che prospetta un presepe con un nuovo Bambin Gesù, annunciato ai popoli, invece che dalla stella cometa, dalle atomiche spaziali che segneranno il definitivo trionfo del Bene sul Male.
Questo importa: capire, al di là della foresta ideologica che impedisce la visuale, come vanno oggi le cose nel mondo. E per questo si deve salire sul muro per vedere, da una parte e dall’altra, fedeli e miscredenti, i primi (all’Ovest) persuasi che il migliore dei mondi possibili risulti la totale mercificazione operata dal capitalismo, o che questo mondo (credenti dell’Est) si identifichi nel socialismo reale; mentre i secondi si illudono che basti segnare il muro, da una parte e dall’altra, con lo stesso graffito di segno contrario: John go home, Ivan go hom, quando non guazzano nel brago della “fine dalle ideologie” e della “perdita di senso”.
Importa capire, in una parola, che neanche con artigli atomici kràtos è in condizioni di liberarsi di éthos dal momento che, come già vide Platone, anche i predoni hanno necessità di elementi di coesione interna. Naturalmente quegli artigli contano, tanto che oggi la guerra, che in passato era la temporanea sospensione mediatrice della politica, attualmente è il burattinaio dell’apocalisse, inesauribile nelle sue fantasie belliche proiettate nei cosiddetti punti caldi del mondo, dove finora sono rimaste circoscritte per il terrore suscitato dallo stesso burattinaio di sconfinamento nello scontro risolutivo, che spegnerà la vita sulla Terra. E tuttavia la scelta, pena, altrimenti, la rassegnazione al suicidio morale, resta quella stessa di Madre Coraggio.
Era, come sappiamo, vivandiera al seguito delle truppe, e un bel giorno si trova senza più neanche un figlio, strappato via, uno dopo l’altro, dalla guerra. Gliene resterebbe uno, Eilif, se potesse immaginare dove ritrovarlo, ammesso che sia ancora vivo. “Non hai proprio nessuno”. le chiedono i contadini, “nessuno da cui andare?” “Sì”, dice, “Elif”. “Lo devi trovare”, sentenziano i contadini. “Ma dove in quell’universo di devastazione? E così, quando percepisce i pifferi e i tamburi di un reggimento diretto al campo di battaglia, grida ai soldati: “Ohé, gente, prendemi con voi!” E il dramma si chiude col canto, chi all’inizio dà voce la stessa Madre Coraggio: “Con le sue feste, coi suoi pericoli, I la guerra già dura da un pezzo. / Può durare cent’anni, la guerra, / ma ci ha poco guadagno chi è povero. I Mangia sporcizia, veste di stracci, / il comando gli ruba la paga… / Ma può ancora venire un miracolo, / e ancora è lontana la fine! / Vien primavera. Cristiani, sveglia! / La neve sgela. I morti dormono. I Ma quel che morto ancora non è I ora il cammin riprenderà.” (13)
Dario Paccino
Note
1) Frank Kafka, Schizzi, parabole, aforismi, Mursia, Milano 1985, p. 253: “Misurati con l’umanità, essa fa dubitare chi dubita, fa credere chi già crede.”
L’attuale “contesto”, nel quale qualunque incominciamento comporta una fine, si tratti di individui, popolazioni, pianeti, galassie, ci viene da una componente fondamentale della nostra cultura, il naturalismo, impostosi, nell’era moderna, come congeniale strumento ideologico della borghesia. Esso è stato l’arma più efficace, sul terreno ideologico, per la obsolescenza di Dio leggittimatore del dominio. Se la natura è forza autonoma, chiaro che il rapporto universale-particolare è quello teorizzato da Spinoza con natura naturans e natura naturata, categorie laiche nelle quali non trova posto Dio se non immanentisticamente, un Dio alieno dal far dono al Signore del carisma, autorizzandolo così a comandare al Servo. Nego!, che pur era interessato a uno stato forte, e dunque al privilegiamento dell’universo, sta al gioco, facendo del Sianore colui che, per essere riconosciuto, sfida la morte, al contrario del Serve che alla vita paga lo scotto con subalternità e lavoro. Rousseau, che pur spiegava spiegava i mali del suo tempo col decadimento dell’uomo dalla primitiva felicità dello stato di natura, indica a rimedio il contratto sociale, nuova legittimazione del dominio con un’altra divinità altrettanto fantomatica di quella tradizionale: la Sovranità Popolare.
Il naturalismo, nonostante l’implicito meccanicismo privo di finalità, ha soddisfatto tanto il borghese che preparava la propria rivoluzione, quanto il socialista “scientifico” che, materializzando l’idealismo hegeliano, concepiva la storia come divenire dialettico indirizzato alla liberazione dai lavoro salariato con l’abrogazione della dualità Signore-Servo.
E Ugo Foscolo che s’avvede che il naturalismo, se ha contribuito a rendere possibile la rivoluzione francese dell’ultimo scorcio del Settecento, ha posto l’Uomo alle prese con un determinismo, per cui tutto quello che è dev’essere; e se non dovesse essere non sarebbe”, cosicché, visto il mondo com’è, le distinzioni di diritto e di fatto, di natura e di società, di ragione e di passione, guastano ogni verità: tutto è sano indivisibile, incomprensibile, e non è se non perché dev’essere”. (Lettera dell’8 maggio 1809, citata da Bruno Dirai, La posizione storica di Giacomo Leopardi Einaudi, Torino 1974, p. 39)
Non per questo Ugo Foscolo perdette gusto per le scelte politiche, per mantener fede alle quali, infine, nonostante gli allettamenti dell’Austria da lui combattuta, prese la via dell’esilio. Tutto il contrario di Leopardi che, dopo aver guardato alla natura, nei verdi anni della meditazione “filosofica”, con gli occhi di Rousseau (senza avvedersi che la visione di quest’ultimo non era solo speculativa, ma anche politica), scopre, pensandoci meglio, che la natura, per il fatto di essere meccanica, senza scopo che non sia quello di creare ciecamente, e ciecamente distruggere, è una tragica beffa, una mostruosità tirannica contro la quale ribellarsi così come Bruto si ribellò alla tirannia di Cesare, accettando storicamente la morte. Di qui il quesito che pone al Giordani (lettera del 24 aprile 1828, stessa fonte, p. 44) se “la felicità de’ popoli si possa dare senza la felicità degli individui, i quali sono condannati all’infelicità dalla natura, e non dagli uomini, né dal caso.”
La visione naturalistica ha generato, con i miraggi trionfalistici della metafisica scientifico-borghese, anche tragiche rotture rispetto al passato, quando si pensava che la storia avesse una sua provvidenzialità, e un telos (un fine), che riscattava sofferenze e morte.
Secondo il filosofo tedesco Gúnther Anders (L’uomo è antiquato, il Saggiatore, Milano 1963), il nichilismo russo, a cavallo fra l’Ottocento e questo secolo, sarebbe uno degli esempi più clamorosi della collisione fra il mondo “provvidenziale” di un paese arretrato come la Russia e il naturalismo occidentale galvanizzato dall’industrialismo trionfante.
Fatto sta comunque che l’approdo della ricerca scientifica è quello illustrato con gelido orrore da Leopardi in quello che Da Sanctis riteneva la focalizzazione del pessimismo leopardiano, il Frammento apocrifo di tratone di Lampsaco: un perenne succedersi di “modi” della materia (vite e mondi) ad opera di una natura protesa così a creare come a distruggere, senza curarsi della tragicità che ciò comporta. Che tale realtà abbia o no un senso è quesito analogo a quello dell’esistenza di Dio, dopo che Kant ebbe dimostrato l’impossibilità logica di dedurre tanto l’esistenza che l’inestistenza del divino. È Leopardi che sbaglia a fidarsi, sulla base dei fatti scientificamente accertati, della tesi dell’insensatezza, così come sbaglia un gigante della filosofia, Hegel, nell’identificare al tragica vicenda storico-naturale col divenire dello Spirito attraverso la triade del porsi, negarsi e della sintesi. Felici errori, cui dobbiamo il canto del pastore errante, che non sa dove tende il “vagar suo breve”, e il poema hageliano della tragedia del Verbo che si fa carne, due fuochi duraturi fra i pochi accesi nei secoli per rendere le notti meno buie, il freddo più tollerabile. Ma chi può dire, scorrendo da un fuoco all’altro, nel nostro Occidente e nel resto del mondo, come stiano veramente le cose?
Chissà che la saggezza non sia di Kant che, dopo aver fissato il limite logicamente invalicabile, si decide ad accogliere, mosso da pietà, la versione del divino consustanziato finalisticamente al naturale, versione che quantomeno consente la fondazione di una morale, preclusa al naturalismo. E non va scorta pietà anche in Leopardi che, ormai prossimo al compiersi del proprio destino, invoca nella Ginestra, passando sopra al suoi pessimismo sulla natura umana, l’affratellamento di tutti gli uomini, perché si realizzi finalmente “l’onesto il retto conversar cittadino”, e abbiano saldo fondamento “giustizia e pietade”?
2)La “storicità come emergenza dalla vita” è figura di Georg Simmel (1858-1918).
3)Hiroshima e Nagasaki, per l’esattezza, furono vittime della fissione atomica: la fusione dell’atomo, a somiglianza di quanto avviene nel So le, fu realizzata più tardi, con la bomba termonucleare.
4) Einaudi, Torino 1956.
5) Theodor Adorno, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, Edizione 1980, copyright tedesco originario 1966, pp. 3-4.
6) Ivi, p. 331.
7) Chiede angosciato chi ritiene che la storia sia finita (Pietro Barcellona, L’individualismo proprietario, Boringhieni, Torino 1987, p.12): “è tutto ciò il compimento di un destino evolutivo segnato dall’incompletezza biologica dell’Homo sapiens, oppure l’esito di un processo che ha all’origine un atto fondativo e una decisione apparentemente rimossa?”
8) Renato Curcio, Bull Roarer & Flauti, Grafiche Panico, Gelatina (Lecce) 1987.
9) Sì, a ben considerare, un controsenso “capitalismo (sfruttamento) umano”. L’espressione tuttavia regge sul fondamento del discorso dominante, secondo il quale non è più pensabile socialismo (liberazione), dato il manifestarsi, nelle ricche nazioni del Nord, delle cosiddette società dei due terzi, il 60-70 per cento di integrati e soddisfatti, e la restante percentuale di emarginati. Basterebbe dunque, secondo questa logica, dare pane e companatico (anche con l’economia sommersa) ai due terzi di un arco politico-geografico, che rappresenta sì e no un quinto della popolazione mondiale, per far disperare dell’emancipazione sociale dell’umanità. E allora perché far boccacce al socialismo reale, un Welfare State che, sul piano meteriale, soddisfa probabilmente ben più dei due terzi della popolazione? Se l’Urss non è portata a modello, è solo perché la decisionalità suprema è dello stato anziché delle multinazionali. E in più c’è il fatto che, senza un’Urss impero del male, come giustificare il privilegiamento dell’accumulazione con l’industria bellica?
10) 15 maggio 1987.
11) Notiziario Pro Natura, Torino 1977.
12) Noam Chomsky, La quinta libertà, Elèuthera, Milano 1987, p. 285.
13) Bertolt Brecht, Teatro, vol. Il, Einaudi, Torino 1951, p. 228.
Una cosa sapeva Madre Coraggio: che la guerra, di cui sempre i meno forti, in particolare i poveri, fanno sempre le spese, non è esorcizzabile con pie intenzioni e formule magiche. Basta che convenga a un singolo kràtos, e si ha guerra guerra, anche se un altro kràtos non la vorrebbe. Èstato Bitler, incarnazione negli anni trenta dell’imperialismo tedesco, antagonista di quello franco-britannico, a puntare allo scontro armato, e ne è venuta la seconda guerra mondiale. Successivamente a dare il via alla guerra fredda è stato Truman, e Stalin ha accettato la partita, che dura tuttora. Nessuno può escludere, naturalmente, che se Stalin, alla fine della seconda guerra mondiale, si fosse trovato nelle condizioni della leadership americana (monopolio atomico, egemonia economia mondiale), la guerra fredda, e la corsa a un riarmo che nessuno può dire se e quando potrà arrestarsi, sarebbero venute da lui. Stando alla storia, l’intimidazione all’Urss, con Hiroshima, è venuta dall’America, spintasi ormai, nell’escalation del ricatto atomico, sulla soglia dell’Sdi, di presunto scudo invulnerabile che consenta il colpo di spada decisivo contro l’antagonista.
È nella tensione di questo braccio di ferro delle due superpotenze (che fra l’altro ha comportato un drenaggio di ricchezze soprattutto in danno del Sud percepibile nel suo attuale indebitamento di oltre mille miliardi di dollari), che nel Terzo e Quarto Mondo si è continuato a far guerra, con un bilancio di morti calcolato in molte decine di milioni. Semplicemente magico dunque il pacifismo, persuaso che basti, per scongiurare la guerra, la chimerica “cultura della pace”. Dove si vada a parare quando il pacifista sia intellettualmente corretto, lo mostra il citato Giinther Anders (v. nota 1). Ebreo, profugo in America con l’Intelligenza tedesca antinazista, ha capito, dopo Hiroshima, che non è più il caso di continuare nel filosofare di sempre, divenuto kràtos intrinsecamente nichilista per il solo fatto di disporre dell’arma dell’annichilimento totale, e la situazione, quanto in morale, mostra l’individuo standard che, per lavorare, deve scegliere fra coscienza del bene e del male, e coscienziosità professionale, funzione quest’ultima della produzione di merci decise unilateralmente dal padrone, col solo criterio della redditività economica e dell’espansione del comando, si tratti di armi, di cadaveri, di esemplari consumistici, e magari di cose utili purché smerciabili a prezzi remunerativi, cosa che postula, per quanto riguarda l’industria alimentare, la necessità di penuria per i quattro quinti del genere umano.
Nelle opere di Anders, pubblicate in Italia (oltre il citato L’uomo è antiquato, Essere o non essere– Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi 1961, e La coscienza al bando – Il carteggio del pilota Claude Eatherley e di Giinther Anders, Einaudi 1962), si trovano pagine di grande acutezza, ricche di pathos morale e di sottigliezza discettiva, col limite perà del pacifismo, del sogno di umanità liberata dall’atomo nella consapevolezza della comune condizione di ostaggio nucleare. Anders si appella a questa umanità, speranzoso che gli uomini, anche se ridotti a pura fungibilità produttiva, finiscano col rendersi conto del pericolo, e, con la forza del numero, costringano kràtos a rinunciare all’atomo. Nell’astrazione dalla storia, che è propria del pacifismo, Anders non si è accorto che uno dei due Signori dell’Apocalisse, Gorbaciov, ha proposto, a Reykjavik (ottobre 1986), la liberazione dell’umanità dall’atomo di guerra entro il duemila. L’ha fatto per il suo interesse politico, dimenticando, per altro, di dare l’ostracismo anche all’atomo civile, quello delle centrali, che, in una eventuale guerra con “semplici” armi convenzionali, contaminerebbero la terra quanto basta per pregiudicare il sistema della vita. Da questo punto di vista ha ragione Anders quanto nelle Tesi sull’epoca atomica,preparate come relazione introduttiva del sesto congresso internazionale dei Medici per la Prevenzione della Guerra Atomica (luglio 1986), sottolinea che “la distinzione tra l’uso bellico e pacifico dell’energia atomica è folle e ingannevole”. Comunque la proposta di messa fuori gioco dell’atomo di guerra c’è stata, e non può considerarsi positiva, tutto il contrario della risposta dell’altro grande, Reagan, che l’ha respinta, anche se gli va riconosciuto che altrimenti avrebbe determinato una discontinuità rivoluzionaria nella politica americana inaugurata con Hiroshima.
Ma come poteva capire Anders, attento più alle idee che alla storia, che uno spiraglio s’era aperto col “nuovo corso” di Gorbaciov? Ha visto soltanto che, nonostante Cernobil, tutto continua come prima, e ha perso la fiducia di convincere gli uomini con le proprie argomentazioni che andava sviluppando dal tempo di Hiroshima. Ha capito allora (rara eccezione nell’universo culturale del Nord) quel che sanno per dure esperienza storica i popoli oppressi del Sud, e cioè che le cose non stanno come sosteneva Clausewitz (la guerra essere la persecuzione del rapporto politico con l’inserimento di altri mezzi), essendo “la pace di oggi la prosecuzione della guerra con altri mezzi”.
E così si è accinto, all’età di 84 anni, a scrivere un libro su “stato di necessità e legittima difesa”. “In tutti i codici, perfino nel diritto canonico, dichiara (Il Manifesto, 25 luglio 1987), la violenza in stato di necessità è non solo consentita, bensì raccomandata”.
Ergo, dinanzi alla violenza atomica “non c’è altra alternativa che far sapere espressamente, a chi si ostina a minacciarci col nucleare, che d’ora in poi, l’uno dopo l’altro, dovranno essere considerati selvaggina in regime di libera caccia.” Pacifico che Anders non è impazzito, così come non sono pazzi i kamikaze che immolano la vita contro il ritorno delle cannoniere (questa volta atomiche). L’uno e gli altri sanno che il kràtos nucleare, stravolto dalla propria razionalità tecnico-scientifica, non ha più alcun rapporto non si dice con éthos, ma con la stessa Zagione. C’è tuttavia differenza fra Anders e i Kamikaze, giacché questi ultimi gareggiano, sul terreno dei fatti, col terrorismo dei padroni del mondo, mentre lui passa semplicemente dalla magia della speranza alla magia della disperazione considerato il suo contesto storico.
Un caso, quello di Anders, da rispettare, nello stesso tempo che deve valere come insegnamento, l’insegnamento appunto di Madre Coraggio, cui la vita ha insegnato che anche la pace è guerra, e che non se ne esce con la ricerca di rifugi fittizi.